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Autore: Bethesda    17/09/2012    2 recensioni
Oltre ad essere parecchio abile per quanto riguardava il violino, la chimica e il crimine, il mio amico si rivelò anche un eccellente boxeur. Come lo scoprii, tuttavia, non fu estremamente piacevole. Credo che chiunque si renda conto di quanto uno scontro con quattro uomini armati possa rivelarsi alquanto pericoloso, specialmente se tale avvenisse in un vicolo di Whitechapel, in piena notte e in svantaggio numerico, con solo due bastoni da passeggio come arma.
Raccolta di 14+10 flash suddivise in due capitoli.
Genere: Fluff, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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J
eremy Runner giunse ad Oxford l’anno successivo al mio, deciso a frequentare legge, come da volere del padre. Inizialmente non suscitò il benché minimo interesse: aveva un portamento austero, tanto simile a quello di molti altri miei compagni di studi, caratterizzato da un timore ben celato agli occhi di chiunque. Tranne che del sottoscritto. Cominciai ad osservarlo, a studiare i suoi movimenti da lontano, come un cacciatore analizza i movimenti della propria preda.
 Tuttavia fu lui ad avvicinarmi, incuriosito dalle voci che correvano sul mio conto.
Non sono uomo da sminuire o nascondere le proprie doti, né lo ero in gioventù, così, quando mi si presentò, non delusi le sue aspettative.
«Non pensavo che uno studente della sua risma potesse essere tanto attratto dalle meraviglie dell’arte, ma quel polsino consunto per ben due dita non può suggerire null’altro».
Bastarono queste poche parole per dare una svolta più che piacevole al resto dell’anno scolastico.
 
Odore di formaldeide, muffa, necrosi, il tutto impastato da un lezzo dolciastro e nauseabondo, al quale, a forza di frequentare gli ospedali, ci si abitua.
D’altro canto, spesso i risultati dei miei esperimenti chimici, soprattutto quelli terminati in malo modo, provocavano un puzzo tale da coprire facilmente qualunque altra sostanza. Non vi facevo più caso al Saint Barth, avvezzo ormai a tali percezioni olfattive che probabilmente mi avevano impregnato pelle e vestiti.
Quando Stamford accompagnò il suo vecchio compagno di studi all’interno del laboratorio avvertii un cambiamento: miscela di tabacco forte ma di basso prezzo, tipica dei militari, e un dopobarba quasi impercettibile. Mi giunse alle narici anche, successivamente, un gradevole aroma di tè: dolce e caldo, un qualcosa che in seguito avrei sempre associato a colui che divenne il mio coinquilino ed amico.
 
Ho la peculiarità di saper nascondere emozioni e sentimenti, elementi aggiuntivi che non aiutano al mio lavoro. Con l’esperienza vi ho fatto l’abitudine: celo sotto strati di logica ciò che potrebbe sviarmi. Ma la presenza di John Watson sotto il mio stesso tetto, al mio fianco, durante i primi due anni di convivenza, mi portò verso la follia. In occasioni passate mi era già capitato di provare simili sensazioni – sebbene non così violente -, ma in gioventù, quando non si ha il totale controllo di sé e della propria mente. Come potevo io, in quanto adulto, ammattire al solo pensiero di passare con lui notti di veglia per catturare pericolosi criminali? Come potevo resistere di fronte a quegli occhi così dannatamente sinceri, l’opposto di ciò con cui avevo a che fare nel mio mestiere? Non potevo mostrare quanto mi dannassi a saperlo in pericolo, o fra le braccia di una qualche occasionale donna. Potevo solo stupirlo, farlo meravigliare con l’unica cosa che avevo da offrire: la mia intelligenza.
 
 
«Non posso sopportare oltre, Holmes!»
Watson accusava spesso il sottoscritto di eccedere in teatralità: probabilmente non si rendeva conto di quanto queste sue uscite sarebbero state degne per un colpo di scena al Globe.
«Posso sapere cosa ti turba, vecchio mio», domandai placidamente, bloccando ogni mio movimento.
«Non lo sospetti?»
«No, Watson, non lo sospetto: lo deduco».
 Il suo sguardo si fece deliziosamente truce.
«Dunque», riprese con finta dolcezza, «non ti dispiacerà riporre il violino questa sera».
Alzai l’archetto verso di lui.
«Non apprezzi forse Mendelssohn?»
«Non alle due di notte, no».
Mi alzai dalla poltrona, abbandonando lo strumento su di un cuscino ed avvicinandomi a Dottore.
«Suggerisci un intrattenimento migliore?»
Mi prese per i fianchi.
«Invero, Holmes, ne avrei uno».
Ghignai soddisfatto, avvicinandomi per impossessarmi delle sue labbra, quando si ritirò repentinamente, portando le mani al mio petto e spingendomi verso la porta della mia camera.
«Dormire, Holmes. Buonanotte».
Afferrò al volo lo Stradivari e imboccò la porta, risalendo con passo lento le scale.
 


 
«Watson, gradirei che non mi chiamassi con il mio nome Cristiano».
Il buon Dottore interruppe ciò che stava facendo, scostando le labbra dal mio addome e sollevando lo sguardo verso il mio volto: forse – ammisi – avevo scelto il momento meno adatto per parlare.
«Perché mai, di grazia?»
«Suona osceno e distrugge tutto ciò che si può creare in un momento intimo come quello che stiamo vivendo. Quindi, se volessi riprendere da dove ti sei interrotto--»
«Sherlock».
Lo fulminai con lo sguardo.
«Watson».
«Sherlock».
«Ti pregherei di piantarla».
Si sollevò sulle braccia, sovrastandomi con il proprio corpo e avvicinando la bocca al mio orecchio, liberando un sussurro roco.
«Sarebbero preghiere a vuoto, mio caroSherlock».
Debbo ammettere che un brivido di aspettativa mi percorse la schiena e mi spinse a cercare le labbra del mio uomo. Possibile che anche il mio nome uscisse tanto dolce da quella bocca così insensatamente sensuale?
  
Alzai lo sguardo dalla mia enciclopedia, ormai certo di chi fosse il nostro uomo. Non avrei avuto alcuna difficoltà a rintracciarlo. Ora dovevo solo avvisare il mio Boswell.
Ma persino il sottoscritto, di fronte ad un Watson placidamente addormentato, rallentò i propri pensieri.
Il mio collega mi era rimasto accanto durante la ricerca, seduto sul pavimento, la schiena contro la poltrona. La testa era inclinata da un lato, le labbra leggermente dischiuse. Avrei dovuto lasciarlo dormire. Tuttavia la sua reazione nello scoprirsi lasciato nelle retrovie proprio nel bel mezzo dell’indagine lo avrebbe portato a lamentarsi per le settimane a venire, e la sua compagnia era inestimabile.
Mi alzai in piedi e mi diressi verso camera mia per recuperare il cappotto, non senza scrollare per una spalla il buon Dottore, che si svegliò di soprassalto.
«Andiamo, Watson! Lo abbiamo in pugno».
 
«Trovo che tu abbia dei capelli estremamente belli».
Analizziamo la situazione, signori miei: come può un uomo concentrarsi sui suoi esperimenti mentre l’amico, compagno o amato, che dir si voglia, lo distrae con uscite di tale sorta?
«A che proposito debbo tale commento», domandai, lanciando un’occhiata vaga al divano sul quale Watson giaceva inerme da circa due ore.
«Dopo tutti questi anni, amico mio, penso di poter affermare di aver imparato ad osservare».
Mi lasciai sfuggire uno sbuffo divertito e scettico.
«E cosa avresti dunque osservato?»
«Che le tue ciocche sembrano penne di un corvo: lucide, composte. Belle».
«Debbo considerare un complimento l’essere paragonato ad un uccello necrofago?»
«Mi son forse espresso in modo da farlo sembrare un’offesa?»
«Sei tu lo scrittore fra i due», dissi voltandomi, nascondendo un sorriso: ogni tanto era piacevole stuzzicarlo senza ragione alcuna.
 
Sembrava una Domenica mattina eccezionalmente soleggiata, nonostante il brutto tempo avesse vessato per giorni la campagna inglese. Quando dunque vidi con un occhio il sole far capolino da oltre le tende ritenni che avrei potuto lavorare alle nuove arnie per buona parte della giornata, concludendo il tutto con una passeggiata lungo la scogliera. Avrei dovuto abbandonare la spessa coltre di coperte che dall’inizio dell’autunno allontanava l’aria fredda del Sussex. Non che mi mancasse la buona volontà di abbandonare il giaciglio, ma quando sentii il braccio del mio Watson cingermi il fianco e stringermi a sé, quasi come se potessi difenderlo dal freddo, decisi che spendere la mattinata sotto le lenzuola non mi avrebbe portato alcun danno.
 
Osservai il 221B e ciò che rimaneva dei mobili, dei libri e dei documenti. Avevo rischiato di terminare la mia carriera nell’incendio del mio stesso appartamento: sarebbe stata una fine ignominiosa. Come avrei potuto lasciare che le canaglie che lo avevano scatenato scorrazzassero per Londra mentre io, ormai carbonizzato, osservavo – ignoro se dall’alto o dal basso, e non mi pronuncio per non peccare di superbia - il loro sordido lavoro? Il divano era bruciato, similmente alle due poltrone. Anche il tappeto era ormai incenerito. Sospirai: sapevo che prima o poi avrei dovuto mettere fine a questa storia, e non potevo rischiare che qualcuno subisse le conseguenze del mio operato. Sarei partito il giorno seguente per il Continente.
 
Non devo avere una buona stella per quanto riguarda i cani. Se all’università avevo conosciuto il mio amico Victor Trevor grazie al morso del suo Bull Terrier, posso dire che l’essere che Watson portò in casa nostra non aiutò i nostri rapporti, anzi. Una notte, rientrato tardi per una questione lavorativa, venni letteralmente aggredito dalla belva: ignoro se accadde perché mi scambiò per un ladro o per semplice antipatia personale.
Fatto sta che mi ritrovai in un angolo del salotto, il bastone in mano e quel mastino mancato a pochi passi da me, ringhiante ed estremamente tenace.
È con immenso imbarazzo che ammetto che fu Watson a placare la bestia: il sottoscritto riuscì solo a rimetterci il bastone da passeggio. Dopo quell’accadimento vi furono giorni di trattative che misero a dura prova la diplomazia di entrambi, ma è noto che il sottoscritto abbia una certa abilità nel plagiare la volontà altrui. Posso concludere affermando che il ringhioso Mustang trovò un’amorevole dimora presso un macellaio del centro di Londra, lontano da Baker street e dagli stinchi del sottoscritto.
 
   
 
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