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Autore: londonici    19/09/2012    1 recensioni
Hayley, sedicenne di Beverly Hills, sembra la tipica ragazza che mette il broncio giusto per essere diversa. Una grande passione per i Paramore e un gruppo di amici eccezionali la aiuteranno a superare i primi "piccoli" problemi della sua vita. Ma poi si aggiunge Hitch, un rapper diciannovenne di fama mondiale, e tutto cambierà all'improvviso...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Attraversare quella strada mi costò uno sforzo sovrumano. Mi costò ancora di più fingere un sorriso quando “Frank” e Hitch aprirono la porta e ci accolsero.

Come temevo, eravamo le prime. E, peggio ancora, Jenna era fin troppo amichevole con quel “Frank”, e quel “Frank” ricambiava.

Due settimane al massimo, non oltre. Non sarebbe durata un solo secondo di più. Almeno avrei avuto una scusa ancora migliore per evitare quell'idiota.

Frank occupava tutta la soglia della porta, a braccia aperte, e con un sorriso smagliante. Era davvero un bell'uomo, brizzolato, alto e atletico. Soprattutto, era ben vestito, al contrario delle mie aspettative.

Hitch, invece, se ne stava alle sue spalle e in quel momento lo invidiai: lui non era costretto a fingersi felice, io invece sì. Da quella posizione potevo analizzarlo meglio, cosa che non avevo mai fatto prima (eccezion fatta per gli occhi verde strano e la faccia da killer con i lineamenti aspri e ostili).

Beh, non si vestiva male nemmeno lui. Aveva una canottiera aderente e bianca sotto una camicia azzurra, che teneva slacciata. I polsini erano arrotolati su per le braccia e i jeans (non smisurati – e la cosa mi stupì parecchio) cadevano abbastanza bene. Ovviamente, i capelli sconvolti e lo sguardo inquisitore rendevano ogni possibilità di analisi più profonda completamente nulla.

E, all'improvviso, fu lui a squadrarmi dalla testa ai piedi, con una tale sfacciataggine da mettermi a disagio. Sembrava che stesse analizzando i miei vestiti (camicetta bianca con gilet nero aderente sopra, jeans e Converse con relativi accessori neri e bianchi – se interessa a qualcuno), ma non solo. Cercava una mia reazione?

Beh, non gliela avrei data per vinta. Non mi avrebbe messa in soggezione.

«Avanti, avanti, entrate pure. Accomodatevi, fate come se foste a casa vostra», disse tutto amichevole Frank, che proprio per il suo modo di fare iniziò a darmi ancora di più sui nervi. Salutai, fingendomi lieta di quell'invito, e subito i due “adulti” lasciarono me e Hitch in disparte.

«Ti vedo più accondiscendente di quanto potessi pensare», iniziò a bassa voce lui.

«Pensare tu? Ho i miei dubbi».

«Quest'affermazione ti dimostra che tra noi due, la più incapace di pensare sei tu».

«Opinabile, del tutto opinabile», risposi senza guardarlo.

«Tu dici? E allora perché ti ostini a tirare su le mura quando ci sono io nei dintorni?».

«Punto numero uno: questa frase l'hai tirata fuori da una delle tue canzonette? Punto numero due: pecchi di protagonismo se credi che io mi comporti così solo con te», lo bacchettai, sempre a bassa voce.

«No, so bene che fai così anche con... Come si chiama? Ah, Jess, ecco. Anche con lui sei così scorbutica e insopportabile, oppure lui non sa che sei così perché scappi da lui?».

Mi girai a guardarlo, smontando il sorriso che avevo stampato in faccia. Jenna mi fulminò, così mi contenni.

«Hey, Eminem dei poveri, non improvvisarti psicanalista, chiaro? Non con me». Mi fissò freddo e inespressivo e non rispose.

«Adam, perché non fai fare un giro alla nostra prima ospite? Avanti», lo incoraggiò Frank. Trovavo sempre più scuse per odiarlo in modo sempre più smodato e irrazionale. Almeno, stando lontana da Jenna, avrei potuto togliermi la maschera della felicità.

«Non credo le vada. Giusto?», finì rivolto a me. Restai spiazzata.

«A me... Non cambia niente. È uguale, non c'è problema». Frank incitò di nuovo il nipote con frasi che dovevano nascondere qualche ricatto in codice, sotto sotto. Così, alla fine seguii Hitch in giardino, dove campeggiava una piscina che faceva impallidire tutte le restanti di Beverly Hills.

Evitai i commenti ad alta voce.

«Allora, posso sapere cosa ti ho fatto? Una ragazza intelligente come te avrà di sicuro una buona ragione per odiarmi». Il tono sarcastico era chiarissimo e sovrastava qualsiasi altra possibile interpretazione di quella frase.

«Hey, adesso posso smettere di fingere di essere lieta di questa serata, perciò sta' zitto».

Gli scappò un risolino sommesso.

«Anche tu sei una gran bella ipocrita. Dici che non te ne frega niente di questo o quello, ma poi ti trovi proprio nei posti che disprezzi. Ma, sai... chi disprezza, compra».

«Ipocrita io? Guarda che sono qui solo perché è... il risultato di una mossa sbagliata», risposi infastidita.

«Quale mossa?», mi stuzzicò.

«Okay, è una punizione. Jenna è stata scaltra e fortunata abbastanza da scoprire una mia mossa sbagliata nel momento più azzeccato possibile». Mi guardò di sottecchi.

«Jenna sarebbe tua madre?», chiese con un filo di incredulità. Lo guardai senza rispondere. «Beh, è... curioso che tu la chiami per nome», si limitò a dire infine.

Chissà per quanto sarebbe andata avanti quella storia della finta conversazione.

«Senti, dimmi un po' chi hai invitato».

«Io nessuno. Mio zio ha invitato voi due, i genitori dei due ragazzi, i gemelli, quelli che vivono qui di fianco...».

«So benissimo chi sono. E, per la cronaca, si chiamano Jamie e Travis».

«Sì, beh. Loro. Poi dovrebbero venire anche quelli che vivono di là», disse indicando la casa di Chris (e ringraziai il cielo: i gemelli e Chris, serata salvata). «E poi... quella che abita vicino a te».

Serata distrutta. Per sempre.

«Cosa?! Verrà anche Dana?! Io ti odio sul serio!», dissi esasperata e pessimista.

«Senti, a me faceva piacere passare una serata per conto mio, soprattutto adesso che devo anche...». Si bloccò. La curiosità mi stuzzicava, ma mi trattenni dal domandare cose che non mi riguardavano.

«Okay, allora posso dirti che non appena arriveranno Jamie, Travis e Chris, io non esisterò più. Potresti passare la tua serata in disparte, se solo non fosse per Dana. Ma suppongo saranno cacchi tuoi, non miei», dissi soddisfatta del fatto che Dana avrebbe lasciato in pace me per tormentare Hitch.

«Sai, posso anche starmene per conto mio mentre la gente mi parla. Basta non ascoltare».

«Se mi ascolti o meno, non me ne frega granché», risposi come se mi avesse appena offesa, come se la frecciatina fosse rivolta a me.

«Facciamo così: se ti do la prova che ti ho ascoltata mentre parlavi, farai lo stesso con me? Mi ascolterai per cinque minuti?», chiese in tono di sfida.

«No. Non metto in dubbio il fatto che tu mi abbia ascoltata o meno. Semplicemente ti dico esplicitamente che non me ne frega delle vite altrui, soprattutto di quelli un po' altezzosi come te. Perché, in fondo, sei uno del tipo “so-tutto-io”, caro il mio rapper». Lo guardai fissa. «E non mi interessa un bel niente. Gente come te va e viene, fa più danni dell'umanamente possibile».

Non abbassò lo sguardo nemmeno per un istante, poi strinse gli occhi e parlò velocissimo.

«Adesso ti dico cosa ho capito di te.

Prima di tutto, tu e il mondo maschile vi odiate, fatta eccezione per i due gemelli. Probabilmente, uno dei due è il tuo migliore amico, l'altro è un buon amico che non vorresti perdere. Dal tono con cui hai scandito i loro nomi, direi che Jamie è quello a cui sei più attaccata emotivamente.

Poi c'è Lara, la tua migliore amica, e credo che la vostra sia una gran bella amicizia, ecco perché sei finita in punizione: forse volevi difenderla o coprirla, o forse hai fatto qualcosa che coinvolgeva anche lei e, beh, la tua punizione è qui, pronta per essere scontata.

Per non parlare di quel Jess... Ti fa davvero paura il modo in cui ti guarda, per questo ti sei allontanata da lui – e, come vedi, questo conferma il fatto che tu non vai d'accordo con i maschietti.

E questo mi porta ad un'altra cosa: chiami tua madre per nome, come se non volessi riconoscere di avere un genitore. Ora, tua madre l'ho vista, e ho capito che gli uomini li odi. L'unica domanda che ho da farti adesso non è perché tu odi me, piuttosto vorrei chiederti dov'è tuo padre, ma non te lo chiederò perché credo che avresti un crollo o inizieresti a gridarmi addosso». Strinsi i denti. «Okay, ti ho elencato i tuoi migliori amici, il rapporto che hai con i maschietti e tuo padre. Su tre, quante ne ho azzeccate?». Non ero sicura che la voce mi sarebbe uscita correttamente, comunque provai a rispondere lo stesso.

«Quattro. Hai fatto bene a non chiedermi niente», dissi sempre a denti stretti. «Se adesso, piccolo Freud, hai finito con il tuo show, io andrei di là a vedere se qualcuno arriva».

«Arriveranno qui da soli. Lo so che con me non vuoi averci niente a che fare, ma abbi pazienza. È solo una serata».

«Se stai zitto mi aiuti parecchio», brontolai acida.

«Non mi ascolterai, vero?». Sembrava rassegnato più che curioso.

«Non avrebbe il minimo senso. Se saltasse fuori che sei uno sballato anche tu, non vorrei avere niente da spartire con te».

Rise cinico, ma tornò subito serio. Fissava il cielo, assorto in chissà quali pensieri. Poi mi venne in mente – non chiedetemi perché o come – che, di solito, i rapper non hanno vite così felici. Prendete Eminem. Parecchio disastrato.

In quel momento, Hitch mi sembrò quasi umano e vulnerabile, non il solito rapper assassino. E mi sentii davvero io l'imbecille. Aveva ragione anche su quello.

«Avanti, illuminami. Ti ascolto», mi arresi alla fine. Si voltò a guardarmi, scettico. «Avanti», lo incitai con voce più stridula.

«Posso chiamarti per nome?», chiese facendomi sentire ancora più stupida.

«Certo, certo», acconsentii rapidamente per placare il senso di vergogna che mi aveva fatto diventare piccola piccola.

«Sai, sono di Detroit», cominciò, «dei quartieri bassi. Hai presente Eminem?».

«Sì. È di Detroit anche lui, se non sbaglio», dissi – per la prima volta senza acidità nella voce.

«E ha una figlia che si chiama praticamente come te. Comunque, suppongo non te ne freghi niente. Il fatto è che io sono abituato a gente come te, diffidente e chiusa. Sono anche abituato al genere di persone completamente opposto, sai... La fama, i soldi. E tutto diventa amichevole e finto.

Prima di incidere ero uno scapestrato. Lo so come devo comportarmi con gente come te, giuro che lo so. Eppure tu sei incredibilmente cocciuta e – permettimelo – stupida. Come si fa a essere così ottusi e intolleranti verso qualcuno che nemmeno conosci? Sapere un paio di strofe delle mie canzoni, ammesso che tu le abbia mai sentite, non significa affatto potersi arrogare il diritto di giudicare così, su due piedi. Sono convinto che tu abbia le tue ragioni nel subconscio, e non le sai nemmeno tu, però... Fammi un favore: o mi ignori del tutto, o fingi tolleranza. Un minimo di tolleranza, giusto per rientrare nella buona educazione. Smettila di fare la vittima buona e spazientita, lo so che hai i tuoi problemi, ma... Accidenti, risolvili».

Restai senza parole. Che lezione, ragazzi. Ero davvero una cazzona, permettetemelo. Credevo di essere più intelligente. E, invece, adesso, ecco arrivare questo rapper che mi aveva appena spiattellato tutta la verità più ovvia in faccia, e lo aveva fatto con una tale classe che...

Sicuri che fosse un rapper?

Era davvero sottovalutato. Io, almeno, nemmeno volevo sentire il suo nome. E questo perché?

Non c'era una vera ragione, una plausibile intendo.

Iniziai a guardarlo compiaciuta e pensierosa, sempre un po' umiliata.

«Adam, giusto? Non “Hitch”, ma Adam».

«Adam Morrissey», disse più rilassato. Allungai la mano verso di lui, in attesa che la stringesse.

«Hayley Smithson. Piacere di conoscerti».

«Piacere mio, Hayley», rispose con voce più bassa, serio, fissandomi negli occhi.

 

Quando alla porta suonarono di nuovo, andammo ad aprire insieme. Frank e Jenna stavano conversando tranquilli dietro di noi e non sembravano credere ai loro occhi: ancora non ci eravamo scannati vivi.

Buttai le braccia al collo di Chris non appena lo riconobbi. Era il mio salvagente per quella serata. Insomma, Hitch – Adam, Adam – aveva guadagnato punti e non lo odiavo più con tutta me stessa, ma, capitemi, non c'era la confidenza che potevo avere con i miei amici, quelli che avevo da tempo. Perciò, sapendo che la prossima ospite sarebbe stata la figlia di Plastic-woman, fui incredibilmente sollevata e felice di vedere almeno lui, anche perché era da un pezzo che non lo incontravo. Alla festa di Eva, quella maledetta festicciola, lui non c'era.

«Chris!», lo salutai con troppa forza.

«Oh, che accoglienza!», rispose imbarazzato lui. Di solito non era così che lo salutavo.

Scambiai due parole anche con i genitori di Chris e lasciai che Adam si presentasse insieme a suo zio ai nuovi ospiti. La situazione era diventata più sopportabile.

«Grazie a Dio, Chris, ci sei anche tu. Dana non me la voglio sorbire da sola. Jamie e Travis? Stanno arrivando?», chiesi impaziente come una bimba. La faccia di Chris non mi piacque affatto: faceva smorfie, come per dire “mi dispiace, ma...”. Sembrava non trovare le giuste parole. Aveva quel “ma” stampato in fronte a caratteri cubitali.

«I tuoi cugini non verranno», disse Adam, pacifico. Guardai Chris, sperando che l'intuizione di Adam fosse sbagliata. Oh, no. No...

«Già. Jamie e Travis avevano un impegno e...», fece timoroso della mia reazione.

«Cosa?», dissi delusa, «Ma perché?». E sbuffai. Era una gran brutta notizia, che – stando alla faccia di Chris – era solo la punta dell'iceberg.

«Già. Beh. Hayley, non arrabbiarti. Ma tra qualche minuto li raggiungo anch'io. Sono solo venuto a conoscere Adam», e gli buttò un'occhiata amichevole, «e a farti un salutino. Non prendertela».

Prendermela? Prendermela? Accidenti, dovevano avere delle ragioni molto, ma molto più che valide per bidonarmi così. Tutti e tre.

Sbuffai dal naso e misi le mani sui fianchi.

«Ancora non mi hai detto perché mi bidonate – e stai attento alla risposta, pensaci bene».

«Allora passo», rispose spaventato.

«Non puoi passare», lo rimbeccai acida. Adam fingeva di guardare altrove, disinteressato.

«Hayley, so per certo che mi decapiteresti piuttosto che lasciarmi raggiungere Lara, Jamie e Travis a casa di Jess».

Mi si strinse il petto dalla rabbia che provai in quell'istante. Rabbia, ma anche vergogna. Mi sentivo anche un po' esclusa, come se mi avessero mancato di rispetto tutti quanti, pure Lara. Avevano fatto tutto alle mie spalle, di sicuro, perché Jess aveva detto solo la sua versione. Li aveva invitati a casa tutti? Tutti tranne me! Okay, aveva le sue ragioni, ma... Si era preso tutti quanti, lasciandomi in disparte e sapendo che sarei venuta a saperlo. Cosa voleva dimostrarmi, quello stronzo? Non credevo che un ragazzo come lui potesse essere così meschino. E poi perché? Solo perché mi aveva dato un mezzo bacio. Okay, non era proprio un mezzo bacio, piuttosto uno e mezzo. O due. Anche tre, volendo, ma non era quello il punto. Aveva fatto sempre il ragazzo onesto e superiore a questo genere di cose, e adesso? Era diventato un mostriciattolo californiano acido e stronzo. Mi aveva davvero esclusa da tutto. E i miei amici! Avevano subito scelto lui al posto mio, ammesso che ci fosse stato da fare una scelta. Che cosa stupida e... fastidiosa. Mi dava fastidio, così fastidio che desiderai che Chris non avesse mai varcato quella soglia per dirmi una cosa simile. A quel punto, aspettavo Dana con ansia.

La rabbia sbollì e diventò rassegnazione, amara e crudele rassegnazione.

«Hayley, vedi, io non trovo giusto che...», iniziò a giustificarsi Chris.

«Sta' zitto. Zitto e sparisci, non voglio sentire una sola parola di più».

«Hayley, io...».

«Chris, dannazione, apri quella fottuta porta e salutami tutti di cuore. Tutti», sibilai tra i denti.

«Hayley, vieni anche tu», mi propose timoroso.

«Amico, fuori di qui, avanti. Un colpo basso non si risolve così, perciò fingi di non essere mai entrato in questa casa e vai dai tuoi amichetti. Salutali anche da parte mia», disse Adam, sempre intento a scrutare gli altri invitati. Il suo tentativo di difendermi mi fece sentire ancora di più una nullità.

«Per favore, non è stata una mia idea», provò a dire in sua difesa Chris.

«Nessuno ti accusa, idiota. Adesso vattene e divertiti», risposi senza ammettere repliche.

Così, dopo essersi scusato con Frank e aver avvisato i suoi genitori della sua uscita, tolse il disturbo con una faccia da cane bastonato tatuata addosso.

Il silenzio che calò successivamente sembrava pesare tonnellate.

«Andiamo di là, okay?», mi consigliò Adam senza guardarmi e indicandomi la strada con espressione di nuovo ostile. A testa bassa, lo seguii.

Arrivammo in una stanza molto simile a un luogo di svago, con flipper, biliardo e divani in pelle ovunque. Ovviamente, c'era un super impianto stereo e tutte le super tecnologie che potete immaginare. Schermi piatti da un milione di pollici, acquari a parete, computer e...

Dio, quante chitarre. Sgranai gli occhi. Addirittura un piano forte. Quell'angolo doveva essere la zona musica... E ne restai affascinata. Quell'angolo lì, in disparte, vinceva anche sul perfetto reparto bar che avevo appena scorto.

Era il paradiso, quella stanza.

«Accidenti, non ti fai mancare niente». La voce mi uscì più mesta del previsto. Doveva sembrare sarcastica, non doveva indurre la gente a provare pietà per me.

«Sì. A volte serve un posto del genere», ammise ironico.

Mi avvicinai alle chitarre e al pianoforte e ne sfiorai i profili, voltandomi verso di lui.

«Sapevo che tra tutte le cose che ci sono qui avresti notato prima quelle», fece compiaciuto.

«Componi?», chiesi affascinata, quasi senza sentirlo.

«Quando mi lasciano il tempo per farlo, sì». Restai di stucco.

«Vuoi dire che sai suonare chitarra e piano?».

«Non è illegale, sai? La gente può ancora farlo, se vuole».

«Sì, beh, intendevo dire che è “curioso” che tu sappia anche suonare. Credevo facessi solo rap, e...».

«Credevi che le canzoni me le scrivessero altri, no?».

Mi strinsi nelle spalle. «Non proprio. Cioè, la cosa strana per me è che un rapper, oltre a rappare, sappia anche comporre. Mi sembra... insolito, tutto qua».

«Guarda che avere chitarre in casa non significa essere necessariamente bravi a comporre», mi disse con una punta di rimprovero. Chissà perché, sembrava che sapesse il fatto suo. Annuii e mi sedetti al pianoforte. Era passato parecchio tempo dall'ultima volta che avevo suonato, ma la tentazione era davvero troppo forte.

Il mio primo istinto fu quello di suonare alcune note iniziali di una canzone dei Linkin Park, una delle prime che avevo imparato da Bryan.

«“In The End”. Non credevo ti piacesse quel genere di musica», si limitò a constatare Adam. Mi stupii del fatto che l'avesse riconosciuta così rapidamente, ma non così tanto, a dirla tutta.

«Già. Ti dirò che, comunque, il rap non mi piace».

«Non mi dire», fece ironico. Sorrisi per il suo tono. «E che genere di musica ascolti?». Mi sembrò sinceramente interessato alla risposta.

«Se ti dico Paramore, che mi rispondi?>», feci scettica.

«Direi “Misery Business” oppure “Crushcrushcrush”... Si chiamano così, no?». Beh, non se l'era cavata così male. Aveva detto due canzoni, non le migliori, secondo me, ma ne aveva sapute almeno due.

Sorrisi.

«Non mi devi dimostrare che li conosci», dissi.

«Sembrava che volessi fare il contrario. Comunque, che altro ascolti?», mi chiese improvvisamente concentrato.

«Beh. Linkin Park, a volte... Raramente. Mi mettono di cattivo umore».

«Perché hanno ragione», concluse lui. Lo guardai di sfuggita, poi lo squadrai.

«La smetti? Non ti dico più niente se continui a fare lo psicanalista».

«La smetto, d'accordo. Che altro?». Mi stava assecondando? Accidenti a lui.

«Principalmente Paramore. O Strokes, a volte. Anche U2, in certi momenti. E poi cose un po' sparse, classici un po' di qua, un po' di là», spiegai vaga.

«Intendi dire che non sei appassionata di quei colossi del passato, ma non sei ignorante, giusto? Sai di cosa parli quando paragoni questo a quello». Lo guardai, restando a bocca aperta.

«Okay. Non ci parlo più, con te», sbottai dopo un po'.

«Suoni la chitarra?», mi chiese ignorandomi. Mi chiusi la bocca con un giro di chiave immaginaria e mi strinsi nelle spalle.

«Non è colpa mia se deduco bene le cose quando ascolto la gente», ammise compiaciuto.

«Almeno fingi di non capirle, così non metti in soggezione i comuni mortali, okay?».

Mi guardò, un po' preso in contropiede.

«Addirittura “soggezione”? È per questo che mi odi?». Feci una smorfia.

«Addirittura “odio”? È per questo che ti impegni a voler capire cosa penso?». Inclinò la testa di lato, come per esaminarmi meglio, poi fece un passo indietro, sospirando.

«Sei un libro aperto, non sono io che metto in soggezione», concluse quasi rivolto a se stesso. Mi sentii improvvisamente vulnerabile, come se quel ragazzo potesse davvero sapere con una semplice occhiata chi fossi io in realtà. Probabilmente, capì dalla mia espressione tutto il disagio che mi aveva scatenato.

«Tranquilla. Chiudo il libro non appena me lo chiedi».

«Allora chiudi. Adesso», ordinai implorante. Alzò gli occhi al cielo e mi chiese se volessi qualcosa dal mini bar. Accettai e decisi di indagare anch'io.

«E tu? Sei di Detroit, vivi con tuo zio, e... ?», feci stentando disinvoltura.

«Non sei proprio capace a ragionare come faccio io», disse ridendo di nascosto. «Adesso ti insegno, ti sarà utile». Mise un bicchiere davanti a me e mi si sedette di fronte, al posto del barista immaginario. Mi misi comoda sullo sgabello, in attesa di quella lezione. Ero curiosa.

«Illuminami», dissi.

«Certo. Allora, se ti dico Detroit, a cosa pensi?».

«Aretha Franklin e White Stripes».

«Anche Eminem, se è per questo. Dimmi cos'altro ti viene in mente, così non ci siamo».

«Il Michigan? Il fiume Detroit?», feci stentando.

Storse il naso.

«Madonna? Andiamo, lei è originaria di Detroit».

«Okay. A parte che è originaria dell'Italia, ma è nata a Detroit. Non c'entra niente. Fai un passo indietro. Detroit è una grande città, no?». Annuii, decisa e sicura. «E, come tutte le città più o meno grandi, ha zone più sicure e altre... più travagliate». Colsi il messaggio.

«Tu sei di una di quelle zone travagliate», dissi di getto. Poi compresi che Detroit avrebbe dovuto rimandarmi subito all'aggettivo “malfamato”, o – perlomeno – “poco sicuro”. Certo, in ogni città ci sono zone più pericolose di altre, ma...

E così, era di Detroit. Detroit.

«Esattamente. Perciò, cosa ti porta a pensare questo fatto?».

«Che... Non hai avuto sempre la pappa pronta», supposi.

«Vedo che ragioni. Okay. Passiamo al fatto che vivo con mio zio?», chiese come per chiedermi il permesso.

Ci pensai un attimo. Viveva con lo zio. E i genitori? Vagliai le possibilità.

Uno: i suoi genitori erano morti per una disgrazia quando era piccolo.

Due: l'avevano abbandonato.

Tre: era stato adottato. Ma perché chiamarlo “zio” e non “papà”, allora?

Quattro: il fatto era più complesso. Uno dei genitori era stato stronzo e forse l'altro era morto.

Cinque: entrambi i genitori erano stati stronzi.

Quando compresi che quel discorso mi era fin troppo familiare e che avrebbe potuto condurre di nuovo a me, riflettei sulla sua ultima richiesta, quasi un permesso chiesto a me, come se avesse saputo che avrei avuto qualche difficoltà a parlare di quel genere di cose.

«Sai una cosa? Non sono affari miei», dissi vaga, ma visibilmente a disagio. Sorrise cinico.

«Neanche i tuoi sono i miei. Ho chiuso il tuo libro, me l'hai chiesto». Mi strinsi nelle spalle, un po' spaventata da quell'individuo onnisciente e lasciai il tutto in sospeso.

In quel preciso istante, sulla soglia spuntarono due sagome esili e urlatrici (come le scimmie). Chiusi gli occhi e inspirai a fondo.

«Oh. Mio. Dio. Non pensavo ci fossi anche tu, Hayley!», strillò Bree, con le risatine di Dana come sottofondo fastidioso. Erano così sceniche e false da sembrare aliene.

Ovviamente erano tutte in tiro, scoprendo il più possibile le loro pelli abbronzate e truccate fino all'indicibile. Non sapevano usare il trucco in modo giusto e lo potevo dire perché io, almeno, ne capivo qualcosa. Minigonne o shorts super attillati facevano sempre uno strano effetto su di loro.

Le guardai senza sorridere.

«Dana. Bree. Che gioia», feci inespressiva.

«Abbiamo interrotto qualcosa?», fece invidiosa e maliziosa Dana, tanto che non le risposi. Adam andò a presentarsi, accompagnato dalle solite risate isteriche e sommesse di chi interpreta anche un solo saluto meramente frutto delle regole dell'educazione come una dichiarazione a cuore aperto.

Scollegai il cervello. E, involontariamente, i miei pensieri si spostarono verso un altro punto.

Jess.

Fino a che avevo parlato con l'angoscia in persona, avevo tenuto il cervello occupato. Ora che lo psicanalista fingeva di essere educato con le due svampite di turno (che, grazie a Dio, non mi calcolavano), era inevitabile ripensare al fatto che Jess mi avesse accuratamente tenuta da parte.

E faceva male essere esclusi così.

Non aveva capito niente, non mi aveva nemmeno dato la possibilità di...

Cosa? Spiegare? E cosa gli avrei detto?

“Guarda che sono sparita non per colpa tua, ma perché ripensavo a quando mio padre era tornato a distruggere la vita di Jenna mettendo al mondo me per poi abbandonarci di nuovo”.

Che pietà. Che vergogna. Mai e poi mai.

Con il tempo ci sarei passata sopra, avrei dimenticato tutto e sarei andata avanti come al solito. Ci riuscivo sempre, in fondo.

«E dove sono i tuoi amici?», mi chiese Dana con tempismo perfetto. Trasalii e scrollai le spalle. Adam mi guardò serio dalle loro spalle. E, potrei giurarci, scosse impercettibilmente la testa, come per rimproverarmi il fatto di non aver detto loro la vera ragione dell'assenza dei miei amici.

 

Mi trascinai per tutta la serata con un sorriso che mi stancava. Correre per venti ore filate sarebbe stato più facile. Ormai era quasi mezzanotte e Dana e Bree – finalmente – dovettero scappare alla festa di non so quale altra malcapitata ragazza. Ovviamente, fecero il possibile per trascinarsi anche Adam, ma non me. Era bello vedere che le loro attenzioni (o, al contrario, proprio la mancanza di queste da parte loro) non mi scalfivano affatto. Era il minimo.

Adam rifiutò più e più volte, sempre distaccato e, quasi sicuramente, esaurito per la loro insistenza.

La cosa buffa era vedere come loro stesse si facessero guerra per accaparrarsi il premio, non so se mi spiego. Avevo assistito allo spettacolo osceno con una certa pena per loro, ma anche divertita della loro completa e totale stupidità.

Quando alla fine se ne andarono, tutti gli “adulti” (soprattutto Jenna) ci incitarono ad uscire per i fatti nostri, andare a fare un giro di conoscenze o altro.

Inutile dirvi quanto fosse imbarazzante.

Inutile dirvi che Adam acconsentì subito. Subito.

A testa bassa, uscii anch'io da quella casa, lieta che almeno adesso non avrei dovuto sorridere per forza. Il fatto di avere la testa altrove mi portò a camminare seguendo Adam come riflesso incondizionato. Mi fermai quando mi trovai di fronte la sua macchina da un trilione di dollari.

«E con ciò?», feci scettica.

«E con ciò, sali in macchina e andiamo a fare un giro». Risposi con una smorfia. «Non mi dire che l'ultimo sabato estivo lo vuoi passare a casa tua. Che tristezza», mi provocò. Accentuai la faccia schifata.

«Dove abita quel Jess? Ti ci porto», annunciò salendo in macchina e abbassando il finestrino del passeggero, allungato verso di me. «Salta su».

«Illuso», dissi incamminandomi verso casa mia. Saltò giù dalla macchina e mi venne dietro.

«Hai paura».

«Ah-ah», lo assecondai.

«Mi odi di nuovo». Non era una domanda.

«Ah-ah».

«Seguimi o chiedo a tua madre di parlarmi di tuo padre». Sentii un rumore metallico nel cervello, lo stesso che fanno le lame affilatissime quando passano accanto alle orecchie a velocità sovrumana.

Frenai di botto e mi girai brusca, lanciando una mano in aria di proposito e colpendolo in faccia, come speravo.

Non fece una piega.

«Lo faccio davvero», mi promise minaccioso. Il rumore metallico si trasformò in uno schianto: le lame si erano conficcate per benino, visto che sapevo che lo avrebbe fatto davvero. Davvero.

«Aspettavo solo una dimostrazione della tua essenza di puro ed emerito stronzo, non ti preoccupare. Mi dai solo l'input che mi manca per arrivare all'odio vero», sibilai.

«E cosa risolveresti? Sentiamo», mi rispose più ostile di quanto mi aspettassi. Il suo sguardo fisso mi innervosiva perché mi rendeva del tutto impotente. La tensione era così palpabile da essere quasi visibile. Strinsi i denti.

«Posso chiederti perché diamine hai preso di mira me?», chiesi esasperata e per nulla spaventosa.

«Dovevi pensarci quando hai deciso – a prescindere – che non avresti mai voluto neppure conoscermi. Sai, sono uno che prende le cose a cuore. E faccio le cose sul serio. Cerco di capire dove sta il problema, soprattutto. Cosa che tu non fai. Perciò, sali su quella macchina e risolvi il tuo problema minore, che è quel ragazzo della cui intelligenza inizio seriamente a dubitare. Ma, a dirla tutta, dubito anche della tua».

Deglutii e lo fissai, senza parole.

«Per. Favore. No», dissi scandendo bene ogni lettera. «Assolutamente non stasera».

Probabilmente, il mio tono lo impietosì, perché mi lasciò perdere. Almeno, così credevo.

«Sali in macchina».

«Adam!».

«Non ho detto che andiamo da lui, non so nemmeno dove abita. Sali e basta». Dio solo sapeva quanto mi fosse sembrato minaccioso e vissuto quel ragazzo in quel preciso istante. All'improvviso, me lo immaginai in un vicolo buio che tentava di calmare le acque in una rissa, o addirittura che scatenava la stessa rissa. Che litigava e si scontrava con tutti. Ma forse erano solo effetti che la mia mente produceva nel vederlo così sicuro di sé e freddo.

E così, salii in macchina. Certo, un po' titubante e infastidita, ma ci salii.

Si accese una sigaretta e mise in moto. Sembrava che proprio tutti, lì, fumassero.

«La funzione di questa cosa?», chiesi fissando le case fuori dal finestrino. Aveva capito che non mi riferivo al fumo.

«Smettila di credere che tutti abbiano secondi fini o obiettivi. A volte le cose si fanno così, per il semplice gusto di farle». Semplice gusto di farle? Oddio.

«Allora mi dici dove andiamo?».

«Giriamo a vuoto fino a che non capisci che non è in questa macchina che dovresti essere», mi disse lanciandomi un'occhiataccia.

«E nemmeno a casa di Jess. So benissimo che non dovrei essere da lui».

«Spiegami come è andata», fece fissando la strada di fronte.

«Non è andata. Punto. Lui mi ha...». Guardai di sfuggita Adam e subito ebbi l'impulso di vuotare il sacco. «Okay, lui mi ha baciata, mi ha fatto capire che gli piacevo, poi mi ha detto che stava a me decidere. Poi è seguito un periodo in cui...». Sbirciai di nuovo verso di lui, e di nuovo presi lo slancio necessario a parlare. «Sì, è seguito un periodo di un paio di giorni in cui sono sparita, ma il fatto è che lui crede che io l'abbia fatto per evitarlo. Così lui ha fatto lo scemo, io ho fatto la scema e adesso... Lui è di là, io di qua».

«Stando così le cose, tu sei la più idiota dei due. Conosci i fatti, hai capito cosa crede lui, eppure non fai niente per rimediare. Sei sveglia, ma incredibilmente pigra e sorda».

Mi sforzai di non gridargli dietro, se non altro per non dargli la soddisfazione di dire “avevo ragione io, allora”.

«E con ciò?».

Frenò e accostò. Si voltò verso di me e mi fissò a lungo. Poi si avvicinò e io d'istinto feci uno scatto all'indietro.

«Vedi? Lo so che ti metto a disagio, ma tu sei davvero troppo passiva. Scappi in continuo». Tornò al suo posto, senza far trasparire niente. «Hayley, smettila. Sei ridicola», concluse mettendo in moto.

Prima che me ne accorgessi, mi aveva riportata a casa.

Mi sembrò di intravedere un piccolo lampo di luce vicino a casa mia, ma sapevo che nessuno era in casa. Dovevo essermi sbagliata.

Salutai a bassa voce e aprii la portiera.

Mi avvicinai alla porta, riflettendo su una cosa: mi aveva riaccompagnata a casa.

Ed era già la seconda volta che succedeva.

   
 
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