Buonasera
fandom del mio cuore!
Sono
consapevole dei secoli passati
dall’ultimo capitolo e mi scuso prostrandomi ai vostri piedi!
Non accadrà mai
più! Un enorme grazie a ognuno di voi!
Sperando,
al solito, di non aver fatto troppo male, buona lettura!
S.
*
Sherlock
esibì uno dei suoi migliori sorrisi sarcastici.
"Strano
che lei ponga a noi questa domanda" lo punzecchiò. "Lei
è colpevole
quanto noi".
Per
un secondo, il povero Martin sembrò spiazzato, arrossendo
fino alla punta delle
orecchie. Guardò il pavimento, non riuscendo a sostenere lo
sguardo accusatore
di Sherlock.
"Io
ho detto... io volevo fare una sorpresa a Benedict, in
verità" ammise,
strofinandosi i capelli come distrazione dallo sguardo penetrante e
indagatore
di Sherlock. “Io, insomma…è mio amico!
E’ mio diritto!” gridò, come se fosse
una giustificazione ovvia e inconfutabile.
Sherlock
ridacchiò e John cercò con tutte le forze di
imporgli una certa moderazione nel
fiume di deduzioni e saccenti arzigogoli che era certamente sul punto
di
prorompere dalle labbra del detective, e gli si parò
davanti, guardando sottecchi
Martin sempre più rosso in viso.
“Ascolta,
non è il caso…insomma, è comprensibile
che il Signor Freeman abbia voluto fare
un’improvvisata…”
tentò in tutti i modi di placarlo, ma Sherlock non gli diede
minimamente retta.
Il detective girò intorno al povero uomo in accappatoio,
agitandolo anche più
di quanto già non fosse e si portò un dito alle
labbra, picchiettandoselo
pensosamente. John scosse la testa, conoscendo perfettamente a cosa
quel gesto
faceva da preludio. Contemplò l’idea di fuggire,
lasciandoli soli, frenata solo
dalla solidarietà verso il pensiero del povero Martin in
balia del suo amante
spaventoso. Rimase fermo, immobile.
“La
stanza di sua moglie è soltanto ad un piano più
in alto, il buon senso suggerirebbe
che per una doccia lei avrebbe sicuramente dovuto recarsi
lì, come prima
scelta” Sherlock gli si avvicinò, scrutandolo ad
occhi socchiusi. “Invece lei è
venuto qui, da un suo collega, diciamo anche un suo amico
per dirla con parole sue. Questo a cosa ci porta?”.
John
sospirò, avvicinandosi a Martin e cercando di trasmettergli
quanto più appoggio
morale possibile attraverso lo sguardo. Gli occhi di Martin vagarono da
lui a
Sherlock, osservandoli con attenzione nella cupa luce della stanza, con
un
luccichio consapevole che andava man mano intensificandosi.
“Ci
porta a pensare che sia già successo. Che sia per il lui una
sorta di routine,
un qualcosa che il qui presente Signor Freeman è pienamente
consapevole non
sconvolgerà il suo amico. Perché è
già accaduto? Perché
accade…frequentemente?”
insinuò e John desiderò di poter sprofondare nel
pavimento seduta stante. Tastò
il marmo sotto di lui per costatare che ci fosse anche solo una remota
possibilità che il desiderio potesse avverarsi. Magari
avrebbe trovato il modo
di portare anche il povero imbarazzatissimo Martin con lui. Purtroppo,
a un
primo controllo la fredda pietra sembrò assolutamente
stabile. John mugolò.
“Senta,
io non so come lei sappia tutto questo, ma…”
Martin tentò di giustificarsi,
come se il tipo di fronte a lui non si trovasse anche lui in difetto,
essendo
entrato in quella stanza senza alcun permesso. Era incredibile come
Sherlock
tendesse a colpevolizzare gli altri quando lui si cacciava in
situazioni ben
più gravose.
“Ti prego, smettila, lo stai mettendo in
imbarazzo…” John cercò di mitigare la
foga deduttiva del suo compagno, che però sembrava
tutt’altro che intenzionato
a mettere fine allo sproloquio.
“Io
sono propenso a credere di sì. Insomma John, a parte nella
tua carriera
militare e la nostra vita insieme quando ti è capitato che
un amico venisse nel
tuo appartamento e si comportasse come se fosse a casa sua? Oltretutto
con la
possibilità di poter tranquillamente farlo nella stanza
della sua legittima
consorte come alternativa?”.
John
sobbalzò a sentirsi chiamato in causa. Cercò
disperatamente qualcosa di abbastanza
intelligente da dire.
“E’ tornato da un viaggio lungo, insomma,
poteva…averne bisogno!” disse, ma un
lampo negli occhi di Sherlock lo avvisò che avrebbe fatto
meglio a rimanere in
silenzio.
“Il
problema rimane lo stesso, infatti. Sarebbe dovuto correre da lei,
anche se il
loro ultimo incontro risale a pochissimo tempo fa rispetto
all’ultima volta che
ha avuto occasione di vedere Benedict, ma rimane il fatto che si parla
di sua
moglie e di un suo amico. E questo
è
il punto principale della faccenda. Perché lui è qui?” concluse Sherlock con la
voce pomposa e supponente che
accompagnava ogni suo brillante discorso. John aveva solo sempre
più voglia di
abbracciare Martin e portarlo via da quell’interrogatorio.
Martin
non rispose, rimanendo per un minuto buono in un silenzio imbarazzato,
giocherellando nervosamente con la cintura dell’accappatoio
spostando
freneticamente lo sguardo da John a Sherlock e viceversa. John poteva
quasi
vedere gli ingranaggi del suo cervello arrovellarsi alla ricerca di una
scappatoia. Poi, improvvisamente, spalancò gli occhi come
colto da una
rivelazione.
“Dio
mio, sì, sì sì!”
gridò, improvvisamente. “Siete voi, davvero. Ci
stavo
pensando, ma…” sussurrò poi, con voce
roca, e John poté quasi definirla
leggermente emozionata. Si voltò verso Sherlock, ancora con
espressione
scioccata. “Sapevo che non potevi ricordarmi così
tanto lui senza che…Dio, sei…Sherlock”
aggiunse ancora. Si voltò verso John con lo stesso identico
sguardo. “E tu…Oh
mio Dio, carriera militare, John,
vita insieme….” balbettò
l’uomo, passandosi una mano tra i capelli. “sei tu,
proprio tu! John!” quell’ultimo nome fu pronunciato
con una nota di riverente
orgoglio.
John
sorrise, annuendo, felice che Martin avesse trovato un momentaneo
diversivo per
eludere la conversazione. Il suo entusiasmo però, sembrava
totalmente sincero,
come se la realizzazione di trovarsi davanti a loro due avesse oscurato
tutte
le insinuazioni del detective.
“Sì,
siamo noi” rispose timidamente il dottore, con un sorriso
imbarazzato. “Ci
sarebbe piaciuto incontrarti in altre situazioni ma con
Sherlock… non si sa mai
cosa aspettarsi”. Martin sembrava indeciso tra il mostrarsi
ammirato,
sconvolto, o ancora terrorizzato dalla domanda in sospeso. Il suo viso
era un
variopinto cocktail di emozioni contrastanti.
Sherlock
sbuffò.
“John, sta palesemente cercando di scavalcare una domanda
scomoda. E per quanto
anch’io sia felice di conoscerlo sono ancor di più
curioso di svelare
quest’altarino”.
“Io
non sto cercando di eludere niente, Sherlock! Io sono davvero felice di
vedervi, di…conoscervi! E…sono venuto qui
perché… perché…Benedict
è un mio
amico, e ho pensato fosse molto deluso ed io
volevo…” guardò in basso,
abbandonando la cintura e strofinandosi nervosamente le mani.
“Beh, non avrebbe
molto senso negare qualcosa a te, vero?”.
Sul
viso di Sherlock si dipinse un ghignetto soddisfatto.
“Ovviamente no” rispose, supponente.
John
gli diede una pacca d’avvertimento sulla spalla.
Martin
tirò un sospiro di rassegnazione.
“Ecco,
io sono venuto qui dopo aver seguito la diretta” ammise, le
guance di un rosso
quasi fosforescente nella penombra. “Insomma ero
già qui per fare una sorpresa
alla mia famiglia ma ho pensato che sarebbe stato un bel pensiero
passare da
Benedict per…per esprimergli la mia
solidarietà”.
Sherlock
annuì.
“Ed
era necessario essere mezzo nudo per farlo?”
insinuò, non riuscendo davvero a
stare in silenzio. John gli strinse il polso in una morsa
d’acciaio.
“Sherlock,
sta zitto” sibilò.
“Ecco
io…io pensavo che magari io e lui avremmo
potuto…” cominciò, boccheggiando come
un pesce fuor d’acqua. “Ragazzi, insomma, lo avete
visto. Io non ci posso fare
veramente niente”.
“Abbiamo
visto cosa?” rincarò Sherlock, che aveva capito
benissimo ma che si divertiva a
prendere pesantemente in giro il poveretto di fronte a lui. John
trovò
l’appiglio giusto per una sottile vendetta.
“Sai
benissimo cosa Sherlock. Insomma, non fare il finto tonto”
John sottolineò
tagliente, guadagnandosi un’occhiata glaciale da parte del
suo compagno. “Non
hai idea dei commenti che sono costretto ad ascoltare quando compare in
televisione” si rivolse poi a Martin.
Martin
sorrise, conscio di aver trovato una spalla e un complice in John.
Sherlock,
dal canto suo, sembrava totalmente sconcertato dalla piega che gli
eventi
stavano prendendo.
“John,
sta zitto” sibilò, cercando di minacciare il
dottore col solo ausilio dello
sguardo. John, per nulla impaurito, si sentì spronato a dare
il meglio di sé.
“Guarda,
non fa altro che parlare dei suoi occhi. E’ ossessionato.
‘Guarda lì John, che
meraviglia’, ’Guarda lì che bella
sfumatura di
azzurro assumono quando è accigliato’,
‘Dio John, perché non hai degli occhi
così’?”.
Sherlock
sembrava scioccato. Le mani erano contratte lungo i fianchi come fosse
pietrificato e le labbra paffute erano strette in una linea sottile e
corrucciata come se si stesse preparando ad esplodere. Cosa altamente
probabile, a guardarlo bene.
“John”
disse, seccamente, gli occhi che lanciavano dardi infuocati.
“Sei un uomo morto”.
John
sembrò cadere dalle nuvole mentre Martin li guardava ancora
entrambi,
decisamente più sollevato e in fondo abbastanza divertito
dall’intera faccenda.
“Ma
è la verità, Sherlock. Perché non
dovrei dirla? Martin qui ha tutto il diritto
di…apprezzare la bellezza esteriore e interiore del suo
amico quanto te”.
Sherlock
sbuffò, scuotendo la testa.
“John,
il punto qui è che lui non ha affatto intenzione
di…apprezzare solamente. E’
nudo lì sotto per l’amor del cielo!”.
“Sherlock…”
“Ha
chiari intenti…di un certo tipo,
John! Vuole consolarlo mediante vie
traverse, vuole rinfrancarlo…orizzontalmente”.
Martin
mugolò, frustrato.
“Mi
accontenterei anche verticalmente” aggiunse, senza nemmeno
più preoccuparsi.
Sherlock
saltellò sul posto.
“Sentito,
John?” Sherlock indicò Martin, battendo le mani.
“Lo ha ammesso! E adesso…”.
“Sherlock…”.
“Adesso
finalmente…”.
“Sherlock,
falla finita o racconterò dettagliatamente a Martin di
quella volta che ti sei
chiuso venti minuti in bagno con la copia del RadioTimes”.
Il
detective raggelò mentre Martin scoppiò a ridere,
come se non ci fosse un
domani.
“Tu
non oseresti”.
“Eccome
se oserei”, lo sfidò il dottore, incrociando le
braccia. “E oltretutto stiamo
perdendo tempo. Tempo che non abbiamo”.
“Che
razza di compagno sei, John?” lo rimbrottò
Sherlock, con sguardo da amante
tradito.
John
non fu colto impreparato.
“Uno
che ha imparato qualche trucchetto”.
Sherlock
alzò gli occhi al cielo.
Martin
si schiarì la gola, mettendo fine al battibecco tra i due in
modo gentile.
“Ecco,
proprio di tempo volevo parlare. A parte farmi prendere uno spavento
incredibile, a parte ammettere una cosa che non avrei detto nemmeno al
mio
miglior confidente, e a parte avermi fatto quasi desiderare di
liquefarmi
dall’imbarazzo” tossicchiò.
“come diamine avete fatto ad entrare qui e
soprattutto…perché?”.
Sherlock
gettò gli occhi al cielo e poi si guardò intorno,
adocchiando di tanto in tanto
John con un’espressione che sembrava quasi gridare ‘infido traditore’ ad ogni
sguardo, e infine tirò fuori dalla veste
la tanto sudata statuetta.
Martin
strabuzzò gli occhi.
“Quello
è un Bafta?” domandò, nonostante
conoscesse benissimo la risposta.
“Esattamente.
Dovresti conoscerlo” lo illuminò Sherlock,
soppesando l’oggetto con una mano.
“Esattamente, il Bafta del Signor Dominic West”.
Martin
non riuscì a non gemere dalla sorpresa all’udire
quel nome. A bocca aperta, lo
guardò sbigottito, come se stesse riflettendo sulla
possibilità di aver
interpretato male quello che Sherlock aveva appena detto.
“Voi
due…siete venuti qui per rubare la statuetta al suo
vincitore?” scandì le
parole ad alta voce, così che non potessero esserci
fraintendimenti. Sherlock
annuì, solenne.
“Precisamente”.
“Avete
fatto irruzione anche nella sua stanza allora? E poi…siete
venuti qui?”.
“Certo
che ne fai di domande. Sembri davvero John. Comunque, giusto anche
questo”.
“Per
portarlo…a Benedict”.
Sherlock
sembrò compiaciuto, quella volta, come se Martin gli avesse
appena regalato
un’impagabile soddisfazione.
“Oh
finalmente. Martin ci è arrivato prima di te,
John”.
John
sbuffò, contrito e Martin invece ridacchiò,
superato l’imbarazzo, terribilmente
divertito da tutta la situazione.
“Mio
Dio, è folle!” ammise con uno strano tono, come se
si stesse crucciando sul
gioire effettivamente di una cosa abbastanza grave come un furto.
“Però, da
tutto quello che so di te, una cosa del genere è
perfettamente nel tuo
personaggio”.
Sherlock
rise.
“Oh,
quest’uomo è sprecato come spalla, John. Sarebbe
stato un fenomenale me, se Benedict
non fosse già assolutamente
perfetto”.
John
emise un versetto sarcastico, incrociando le braccia.
“Oh
grazie Sherlock. I tuoi complimenti sono sempre commoventi”.
“Figurati,
John” stette al gioco Sherlock con un sorrisetto furbo in
viso. “Comunque, il
tempo stringe, signori” annunciò poggiando la
statuetta sul tavolino di vetro
accanto alla finestra.
“Torneranno
a momenti” esclamò Martin, improvvisamente teso,
realizzando anche lui che ora
fosse. “Alla reception hanno detto che le auto sarebbero
tornate tra un paio
d’ore. Questo quasi due ore fa”.
John
si sentì improvvisamente sotto pressione. Guardò
l’elegante orologio a parete
sopra il grande letto matrimoniale e si trovò a pensare alla
calma e la
tranquillità del loro appartamento. Anche se
però, se fossero rimasti in casa,
non avrebbero avuto l’opportunità di incontrare
almeno Martin, che a parte l’imbarazzantissima
figuraccia iniziale da
parte di Sherlock, si stava rivelando entusiasta di loro e della loro missione molto più di quanto
si sarebbe
aspettato.
Sherlock
lo distrasse dai suoi pensieri con un tic
tic tic fastidioso e monotono.
Il
detective stava tastando incessantemente il davanti della sua divisa,
ricordandosi soltanto all’ultimo momento che quella che
indossava non era la
sua solita giacca.
“Dannazione”
sibilò, indispettito. Poi si voltò freneticamente
verso i due uomini poco
lontani e il luccichio negli occhi del detective inquietò
John più del normale.
Martin incrociò il suo sguardo con il suo stesso pensiero in
mente.
“Ditemi
che avete qualcosa con cui scrivere. Un pennarello,
un…qualunque cosa. Qui c’è
il nome sbagliato” disse,
preso da
una sorta di folle frenesia.
“Sherlock
calmati…” John cercò di placare la
furia, guardandosi intorno in cerca di
qualunque cosa servisse al detective. “Non importa del nome,
Sherlock, è il…il
gesto che conta”.
Sherlock
rise ironico e prese ad agitarsi sul posto come una marionetta
impazzita.
“Sì
certo, il pensiero! E’ sempre la stessa questione di
principio, John! Non posso
dare a Benedict una statuetta con un
altro nome! Sembrerebbe un vile furto!”.
Martin
ridacchiò.
“E’
un vile furto” specificò
l’uomo,
tentando di non ridere dell’espressione terribilmente seria
del detective.
Sherlock lo fulminò con lo sguardo.
“La
vicinanza di John ti fa male, Martin. Cerca di uscire
dal personaggio, qualche volta” ribatté, acido.
Martin
arricciò il naso, contrito, e John guardò
Sherlock esasperato, quasi leggendo
nella mente del povero Martin.
"Sì,
lo so cosa stai pensando. Sono un santo. Non chiedermi come io faccia,
non lo
so nemmeno io".
Sherlock,
nel frattempo, prese a rivoltare con foga l'intero contenuto dei
cassetti della
scrivania.
"Forza,
forza, forza" bisbigliò tra sé e sé,
osservando oggetti e oggettini
atterrare sul materasso dietro di lui. Ad un certo punto poi si
fermò, alzando
al cielo un cilindro lungo e sottile di colore scuro con un verso
soddisfatto e
vittorioso. Lo sguardo sul suo viso era quello di un qualunque atleta
olimpionico dopo aver vinto dieci medaglie d'oro.
"Oh
finalmente!" gridò, esultante. "Doveva essercene uno!".
John
mugolò, un verso tra il sollevato e il frustrato. Martin
annuì, dandogli una
pacca sulla spalla.
"Guarda
il lato positivo, John. Avrebbe potuto chiederti di cercargli un orafo
per
scrivere il nome di Benedict su una placca d'oro. Si è
accontentato di un pennarello"
cercò di rinfrancarlo. Mentre Sherlock agitava la penna per
dargli carica
d'inchiostro, John rise alle parole di Martin.
"Oh
quanto hai ragione. Vorrei che venissi tu a vivere con me. Sarebbe
tutto più
facile" esclamò John, grato, sicuro di punzecchiare
l'orgoglio
dell'indaffarato detective. Sherlock bloccò il pennarello a
mezz'aria e fissò
gli occhi in quelli di John, con espressione inquietante.
"Oh
oh" sussurrò Martin, preoccupato.
"Oh,
se Martin prenderà il mio posto, io sarò
più che felice di prendere Benedict
con me" rispose acido Sherlock, fingendo di essere offeso nel profondo.
"Almeno con lui non ci saranno quei problemini... logistici che ci sono
con te in certi... momenti".
John
spalancò la bocca, scioccato.
"Guarda
un po’ chi parla! E' lui il problema! Non so mai dove
metterle quelle gambe
chilometriche".
Martin
rise e annuì.
"Ti
capisco, amico".
Sherlock
sbuffò.
"Nessuno
si è mai lamentato della mia altezza".
"Nemmeno
della mia, se è per questo".
"Oh
mio Dio, come siamo finiti a parlare di questo?"
"Io
non lo so davvero".
"Tu
smettila di provocarmi facendo proposte ad estranei" lo
minacciò Sherlock,
e tornò a occuparsi della statuetta. La tenne con la mano
sinistra e prese a
scarabocchiare un qualcosa sopra il nome elegantemente inciso, con
spessi
tratti d'inchiostro nero.
John
scosse la testa, decisamente senza nessuna voglia di alimentare
ulteriormente
quella polemica effimera e senza voler gettare ancora più
onta sulla sua ormai
perduta dignità davanti a Martin.
"Hai
ragione tu, come al solito" chiuse, avvicinandosi a Sherlock alla
ricerca
di qualcosa da fare per aiutarlo a sbrigare in fretta quella faccenda.
Non
aveva nessun’intenzione di concludere la nottata alla
centrale di Polizia a
spiegare i veri motivi di un paio di scassi e del furto di una
statuetta.
Martin lo seguì e arrivato vicino a Sherlock, si sporse
sulla sua spalla per
leggere quello che il detective stava scrivendo con tanto sentimento.
Sorrise.
"Oh,
questo lo apprezzerà sicuramente" si complimentò.
"Ma credo non ti
rimanga spazio per il nome adesso". Sherlock storse il naso, rimirando
la
sua opera da ogni angolazione.
"Lo
stavo giusto notando" ammise, irritato. Anche John si sporse per dare
un'occhiata al problema.
Ghignò,
con tutta l'intenzione di prendere in giro il suo compagno, quando
lesse le
parole che aveva scribacchiato sulla targhetta.
"
'All'unico e solo vincitore e all'attore
più credibile, serio e affascinante che l'Inghilterra abbia
mai visto.'"
lesse John cercando di mantenersi dallo scoppiare a ridere. "Bello,
Sherlock.
Anche perché non è che tu conosca questo gran
numero di attori".
Sherlock
lo ignorò e continuò ad osservare la statuetta
alla ricerca di una soluzione
alla mancanza di spazio. John ringraziò che non avesse
intavolato un altro
acido battibecco.
"Ha
un nome troppo lungo. Non ci entrerà qui sotto"
asserì mesto, con voce
oltremodo indispettita. "Perché non si trova un nome
d'arte?".
Martin
e John si mossero allo stesso momento nello stesso identico gesto
scandalizzato, come fossero una coppia di strane bambole meccaniche
gemelle.
"A
me piace così. E' bello. Originale" esclamò John,
sicuro di sé. John annuì
energicamente, totalmente d'accordo.
"Non
avrei saputo dirlo meglio" Martin sorrise, radioso. Sherlock scosse la
testa, come disgustato da tanto sentimentalismo.
"Rimane
il problema del nome. Non posso scriverlo dietro, non sarebbe la stessa
cosa".
John
saltellò sul posto, drizzando le orecchie per captare
eventuali suoni
dall'esterno. Anche la tranquillità assoluta che regnava
fuori lo metteva in agitazione.
La quiete prima della tempesta.
"Sherlock
dobbiamo muoverci. Non c'é più tempo, dobbiamo
andarcene" lo esortò il
dottore, senza smettere di lanciare occhiate alla porta. A un certo
punto poi,
mentre Sherlock ancora meditava con il pennarello a mezz'aria, il
silenzio fu
infranto da un vociare insistente e allegro proveniente da non molto
lontano.
Martin guardò John, allarmato, e corse alla finestra. La
smorfia sul suo viso
dopo aver scrutato di sotto, valse per John e Sherlock più
di mille parole.
"Sono
qui. Tutti" annunciò, teso. Il detective si voltò
di scatto verso Martin,
guardandolo fisso come se qualcuno lo avesse appena pietrificato.
"Tutti
quanti?" domandò teso, prendendo a lanciare sguardi
preoccupati alla
statua e alla finestra, a turno. "Questa puntualità
è oltremodo
fastidiosa. Pensavo che le star dovessero farsi aspettare" si
lamentò,
petulante.
John,
adesso ufficialmente molto preoccupato di uscire da quella stanza il
più
velocemente possibile, decise di agire: Sherlock sembrava non prenderla
sul
serio, data la lentezza disarmante con cui sembrava agire, negli ultimi
tre
quarti d’ora. In quel momento, per esempio, più
che concentrato ad elaborare un
piano di fuga sembrava soltanto profondamente contrariato dalla scarsa
tendenza
al ritardo degli ospiti di quell’albergo.
John,
senza pensarci ancora due volte, afferrò il pennarello dalle
mani di Sherlock
con una mano e sfilò la statuetta dalla sua presa con un
gesto veloce
dell’altra.
“John!”
gridò Sherlock, scioccato, allungando le mani per cercare di
riprenderla. John
si scansò e senza indugio prese a scribacchiare velocemente
sulla parte
posteriore in legno della statuetta.
“Sherlock,
ha dovuto. Non c’è tempo, Benedict e tutto il
resto degli ospiti del piano sarà
qui a momenti. E’ bellissimo, apprezzerà comunque,
sarà sicuramente lusingato
del tuo…ehm…gesto. Gli dirò quanto
impegno ci hai messo”.
“Ovvio.
E’ sicuramente il primo ad aver rubato qualcosa per
lui” lo schernì John,
annuendo e rimirando la sua opera e trovandola soddisfacente
abbastanza, per il
momento. Nel frattempo, il chiasso al di fuori aumentava ogni secondo
di più.
Sherlock
batté un pugno sul tavolo, per nulla rinfrancato dagli
inutili tentativi di
consolazione dei due poveri compagni d’avventura. La sua
espressione era corrucciata,
concentrata, come se ancora non volesse arrendersi
all’evidenza di non aver
potuto portare a termine quel lavoro
esattamente secondo le sue previsioni. John cominciò a
prepararsi
psicologicamente ai capricci e alle lamentele che si sarebbe dovuto
sorbire nei
giorni a seguire.
“Che
vergogna” borbottò poi il detective, sistemandosi
la giacca.“Non è giusto”.
Martin
nel frattempo, si era appostato, chino, di fronte alla serratura della
porta,
per scorgere l’eventuale arrivo di qualcuno. John si
domandò se sarebbero
riusciti a uscire senza incappare in qualche curioso, o peggio, nei
loro
inseguitori spariti nel nulla. Era sicuro, sicurissimo che sarebbero
ricomparsi
nell’esatto momento in cui avrebbero messo piede fuori
dall’uscio.
“Via
libera. Potreste usare la scala anti-incendio qui fuori, ma dareste
nell’occhio. C’è qualcuno in fondo al
corridoio a destra ma se uscite di corsa
potete andare nell’ala sinistra e prendere la scalinata da
lì” li avvisò
Martin, sollevandosi per un secondo dalla sua postazione di sentinella.
John
osservò fuori dalla finestra, notando il metallo rosso di
una scala di ferro.
Non riuscì a trattenere lo sconcerto dello scoprire che
avrebbero potuto
tranquillamente evitare quell’odissea di scale e scalinate e
passepartout se solo
avessero controllato ogni lato dell’albergo.
“Grazie
mille Martin” lo ringraziò John, tenendo per una
manica Sherlock che ancora
borbottava, fastidiosamente. “Non so dirti quanto mi abbia
fatto piacere
conoscerti e quanto ti sia grato per esserti trattenuto dal prenderlo a
pugni,
all’inizio. Sei un uomo d’oro”.
Martin
ridacchiò, facendo un gesto con la mano come a dirgli di non
pensarci.
“E’
stato un piacere anche per me. E’ stata la notte
più folle e inverosimile della
mia vita e non sono ancora del tutto convinto che non sia tutta una
sorta di
proiezione della mia mente.” sollevò un secondo lo
sguardo, meditabondo. “E…se
possibile, cerca di evitare che Sherlock…dica in
giro…ehm…” arrossì
nuovamente
e fece un gesto eloquente con la mano, indicandosi. “Insomma,
sai”.
John
si mise una mano sul cuore, scuotendo nuovamente Sherlock per farlo
stare
zitto, e sorrise.
“Non
una parola uscirà da noi. E se gli verrà la
tentazione, conosco metodi
abbastanza persuasivi per farlo tacere” confessò e
Sherlock sembrò improvvisamente
interessato. “E non persuasivi nel senso che lui sta
sperando”.
“Oh,
ci conto” rise Martin, salutandoli con un cenno della mano.
Quando poi John
allungò la mano alla maniglia, abbassandola per aprire la
porta, quasi andò a
sbattere contro la figura alta e solida di un uomo in piedi davanti
alla
soglia.
E
quando alzò lo sguardo per incrociare quello dello
sconosciuto, pregando
mentalmente nella frenesia del momento che non fosse chi temeva che
fosse,
represse a stento un verso a metà tra lo sconvolto e lo
scioccato.
“Oh
mio Dio” sentì esclamare Sherlock, percependo la
sua voce come se fosse un eco
in una stanza vuota. “E’ anche meglio di come
sembra in televisione”.
“Oh
Benedict” John sussurrò, mordendosi la lingua.
“Tempismo eccellente” bisbigliò
ancora, più a se stesso che all’uomo sulla porta.
Impeccabile
nel suo abito nero e nei suoi capelli perfettamente impomatati ma
leggermente
scompigliati rispetto a qualche ora prima, Benedict guardò i
presenti con
sguardo sbigottito e sorpreso, osservando i loro visi con attenzione e
circospezione, come se non riuscisse a spiegarsi quella folla nella sua
stanza.
Cosa, pertanto, giustissima. Quando poi intravide Martin, dietro i due
davanti
alla porta, trattenne il respiro e si decise a parlare.
“Sono
due, le ipotesi” scandì poi, cogliendoli alla
sprovvista. “Ho bevuto troppo
stasera, o il mio…ehm…migliore amico in
accappatoio, Sherlock Holmes e John
Watson sono nella mia stanza vestiti in maniera stramba per motivi a me
totalmente ignoti”.
“Lui
formula ipotesi” esordì poi Sherlock con lo
sguardo orgoglioso di una mamma di
uno scolaro modello. “Potrei abbracciarlo, John”.
“Sherlock
ti prego sta zitto” sibilò tagliente John,
cercando una scappatoia abbastanza
convincente.
“Penso
che la seconda si avvicini di più alla
verità” intervenne Martin, spingendo
Benedict dentro e chiudendogli la porta alle spalle, per evitare che la
gente
li vedesse. “E’ una lunghissima storia”.
Benedict
passò in rassegna, nuovamente, per essere davvero certo di
essere lì e non in
qualche assurdo sogno, i volti dei presenti e tirò un
sospiro rassegnato,
cercando di mettere in ordine i suoi pensieri.
“Non
credo di avere particolarmente fretta, stanotte” disse, senza
alcuna voglia di
abbandonare l’argomento e del tutto interessato alla
faccenda. “Ho davvero
voglia di una storia emozionante” disse, battendo le mani e
strofinandole tra
loro, impaziente.
Martin
si grattò la testa, mordendosi il labbro inferiore, indeciso
su come introdurre
l’argomento. Sherlock, tossicchiando, decise di facilitargli
il lavoro.
“Io
e il Dottor Watson qui presente ci troviamo nella tua stanza per
compiere il
nostro dovere di buoni cittadini e amanti della giustizia”
Sherlock spiegò con
particolare cura delle parole e con una voce profonda e convincente,
come fosse
un membro della Camera dei Lords durante un discorso al Parlamento.
“Questa
sera è stato compiuto un vile crimine, di cui milioni di
persone sono
testimoni”.
Benedict
sbarrò gli occhi, la bocca a cuore leggermente socchiusa,
palesemente incapace
di trattenere la sua sorpresa davanti a una tale dichiarazione.
“Wow”
disse soltanto, probabilmente troppo ammirato e sconvolto per
pronunciare
qualcosa di più elaborato. “Mi…mi
dispiace” provò a dire, diplomatico e
sinceramente preoccupato.
Sherlock
ridacchiò, con l’espressione di chi la sa lunga.
“Sei
l’ultimo che dovrebbe dispiacersi di qualcosa,
Benedict” gli disse, sventolando
eloquentemente una mano. “E noi siamo qui per far si che la
giustizia faccia il
suo corso”.
L’uomo
boccheggiò, senza parole.
“Io…io
non so cosa dire” bisbigliò Benedict, interdetto. Il suo sguardo si
posò su Martin, poco
lontano, che gli sorrise incoraggiante. “E… la mia
stanza per esattamente quale
parte del vostro piano è stata così...
utile?” domandò, curioso.
John
affondò il volto nelle mani, rosso come raramente era mai
stato, anche a causa
di Sherlock.
Sherlock
rise, compiaciuto.
“Per
quella principale, Per la consegna della refurtiva al suo vero padrone,
a colui
che deve possederla, a colui che la merita”.
“Oh.
La faccenda è serissima allora” Benedict
corrugò la fronte e si scompigliò i
capelli, lasciando che ciuffi scuri gli ricadessero distrattamente
sugli occhi.
“E questo ‘colui’…
sarebbe?” chiese ancora, volendo venire a capo di quella
faccenda, pendendo dalle labbra del detective.
Martin,
coprendosi la mano con la bocca, tossicchiò. John
desiderò scomparire in quel
momento come non mai.
“Tu,
mio caro” rispose semplicemente Sherlock, con il tono di voce
serio di chi
rivela una verità chiara e sconvolgente. A John quella scena
ricordò un qualche
personaggio di Agatha Christie, mentre rivelava agli ospiti di un
elegante
salotto inglese la vera identità di un assassino.
Benedict
aprì la bocca come per parlare, ma non ne uscì
nessun suono se non un versetto
rauco, indecifrabile. Scosse la testa e si sfilò la giacca,
portandosi una mano
alla fronte come per aiutarsi a riflettere su cosa effettivamente gli
fosse
stato rubato quella sera.
“Io
non capisco, Sherlock” ammise poi, le mani sui fianchi.
“Di che cosa sarei
stato privato a mia insaputa, di grazia?”.
Il
detective si spostò dalla sua precedente posizione, accanto
al letto,
affrettandosi a raggiungere la scrivania con sopra la statuetta. Una
volta lì,
si lisciò la camicia e si sistemò la giacca, come
se necessitasse di sembrare
elegante e composto per la sua presentazione.
“Oh, sei troppo
modesto
amico mio. Rifletti su cosa è accaduto stasera” lo
canzonò Sherlock con voce
dolce, come quello di una madre che incoraggia un bambino alle prese
con un
problema di matematica fin troppo ostico. “Cerca di
inquadrare il momento
esatto del delitto! Tu eri presente!”.
Benedict lo squadrò, cominciando a credere che il non aver
cacciato via
immediatamente quell’uomo dalla stanza non fosse stata una
così brillante idea.
I suoi occhi incontrarono quelli di Martin, che volse lo sguardo alla
scrivania
con circospezione, in un tacito aiuto.
Benedict guardò immediatamente nella direzione suggeritagli
e, ovviamente, non
poté non notare la lucida e linda statuetta che adesso
brillava sotto la luce
calda della lampada come una primadonna sotto le luci dei riflettori.
“Oh mio Dio” esclamò l’uomo,
senza riuscire a staccare gli occhi dalla
statuetta. “Quello è ciò che
penso?” domandò, senza aspettare risposta e
avvicinandosi. Sfiorò la superficie lucida
dell’oggetto e sorrise, tornando a
guardare il gruppetto poco lontano.
“Intendevi…con furto tu
intendevi…” Benedict scoppiò a ridere
di gusto,
lusingato e divertito allo stesso tempo. Sherlock lo guardò
con circospezione,
come se non comprendesse il motivo di tanto divertimento. John prese un
appunto
mentale sul fare una lunga lezioncina a Sherlock su prendere certe
fissazioni
troppo sul serio.
“E’ stato molto carino da parte vostra”
bisbigliò con un sorriso radioso in
viso “molto…dolce, in verità”
ammise e rivolse ai tre un’occhiata sinceramente
grata. “Non sapevo che fossero in commercio certi fac-simile,
comunque”.
John sbiancò, davanti a quella frase. Era probabile che
Benedict non ancora
scorgesse la targhetta malamente rovinata dal pennarello, ed era
altrettanto
probabile che la sua reazione davanti alla scoperta non fosse
esattamente rosea
come Sherlock sembrava aspettarsi. Il dottore si rannicchiò
contro la parete,
preparandosi all’esplosione.
“Infatti non lo è”, lo esortò
il detective, osservando avido la scena.
Benedict esitò. John rimase al suo posto.
“Che…cosa?” il tono era preoccupato.
“Guarda meglio” lo spronò ancora il
detective.
“Pensaci bene prima” John sussurrò,
coprendosi il volto con una mano. “Potresti
pentirtene”.
Benedict, interdetto dai consigli contrastanti, sollevò la
statuetta tra le
mani, e la guardò con più attenzione, stavolta
leggendo sicuramente –la
posizione
dei suoi occhi era inequivocabile- quello che vi era scritto in basso.
E oltre ogni previsione, oltre ogni più rosea e meravigliosa
aspettativa,
Benedict non li guardò con aria sconvolta, non li
minacciò minimamente di
restituire tutto al legittimo proprietario o di parlare con chi di
dovere per
sistemare quella faccenda. Rimase immobile in un primo momento, e
guardò
Sherlock e John negli occhi, a turno, con un lampo indecifrabile nei
suoi
bellissimi occhi chiari. Poi, senza che nessuno dei due
–nemmeno Sherlock con
la sua proverbiale capacità di anticipare le mosse di
chiunque- potesse
rendersi conto di quello che stava accadendo, Benedict li
abbracciò stretti a
sé, cingendo John con il braccio destro e Sherlock con il
sinistro,
stringendoli con affetto in una morsa stritolante.
“Io non ci posso
credere”
sussurrò poi, trattenendosi dallo scoppiare in una risata
divertita e allo stesso
tempo incredula. “E’ la cosa più strana
che qualcuno abbia mai fatto per me”.
Sherlock lanciò
un’occhiatina eloquente verso John come a dirgli
‘te l’avevo detto’. John
sbuffò, accarezzando la schiena di Benedict con una mano,
ancora stentando a
credere che fosse veramente stretto nell’abbraccio di
quell’uomo, che fino a
due ore prima era soltanto qualcuno dietro lo schermo di un televisore.
“Lo avevo detto,
io”
Martin ridacchiò, osservando allegro il quadretto di fronte
a lui.
“Insomma, lo so che
dovrei
dire che…che è sbagliato, che non è
mio, e che…entrare di soppiatto in un hotel
e scassinare due stanze non è certo il massimo della legalità, ma dopotutto chi
meglio di me può comprendere il tuo modo
di ragionare?” squillò Benedict, sorridente e
radioso, con fare entusiasta. “A
parte John, ovviamente. E…insomma, so che da parte tua un
gesto del genere è da
considerare come uno spettacolare gesto…
d’amicizia. E mi lusinga. Davvero”.
Sherlock sembrava volare
due metri sopra il pavimento. Da quando c’era John nella sua
vita ormai aveva
fatto l’abitudine alle lodi e ai complimenti, ma in quel
momento, dopo il
discorso di Benedict, lo sguardo di Sherlock assomigliava terribilmente
a
quello di un gattino reduce da una seduta intensiva di coccole e
grattini. Sognante,
stralunato, e assolutamente euforico.
“E’ stato
un piacere,
Benedict, un piacere” si esibì in un piccolo
elegante inchino. “Sono felice che
la nostra missione abbia portato a un risultato tanto soddisfacente e
apprezzato” s’interruppe per guardare John.
“Nonostante qualcuno abbia dubitato
della buona riuscita per tutto il
tempo”.
John arrossì,
cercando di
camuffarlo in ogni maniera possibile. Guardò altrove per non
incrociare gli
occhi di Sherlock o peggio quelli di Benedict e si limitò a
un sospiro rassegnato.
“Sei odioso,
Sherlock”.
“E tu un uomo di
poca
fede”.
“E tu un
pazzo”.
“Pensavo che mi
amassi per
questo”.
John, se possibile,
diventò quasi fosforescente dall’imbarazzo.
Benedict e Martin
però
sembrarono trovare quello scambio di frecciatine tremendamente
suggestivo a
giudicare dagli sguardi sui loro volti. Benedict ridacchiò.
“Beh, John non ha
tutti i
torti in fondo. Sei pazzo” spiegò e John
tirò un sospiro sollevato. “Però fa
parte del tuo fascino. Tu non hai idea di quanto Martin ed io abbiamo
fatto
pressione su chiunque per incontrare te e John. Solo che ci hanno
sempre
riferito di impossibilità varie, di una sorta
di…clausola di contratto.
C’entrava addirittura il governo,
credo” Benedict fece una smorfia che palesò tutto
il suo disappunto. “Questa
sera è stato…strano e fantastico incontrarvi.
Stento ancora a credere che tutto
questo stia realmente accadendo, comunque”.
Martin annuì,
dandogli
appoggio.
“Io sono ancora
propenso a
credere che fra un’ora mi sveglierò nella mia
stanza a Wellington”.
“La mia stessa
sensazione.
Rapportata a Londra, ovviamente” concordò Ben, con
voce allegra. Poi, come se
colto all’improvviso da un’illuminazione,
tornò a guardare Martin, squadrandolo
da capo a piedi. “A proposito, tu…tu cosa ci fai
qui, esattamente?”.
Il biondo non rispose, preso alla sprovvista, e come un bambino colto
in fallo
durante una marachella, abbassò lo sguardo al pavimento, con
fare colpevole.
“Ecco, io… avevamo parlato di
quella…cosa che avresti voluto provare, al
telefono” bisbigliò Martin, ancora guardando a
terra. “E oggi sapevo delle
premiazioni, e ho avuto qualche giorno libero dalla produzione
e…ho pensato di
fare un’improvvisata. Che ha subito un piccolo cambio di
programma”.
Benedict avvampò,
probabilmente ricordando più che bene la cosa cui Martin si
stava riferendo.
Sherlock li guardò con fare interessato, sicuramente
intenzionato a scoprire di
cosa si trattasse. John gli pestò deliberatamente un piede.
“Beh, adesso che
abbiamo
chiarito tutto, possiamo anche lasciare Benedict e Martin da soli, cosa
ne dici
Sherlock?” John esclamò ad alta voce,
così che tutti, e soprattutto Sherlock,
in assetto da deduzione, potesse sentire. Il detective
sembrò indispettito
dalla sola proposta.
“Perché
così presto,
John?” domandò, con tutta la semplicità
del mondo. “Adesso che sappiamo che
Benedict approva, possiamo…”.
La frase fu bruscamente
troncata a metà da un rumore simile a
un’esplosione, proveniente dalla porta
d’ingresso.
Due uomini vestiti di
scuro, quegli uomini vestiti di
scuro
da cui erano sfuggiti dopo mille peripezie, erano in piedi a meno di
due metri
da loro col fiatone e uno sguardo assassino sul viso.
“Siete
voi!” sbraitò il
più alto. “Eccovi, maledetti! Lo avevo detto, che
erano le loro voci!” gridò
ancora, con foga.
“Scusate
l’irruzione
signori, ma quei due sono pericolosi!” quello più
basso indicò Sherlock e John,
con sguardo fiammeggiante.
“Ma
cosa…?” bisbigliò a
sua volta Benedict, sbigottito.
John afferrò la
manica di
Sherlock, tenendola salda e guardandolo, complice.
“E’
davvero giunto il
momento dei saluti, ragazzi! C’è stata solo una
piccola…incomprensione” gridò
poi Sherlock, d’improvviso. Fece un cenno con il capo a John,
quasi
impercettibile per gli altri, che il dottore comprese al volo. Prese
fiato, più
che poteva dato che ne avrebbe avuto bisogno, e si precipitò
verso la finestra
aperta, spalancandola completamente e saltando fuori con un balzo
mirato.
“Arrivederci, signori!” esclamò
un’ultima volta Sherlock, teatrale, ricevendo
in risposta un applauso scherzoso, prima di seguire John sulla
–John ringraziò
Dio- scala antincendio con un cigolio assordante.
“Corri, corri
corri!”
Sherlock spinse John in avanti, ridendo, senza che il dottore riuscisse
a
evitare di imitarlo.
“Corro, corro, non preoccuparti!” gli
assicurò, muovendosi più velocemente
possibile lungo le scale di ferro, preoccupato e allo stesso tempo
sollevato di
non sentire i rumori di passi degli inseguitori. In un momento di
follia, il
detective guardò in alto, senza scorgere nessuno alle loro
calcagna. John, con
il fiatone, si fermò accanto a lui.
“Ma
cosa…?” chiese,
interdetto. Poi, come un segno del destino, udirono chiaramente una
voce
familiare, quella di Benedict, parlare in maniera curiosamente alta.
“Cielo, mi dispiace
tantissimo signore! Non so come sia potuto succedere!” si
scusò. “E’ colpa
delle mie gambe lunghe, giuro che quello sgambetto non è
stato affatto
intenzionale” il tono di voce si alzò
ulteriormente e Sherlock e John non
poterono fare a meno di erompere in una fragorosa e rinfrancante risata.
“Abbiamo dei
complici,
Sherlock. Abbiamo trasformato quei due in criminali” John lo
accusò,
puntandogli contro il dito. “Hai traviato due povere menti e
le hai portate
sulla via della perdizione”.
Sherlock continuò a
ridere
mentre ripresero a scendere le scale, non volendo approfittare troppo
della
tregua concessagli dai loro due nuovi compari.
“Può
sempre far comodo
avere due complici così ben inseriti in società,
sai?” spiegò Sherlock, con
tono improvvisamente serio, tradito però dalla sua
espressione ilare. “In certi
posti non posso certo contare sulla rete dei senzatetto, non
credi?”.
“Una logica
disarmante”
convenne John, atterrando –finalmente- di nuovo
sull’asfalto del parcheggio,
realtà che gli sembrò un traguardo sudato e quasi
insperato.
“Come
sempre” convenne
Sherlock, modesto come al solito. Prima che John potesse rispondere con
una
replica acida e sardonica, fu interrotto dal vociare concitato di un
gruppetto
sostanzioso di ragazze poco più avanti, pressoché
lo stesso, con qualche
aggiunta, che aveva visto parlare con Sherlock davanti alla Festival
Hall nel
loro scambio d’informazioni.
“Oh, eccole
lì” sussurrò
Sherlock, scompigliandosi i capelli e allungando il passo, dirigendosi
verso di
loro. John lo seguì, chiedendosi quali fossero le sue
intenzioni.
Forse…ringraziarle?
Il gruppetto, vedendoli
arrivare, cominciò a parlottare ancora più
animatamente, John giurò anche di
aver visto una di loro reggersi ad altre due, come se le gambe gli
fossero
diventate improvvisamente gelatina. John si crogiolò nella
convinzione di
essere almeno in parte causa di quella reazione.
“Buonasera
signore”
Sherlock le salutò, fermandosi davanti a loro, causando un
immediato silenzio.
Una ragazza dai capelli rossi e il viso spruzzato di lentiggini
tirò un sospiro
profondo, come a infondersi coraggio, e parlò con un sorriso
esitante.
“Buo-buonasera
Signor
Holmes” la ragazza esclamò timidamente.
“La…la missione è andata a buon
fine?”.
Sherlock batté le
mani,
con sguardo estremamente soddisfatto e gratificato, come se intendesse
esprimere quanto fosse deliziato dalla buona riuscita della serata
anche senza
l’ausilio delle parole.
“Più che
bene, mia cara. E
questo anche grazie al vostro prezioso aiuto” Sherlock
annunciò, e John poté
scorgere una nota sincera nella sua voce. Accennò un
sorriso.
“Oh…bene” rispose la ragazza
illuminandosi. “Siamo felici di aver potuto
aiutarvi, moltissimo in verità”
continuò, diventando rossa come i suoi capelli.
“E noi siamo felici
di
aver potuto contare sul vostro aiuto” aggiunse John,
sporgendosi dalla spalla
di Sherlock. La ragazza di poco prima emise un gridolino, come se
l’intervento
di John l’avesse quasi spaventata.
“Esatto”
convenne
Sherlock, annuendo. “E per questo voglio darvi un piccolo
consiglio”.
Si voltò verso
l’albergo,
anche per cercare di scorgere l’eventuale presenza dei due
inseguitori, e puntò
il dito verso la struttura, più precisamente verso le scale.
“Quelle scale
laggiù sono
collegate alla finestra della stanza di Benedict”
annunciò e uno sguardo
glaciale bloccò sul nascere la puntuale protesta di John.
“Un paio di rampe, la
finestra a destra. Avrete di che riempire Tumblr, domani”.
Sherlock non fece in tempo
nemmeno a concludere le sue precise indicazioni che il gruppo si mosse
quasi
simultaneamente, riversandosi verso la scala come un fiume umano in
pieno
straripamento dagli argini.
“Grazie mille!” urlò una ragazza dal
fondo, salutandoli con una mano e correndo
a perdifiato per raggiungere le altre.
Sherlock rise, scuotendo
la testa, e facendo cenno a John di seguirlo per la strada principale
gremita
di taxi in attesa.
John non aveva parole.
Aveva promesso a Martin di non dire niente a nessuno, aveva detto che
il
segreto era al sicuro, che avrebbe ricattato Sherlock pur di farlo
tacere ma
probabilmente aveva sottovalutato l’interesse effettivo di
Sherlock che certi
suoi segreti fossero sparsi ai quattro venti.
Si morse il labbro
inferiore fin quasi a farlo sanguinare, preoccupato, teso e desolato
dall’aver
tradito la fiducia di quell’uomo ed entrò in un
taxi subito dopo Sherlock,
guardandolo con espressione furiosa. Quando Sherlock se ne accorse,
tutto
quello che fece fu sbuffare, annoiato.
“Oh John smettila.
Dovevo
ringraziarle in qualche modo” fu la sua giustificazione.
“E quello era proprio
ciò di cui avevano bisogno”.
John gli diede una pacca
abbastanza veemente sulla spalla, cogliendo il detective di sorpresa.
Sherlock
mugolò, aprendo e chiudendo la bocca incredulo.
“Sei crudele” lo accusò, massaggiandosi
la parte dolente. “Io ho solo fatto
loro un favore”.
John fece un versetto sarcastico.
“Oh certo. Un favore”.
Il detective sembrò
indispettito dalla reazione di John e tossicchiò,
preparandosi alla sua
brillante esposizione.
“Non sarebbero venuti mai allo scoperto senza
un’adeguata…spintarella. Io gli
ho solo fornito l’aiuto di cui avevano bisogno”.
“Aiuto?”.
“Aiuto, John! Adesso potranno uscire alla luce del
sole” spiegò, con
naturalezza. “Sono un vero amico” concluse.
John si voltò a
guardarlo
con tale velocità da provocarsi un pungente torcicollo, ma
non ci badò, impegnato
com’era a notare quanto Sherlock fosse veramente convinto di
quello che aveva
appena detto. Desiderò avere una risposta abbastanza sagace
e brillante per
lasciarlo senza parole e impossibilitato a trovare un’altra
giustificazione, ma
sospirò, avvilito dalla sua incapacità di
rimanere ancora arrabbiato con lui
anche dopo quella folle confessione.
Certe volte era
impossibile far desistere Sherlock dal reputare verità
assolute alcuni dei suoi
discorsi surreali, lui in fondo non
voleva far male a nessuno, e decise di troncare la faccenda,
pregando che
Martin e Benedict non li querelassero, o peggio, aspettassero davanti
alla
porta di casa loro con in mano spranghe di ferro.
“Sì
sì, va bene” sbuffò
John, contrito. “Non so come io faccia a lasciar passare
tutto quando si tratta
di te. Per esempio, adesso dovrei essere furioso di aver perso i miei
vestiti a
causa tua e di ritrovarmi invece con questa roba puzzolente e
orribile”.
Sherlock si morse un
labbro per non ridere, osservando John da capo a piedi.
“Beh, penso che tu
ci
abbia guadagnato” sussurrò, ben conscio
però che John potesse sentirlo.
“Spiritoso”
sibilò il
dottore.
Il detective lo
guardò e
gli posò una mano sulla gamba, pensieroso, come se stesse
venendo a patti con
una difficile decisione nella sua mente. Dopo qualche secondo, con
quello che
sembrò uno sforzo sovrumano, parlò.
“E va bene” alzò gli occhi al cielo,
come per non guardare John mentre lo
diceva. “Per farmi perdonare di qualunque cosa meschina tu
reputi io abbia
fatto, ti concedo il permesso di pubblicare il resoconto della missione
sul tuo
blog, contento?”.
John storse il naso.
“Oh,
felicissimo” magari
così avrebbe avuto occasione di togliersi qualche sfizio,
pubblicamente e con
il suo benestare, prendendo un
po’ in
giro Sherlock davanti al mondo.
“Omettendo nomi e
situazioni, è chiaro” specificò poi il
detective.
John camuffò una
risatina
di scherno.
“Oh, ed io che
pensavo
andassi fiero del tuo successo” lo canzonò.
“Codardo”.
Sherlock inarcò un
sopracciglio.
“Non sono codardo.
Tutelo
la privacy di due brave persone” spiegò,
cristallino. John rise, sarcastico.
“Oh certo! Soprattutto dopo lo scherzetto che hai fatto loro
per ringraziarli”.
Il detective
sbuffò,
creando un alone opaco sul vetro del finestrino.
“Te lo ripeto per
l’ultima
volta. Li ho solo aiutati, facendo quello che ho fatto”.
“Certo”.
“Mi
ringrazieranno”.
“Ovvio. Magari dopo
averti
fatto un occhio nero”.
Sherlock si voltò a
guardarlo, gli occhi ridotti a fessure.
“Non è bello augurare una cosa del genere al tuo
compagno”.
“Beh, non
è bello nemmeno
far rischiare la vita al proprio compagno un giorno sì e uno
no, ma tu continui
a farlo lo stesso” sussurrò John, ironico.
“Ma a te
piace”.
“E dovresti
ringraziarmi
ogni giorno, per questo”.
Sherlock si voltò
nuovamente verso il finestrino ma John vide chiaramente il bordo del
suo labbro
piegarsi in un ghigno divertito.
“Comunque, magari un
giorno Ben o Martin approderanno agli Oscar”
affermò poi, rompendo il silenzio
di poco prima. “Noi dovremo farci trovare
preparati”.
John lo fissò negli occhi, preoccupato.
“Intendi nel caso
non
vincano?” chiese, esitante. Non era sicuro di volerlo sapere.
“Ovvio”
rispose Sherlock,
mordendosi il labbro inferiore, pensieroso.
John chiuse gli occhi e
s’immaginò
in un albergo gigantesco, quasi tre volte quello di quella sera e con
il doppio
delle scalinate e delle stanze, braccato da una ventina di agenti in
borghese,
seguendo Sherlock che correva con una statuetta in mano e blaterando
indicazioni. Rabbrividì.
“Peccato che in
quell’ambiente la sicurezza sia dieci volte più
rigida, gli alberghi cento
volte più blindati, e le statuette mille volte
più…sorvegliate” puntualizzò
il
dottore.
Sherlock sbuffò,
agitando
una mano come a dirgli di smettere di fare sempre il guastafeste.
“Questa sera
è stata una prova.
Adesso sappiamo che nel caso ci trovassimo davanti ad
un’altra…missione di
giustizia come questa,
saremmo pienamente in grado di affrontarla”.
Il taxi imboccò
Marylebone
con lentezza, fermandosi a un semaforo e senza che il rumore delle
ruote e del
motore potesse coprire la risposta acida che John aveva in mente.
Colpì Sherlock alla
spalla
con un pugno leggero, d’avvertimento.
“Oh
sì” concordò poi,
sardonico. “Bisognerebbe specificare però se
riusciremo a uscirne con tutte le
braccia, la testa, la fedina penale pulita e soprattutto vivi”.
Sherlock sorrise e rivolse
a John uno sguardo allegro e allo stesso tempo serio, sicuro.
Come se quell’affermazione non lo preoccupasse, come se
fosse certo, per un motivo o per l’altro che tutto sarebbe
andato sempre per il meglio. Il
taxi ripartì.
“Ma il mio medico
militare
è qui per proteggermi” esclamò, volendo
sembrare serioso ma risultando alle
orecchie del dottore solo estremamente dolce.
“Non è così?”.
John finse di sembrare
pensoso, come se non fosse del tutto sicuro di quello che avrebbe fatto
nel
caso la situazione si fosse presentata. A dirla tutta non era proprio
sicuro
che avrebbe fatto qualcosa per difenderlo, Sherlock avrebbe meritato
una
lezioncina, ma nella realtà, come al solito, avrebbe messo
da parte le loro
incomprensioni e sarebbe corso da lui a salvarlo da qualunque
pericolo.
Nonostante lo facesse
seriamente dannare a volte, Sherlock era l’unica
persona alla quale John non era mai
riuscito
a portare rancore per troppo tempo.
John gli sorrise, prima di
dare qualunque risposta, e allungò la mano sul sedile per
stringere quella di
Sherlock in una stretta calda, confortante, amorevole. Sherlock
ricambiò con
fervore e i suoi occhi sembrarono quasi illuminarsi.
“Io non lo darei per
scontato. Qualche volta meriteresti una lezione. Sei
impossibile” lo minacciò,
ma conscio di non sembrare credibile in quella situazione,
così vicino a lui,
reprimendo quell’incredibile voglia di baciare il suo
compagno.
“Impossibile, pazzo
e
squilibrato” aggiunse.
Sherlock ridacchiò
della
risposta e avvicinò il suo viso a quello del dottore,
attento a non farsi
scorgere dal tassista di fronte a loro.
“Ma tu mi ami per
questo,
non è così?” lo punzecchiò
il detective, nello stesso modo di poco prima
all’albergo, cogliendo come sempre nel segno. John si
avvicinò ancora di più al
viso del detective, appoggiandosi al bordo del suo sedile e godendosi
il
solletico piacevole del suo respiro sulle labbra, e sospirò,
rassegnato.
Davanti a quella domanda, non poteva né scherzare,
né mentire.
“Che Dio mi salvi,
ma sì”
sussurrò e Sherlock sorrise, allungandosi a baciare le
labbra di John con
dolcezza, lentamente, godendosi quell’intimità
rubata, soltanto loro, dolce
ricompensa di quella notte avventurosa.
Il 221B di Baker Street
fece capolino dal fondo della strada, caldo e familiare, le lettere in
ottone
che brillavano alla luce della strada, quasi salutando i due inquilini
ancora
stretti nel loro abbraccio.