Chiedo scusa per il ritardo atroce con il quale pubblico l’ultimo capitolo,
ma per una serie di complicazioni non ho potuto farlo prima. So che questo è
stato un po’ il leit-motiv di tutta la pubblicazione, ma vi assicuro
che non è dipeso da me.
Come sempre, grazie per i commenti, le e-mails, i
complimenti e anche le ‘critiche’ (non c’è nessun bisogno di scusarsi, hika86. De gustibus,
no?) Tutto aiuta a migliorarsi. Vi lascio con l’ultimo capitolo, dunque.
Buona lettura e ancora grazie a tutte :) (Suni, sono lieta che tu abbia trovato la storia realistica
:D).
Neeva
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~ Capitolo nove ~
Jumbled up
“Mom…”.
“Hey…”, Debbie
si volta, distogliendo così lo sguardo dalla stessa rivista del mattino.
“Scusa…”, dico soffocando una risata.
“Hmph… Lij,
se non vuoi che compri niente da questo catalogo, faresti bene a dirmelo
anziché rompermi ogni due secondi!”, sbotta lei fingendosi esasperata e
inarcando un sopracciglio con fare interrogativo.
Io continuo a ridere di fronte a quell’espressione.
“Buon pomeriggio anche a te”, la prendo in giro abbassandomi e baciandola su
una guancia.
“Mmh… ritenta”, ribatte lei
ancora finto inflessibile.
“Stai abusando della mia dose di carinerie
quotidiana, Debbie”, sottolineo
guardandola falsamente truce.
“Ci ho provato”, si stringe lei nelle spalle, prima di
abbagliarmi letteralmente con un sorriso dei suoi. “Ti trovo meglio, sweetie”, mi dice
arruffandomi i capelli che ho cercato di sistemare dopo la lunghissima doccia
che mi sono concesso.
“Mamma…”, brontolo rassegnato, ma trattenendo un sorriso,
mentre le do le spalle e prendo del succo d’ananas dal frigo.
“E’ un complimento, Elijah”,
dice lei.
“Lo so”, ricambio il sorriso, prima di bere un sorso.
“Sei a secco di provviste?”.
“Mmh?”.
“Sei venuto a bere qui”, si chiarisce indicando il
cartone ancora aperto e appoggiato sul ripiano.
“Sono venuto per te”,
ribatto.
Ed è qui che la vedo illuminarsi.
Non so a che ora sia rincasata. Forse mezzogiorno.
Quando sono rientrato nel mio
appartamento, ho aperto subito tutte le imposte e mi sono svestito,
abbandonando gli abiti lungo il percorso, per entrare nel box-doccia. Mi sono
sentito un po’ meglio dopo. Almeno lo sporco del giorno precedente e parte della
stanchezza sono andati via cancellati dal sapone e risucchiati nelle tubature,
insieme allo stesso getto d’acqua tiepido. Con indosso l’accappatoio, chiuso da
un nodo approssimativo in vita, mi sono rasato,
notando che un po’ delle occhiaie erano scomparse. Lo stomaco non mi faceva
male come nei giorni passati, parte della tensione latente era andata
altrettanto via.
Mi sono vestito prendendo una t-shirt a caso dall’armadio
e poi un paio di jeans sdruciti. A piedi scalzi ho percorso la strada verso l’ingresso,
raccattando i vestiti per terra, e sono andato in ripostiglio mettendo su una
lavatrice, con alcuni degli abiti che non ho fatto in
tempo a lavare a Cedar. Insomma, capita a volte che
me la faccia anche io.
La casa è in ordine, se si eccettuano i CD sparsi sul
tavolo del salotto e un paio di copioni che sto visionando, sottolineati
qua e là. È così che di solito li studio. Evidenziando le
parti che mi convincono con un colore e quelle che invece mi lasciano perplesso
con un altro. Al momento questi due mi sembrano piuttosto buoni. Non li
ho portati appresso con me e non li riprendo in mano da almeno dieci giorni. Coleen, la mia agente, non mi ha contattato in questo arco di tempo, rispettando il mio volere, ma suppongo
che riceverò una sua telefonata tra oggi e domani.
Mettendo su un CD di Miles Davis, mi dico che ho ancora del
sonno arretrato da smaltire e così, lascio le persiane aperte a metà, creando
un specie di penombra, e mi stravacco sul divano del salotto. Mi sono alzato
verso le quattro del pomeriggio, finalmente riposato e senza nessuna brutta
morsa alla bocca dello stomaco. Credo mi abbia fatto bene parlare un po’ con Deb, almeno per alleggerire parte dell’angoscia ed esternare
ad alta voce i miei dubbi. Mi piacerebbe essere su un’isola deserta e gridare
così a squarciagola, nulla di particolare, solo gridare, in maniera
liberatoria, magari riuscirei ad archiviare del tutto così gli ultimi otto
giorni.
Il frigo è parzialmente vuoto, così
bevo solo dell’acqua. Devo fare la spesa, forse Han avrà voglia di accompagnarmi. Vado di là a
chiederglielo, mi sono detto, ed è così che infilate un paio di sneakers al volo, esco di casa. I
fiori nel giardino stanno sbocciando. Anzi, molti lo hanno già fatto. Molti
roseti anche qui. A distanza di una settimana mi trovo di fronte un angolo
della casa notevolmente diverso. Ieri sera non ci avevo fatto
caso. Neanche stamattina a dire il vero, ma ho come la sensazione che
mia madre abbia finito da poco di metterlo a posto.
“Hai fatto un bel lavoro in giardino”, le dico, infatti,
versando anche a lei un bicchiere di succo, tornando al presente.
“Grazie. Piace anche a me. Ho cambiato i vasi ai roseti,
aggiunto della terra e modificato un po’ la disposizione”.
“Dov’è Han?”,
chiedo a questo punto. “A dirla tutta c’è poco e niente in casa… piantala di annuire e farmi quella faccia alla te lo avevo detto io”, la ammonisco
facendole una smorfia. “E volevo portarla con me a
fare compere. È una patita del genere, non dovrebbe
darmi buca”.
“Credo di no. È tornata esaltata dall’incontro con l’iguana, ma
sorprendentemente non ha cominciato a blaterare di volerne portare una in
casa”.
“Magari ha anche lei un po’ di sale in zucca…sorprendentemente”.
“Lij…”, mi guarda lei
soffocando un sorriso. “Non è carino quello che dici di Hannah”.
“Lo so”, confermo, rimettendo il succo in frigo e uscendo
in cerca della mia pestifera sorella. “Hey, Han…”, la chiamo affacciandomi
dalla porta finestra.
“Elijah…”, mormora lei
rispondendo al saluto, con un sorriso che mi sembra un po’ tirato sul volto
truccato leggermente dal mattino.
“Tutto bene?”, le chiedo sedendo sulla poltroncina di
fronte a lei, al di là del tavolinetto
sul quale ci sono le sue cose. Una specie di diario sul quale
spicca la sua calligrafia. Non mi
risponde, e la vedo distogliere lo sguardo. “Han?”,
ripeto sorpreso di trovarla così giù di morale. Di solito rientra in casa
sempre al massimo dell’eccitazione dopo aver passato delle ore con quell’esaltato, appunto di Jack e
compagnia. Questo atteggiamento non è affatto da lei
invece.
Hannah ama le arti e la letteratura. È
tanto eccentrica quanto poetica; scrivere poesie, infatti, è una delle sue
passioni. Forse è in piena fase creativa e le sto dando fastidio interrompendo
che so, magari l’immedesimazione che sta cercando di portare avanti.
Rimango così in silenzio, osservandone il volto e lo
sguardo lontano a vagare sul moto dell’oceano. Prendo una sigaretta dal suo
pacchetto e l’accendo iniziando a fumare senza proferire parola.
Dopo un po’ è lei a rivolgermi la parola. “Come ti senti,
Lij?”, chiede con un sorriso un po’ più convincente
sul viso.
La scruto alla maniera di mia madre, vale a dire fisso e
in profondità, in un modo che mi mette sempre a disagio e che so mette anche
lei a disagio, ma che è superefficace per far emergere in superficie quello che
non va o si cerca di nascondere. “Io meglio”, rispondo un po’ lapidario e senza
troppo calore nella voce. “Tu come
stai?”, puntualizzo sul tu.
“Uh… bene. Mi sono divertita con Jack”.
Sguardo vago e titubanza iniziale.
Equivalgono a bugia nel mio vocabolario.
Mi riferisco al fatto che stia bene.
“Ti sto dando fastidio, Han?”,
chiedo spegnendo la sigaretta.
“No…”, nega lei con espressione sorpresa sul volto,
mentre si accende quella che sarà la quindicesima paglia del pomeriggio, in
base al numero di mozziconi spenti nel portacenere. È troppo. Anche per lei che è una discreta nicotinomane.
Osservo che le mani le tremano un po’, mentre tiene la
sigaretta. Che accidenti le è successo? Mi ripeto
avvertendo ora nettamente la sua difficoltà. È diventata pallida sotto il
trucco. La t-shirt rossa che indossa rende il contrasto ancora più netto,
mentre i capelli biondissimi, sembrano un tutt’uno
con quel pallore evidentemente innaturale.
“A me non sembra”, le dico senza muovermi dalla poltrona.
“Stai tremando, Han. Che diavolo
è successo?”, sbotto privo di gentilezza e fissandola direttamente negli occhi.
“Niente…”, mi ripete negando e stringendosi nelle spalle,
come incapace di dirmi cosa le sta passando per la testa e nient’affatto
confortata dal mio tono di voce. “Davvero, Lij.
Tecnicamente… non è successo niente”.
“Tecnicamente?
Non capisco, Han”, dico
addolcendo la sfumatura dura usata in precedenza.
“Sono solo pensieri”.
“Che tipo di pensieri?”, insisto
maledicendo la mia invadenza, ma voglio aiutarla.
“Sono solo stupidaggini, Lij. È ogni volta la stessa storia. Non vale
la pena farne una tragedia…”, mi dice spegnendo la sigaretta fumata per
metà e passandosi poi un braccio sugli occhi lucidi. Neanche questo è normale. Hannah non è una da cedere facilmente alle lacrime.
Rimango in silenzio cercando di capire cosa abbia voluto dirmi e poi all’improvviso è un pugno in pieno
stomaco che mi toglie il respiro.
Sono solo stupidaggini, Lij. È ogni volta la stessa storia. Non vale la pena farne
una tragedia…
Mi riconosco in quello che ha detto. E
l’argomento non può essere che uno. Anche io lo
liquido così la maggior parte delle volte.
“Hannah…”, la chiamo allora
vedendola piangere, praticamente senza emettere un
fiato, mentre si alza e afferra il ferro della ringhiera con violenza, le
nocche delle mani bianche e lo sguardo rivolto ancora una volta all’oceano. Non
riesco a vederla così, mentre mi dà le spalle, cercando di non farmi ripiombare
a mia volta in quel tipo di pensieri. “Hey… andiamo, Han”, le mormoro con una nota di preoccupazione a farmi
incrinare la voce, prima adamantina e senza nessun’inflessione
riconducibile a debolezza.
Questo la fa voltare e guardarmi come se si sentisse in colpa. “Scusami, Lij…
davvero… ma… lo odio… lo odio… odio l’idea che sia
completamente disinteressato a noi… odio l’idea che possa dimenticarci come se
non fossimo niente per lui…”, mi dice guardandomi in volto e mostrandomi per un
attimo i suoi occhi incupiti dalla rabbia.
“Han…”, mormoro ancora
sfiorandole una delle mani strette come una morsa. “Non c’è niente di cui
scusarsi”, le rispondo accarezzandole una guancia umida di lacrime e accennando
un sorriso triste.
“Sì invece. Accidenti, Lij! Tu
sei tornato distrutto da Cedar e stai cercando di
dimenticare e io sto qui a comportarmi da idiota… dicendoti quanto
odi nostro padre, come fosse una novità. Mi dici come può esserti
d’aiuto questo?”, mi chiede arrabbiata, ma con se stessa, lo so bene, e le mani
di nuove chiuse a pugno, sebbene adesso le braccia siano abbandonate lungo i
fianchi.
“Mi dispiace, Han… suppongo che
se avessi finto meglio ieri sera adesso staremmo ridendo al tuo racconto
sull’iguana di Jack”, dico con lo stesso sorriso mesto
sul volto, forse appena più allegro e per questo ancora più insopportabile.
“Sei un’idiota, Elwood. Il mio era un discorso serio”, ribatte lei con quella stessa fiamma
distruttiva negli occhi, ma con il corpo più rilassato.
“Mi dispiace...”, ripeto, abbandonando ogni tentativo di risollevarle
il morale, essendo il mio piombato di nuovo ai minimi storici ed abbracciandola
con dolcezza. La sento ricambiare subito, mentre le lacrime continuano a
scenderle silenziose sul volto. “E’ una situazione penosa, Han… ma non è colpa nostra”,
le dico accarezzandole i capelli e sentendomi all’improvviso infelice e
incredibilmente vuoto. Come se l’atmosfera densa e pesante di Cedar si fosse trasferita all’improvviso qui, in quella che
in teoria è la sorridente California. Già… non oggi a quanto sembra.
Capisco Hannah. Completamente e
so che lei ha sempre affrontato la questione Warren Wood con molta più rabbia di me. In una scala ideale, lei
sarebbe al primo posto, io al secondo e Zach al terzo. Tre atteggiamenti per
affrontare un’unica questione in sospeso e che potrebbe benissimo trascinarsi
così per tutta la vita. Lo è stata a lungo, nulla al momento indica che
potrebbe cambiare in positivo. Mi chiedo poi se
sarebbe del tutto immune da strascichi. No,
sono onesto con me stesso. Azzerare tutto è un’impresa impossibile.
Sento il mio corpo irrigidirsi per la tensione, senza che
possa fare nulla per evitarlo e fallendo penosamente nel tentativo di
rilassarmi. Avverto allora le mani di Han
accarezzarmi la schiena, come ad aiutarmi. Il fatto che sia
diventato una specie di statua colma di rabbia allo stesso modo, non le
è passato inosservato.
La tengo così stretta a me a lungo, anzi è meglio dire che lo facciamo reciprocamente. È questo quello che intendevo. Ci siamo l’uno per l’altro nei momenti
che contano. Ciò non vuol dire che abbiamo poteri
magici, io avverto ancora nettamente la frustrazione per questo lato della mia
esistenza, ma almeno ci si sente meno soli, supportati da persone che farebbero
letteralmente di tutto per te, e tu per loro.
Spero che Zach venga qui per il fine settimana. Vive a San Diego normalmente, ma
torna a Los Angeles spesso, un paio di weekend al mese.
Ho voglia di parlargli, sentirmi prendere in giro e di giocare al fratello
minore sfigato, stupendomi della sua inquantificabile saggezza. Adesso però sono io il maggiore
ed Hannah ha bisogno di uno sfogo che sto cercando di conciliare nel miglior modo possibile.
Dopo un po’ è lei a staccarsi e guardarmi sollevando
appena il mento. Sì, sono più alto di lei. Almeno
questo… mi sorride asciugandosi le lacrime e rispondo allo stesso modo,
continuando a tenerla abbracciata.
“Devo essere un disastro…
voglio dire il mascara sciolto e tutto il resto…”, butta lei con una smorfia a
renderla simpatica.
“Beh… non più del normale”,
la prendo in giro guardandola uccidermi con lo sguardo e pizzicarmi dietro la
schiena, in maniera feroce.
“Questa me la paghi”, la minaccio, allontanandomi
istintivamente per via del dolore, vedendola continuare ad asciugarsi le
lacrime con le mani, mentre continuano a cadere, nonostante stia ridendo.
“Non ci penso proprio”, nega lei dirigendosi circospetta
in direzione del divano e cercando un fazzolettino per rimediare al disastro.
È un’immagine che mi fa ridere.
Possibile che le
donne si preoccupino del loro aspetto fisico praticamente
in ogni situazione?!
“Puoi continuare con la mia maglietta”, le dico
avvicinandomi e facendole notare la macchia di bagnato mista a mascara blu e
ombretto sulla stessa tonalità, spiaccicata sul tessuto immacolato della mia
t-shirt.
“Oddio…”, sorride lei. “Non me ne ero
accorta, Lij… davvero. Scusa…”.
“Andiamo Han, basta con le
scuse”, le dico sedendo a mia volta sul divano. “E’ un’offerta da cogliere al
volo. Sai quante ragazze vorrebbero essere al tuo posto?”.
“Oh… tantissime immagino, sex-god”, mi guarda di traverso,
trattenendo un sorriso.
“Esattamente…”, annuisco.
“Diventerà un casino”, nega lei indicando la maglietta di
cotone.
“Lo è già. E poi è vecchissima, sis. Nessun
problema”.
“Se è così allora…”, la vedo annuire
con un luccichio malizioso negli occhi. “Posso anche soffiarmici
il naso, Lij?”, inquisisce giocando all’innocentina.
“Provaci e ti spedisco da Jack e
la sua iguana”, tuono velenoso, mentre sento che mi abbraccia di nuovo,
sorridendo e strofinando il muso contro la mia t-shirt.
“Si chiama, Tricksy”, mi dice
tornando a guardarmi, apparentemente meno angosciata di prima. L’umore si
sta piano piano risollevando.
“We wants it, we
needs it. Must have the Preciousss.
They stole it from us. Sneaky little hobbitses. Wicked, tricksy, false!”, recito automaticamente una
battuta di Andy Serkis/*.
“Esattamente”, annuisce lei. “Abbiamo recitato quella
frase come in preda al delirio in quel negozio”.
“E non vi hanno cacciato fuori a calci?!”,
chiedo mentre l’immagine di lei e Jack in preda all’allucinazione mi si dipinge
come più che plausibile nella testa.
“No, Lij. Ci hanno
riconosciuto. Jack ha la fama di essere un tipo particolare ed io sono la
sorella di un famoso attore, nonché protagonista de Il Signore degli Anelli, quindi sono
autorizzata a ripetere le battute del copione quante volte voglio. Ti ho mai
parlato di lui? Lo chiamiamo Elwood, anche se io
preferisco Monkey,
mi sembra più adatto”, butta lì con la sua faccia di bronzo.
“Ma davvero? Ti ho invece mai
parlato di mia sorella? La chiamiamo Plague oppure Typhoon a seconda il grado di nocività che irradia”.
“Un tipino calmo”.
“Assolutamente. Una specie di monaca”, confermo
con un’alzata di sopracciglio beffarda, facendola sorridere spontaneamente.
“Hey… sembrate divertirvi”,
dice mia madre sbucando all’improvviso e raggiungendoci con
in mano un vassoio con tre coppe colme di macedonia.
“Sì”, annuisce subito
Han, sorridendo e prendendo uno dei recipienti.
“Tu non ne vuoi, Lij?”, mi
chiede allora Debbie porgendomi la mia coppa. Ananas,
fragole e qualcos’altro che al momento non riconosco.
Forse pesca. La vedo corrucciare il viso per una frazione infinitesimale,
quando i suoi occhi cadono sull’esempio di arte
moderna che spicca sul cotone prima immacolato della maglietta.
“Hannah ha sperimentato una
nuova tecnica di pittura su tessuto”, le rispondo con un’occhiata di intesa. La vedo riprendersi al volo e sorridere poi a Han, che nel frattempo ha sollevato il volto dalla propria
merenda.
“Sembra… interessante”, si salva in corner Deb, prendendo a sua volta una coppa e mangiando la sua
macedonia.
Per un po’ stiamo in silenzio, anche se ho l’impressione
che ci stiamo comunque raccontando quello che è
accaduto qualche attimo prima. Empatia
viene chiamata. So per certo che è un qualcosa che
esiste. E non una parola sterile come quelle che ho
sentito nominare innumerevoli volte senza trovarne mai un corrispettivo nella
realtà sensibile.
I sentimenti risultano sempre
più concreti di quello che concreto è per definizione.
Suona come un paradosso, ma ha un suo fondo di verità
scientifica.
“A proposito, Lij…” chiede poi
mia madre. “Questa mattina sono arrivati tre pacchi da Cedar,
con un corriere a domicilio. Il mittente sei tu o sbaglio?”.
“Sì. Li ho spediti io”.
Hannah si irrigidisce
al mio fianco, ma al contempo sento il suo sguardo curioso su di me.
“Non so che dirvi. È qualcosa che ho trovato a… casa”, articolo inghiottendo con
difficoltà. “A me ha fatto piacere e visto che riguarda anche Han, ho pensato che potesse interessarle”.
“Sono per me, Lij?”, chiede mia
sorella mettendosi in piedi e poggiando eccitata la coppa vuota sul tavolino,
che rischia quasi di rotolare a terra.
“Due di loro”, le dico afferrandola al volo, registrando
nel frattempo lo sguardo inorridito di mia madre. Nessun
dubbio, infatti, che si sarebbe sfracellata rovinosamente a terra, sotto
l’indifferenza incredibile di mia sorella in questo momento. “Uno è
mio”, sottolineo.
“D’accordo… mi sembra giusto”, annuisce lei, pregandomi
con lo sguardo di muovere il sedere ed andare a vedere di cosa si tratta.
“Sono piuttosto pesanti, Elijah”,
interviene Deb, trattenendo un sorriso. “Il povero
corriere per poco non rimaneva bloccato da un colpo della strega alla schiena”.
“Lo so. È stato un casino imballarle, ma il corriere
dell’agenzia che ho contattato è venuto a domicilio, così nulla di più
semplice. È stato lui a trasportarle”, spiego con un
sorriso.
“Schiavista”, butta lì Hannah
scuotendo la testa.
“Ha avuto il suo bel compenso. Non l’ho
sfruttato”, puntualizzo.
“Sì, come no. E la sua povera
schiena? Ho sentito di un caso fulminante di colpo della strega in Iowa all’inizio della settimana, vero
mamma?”, continua lei tra lo scettico e l’ironico.
“Non erano due?”, le tiene il gioco l’altra, in un’ideale
alleanza contro il sottoscritto.
“Dai andiamo”, dico alzandomi praticamente
spintonato da Han.
“Sono in salotto Lij. Non ci
hai fatto caso questa mattina”.
In salotto?
Uh… ero più che rincoglionito appena sveglio, a quanto sembra. Avessi incontrato un elefante seduto a tavola
facendo colazione con una tonnellata di noccioline, credo che lo avrei salutato come niente fosse…
Guardo Hannah, mentre traffica
con forbici e taglierini vari per avere la meglio
sull’imballaggio. Sembra la curiosità in persona, ma mi chiedo all’improvviso
se abbia fatto bene a spedire il tutto qui. In fondo è
l’esempio più evidente di un passato che ci vede protagonisti di un conflitto
perenne, ogni volta che torna in superficie.
Le sue esclamazioni di sorpresa invece prendono a
riempire la stanza tra un grido ed un altro. Il volto è raggiante e divertito, nonché stupito man mano che sfilano davanti ai suoi occhi i
quintali di bambole, vestitini e peluche racchiusi nelle due scatole
indirizzate a lei.
“Mamma, guarda… Lij… oddio, non
mi ricordavo proprio di avere questo bambolotto”.
Commenti simili si alternano, facendomi sorridere.
Sembra che la mia sorpresa stia riuscendo in pieno.
Anche Deb appare sorpresa positivamente, osservando i
giochi e i disegni che aveva fatto sulla superficie
cartacea.
“Questa sarei io?”, chiede, infatti, Hannah
indicando la bambinetta che la rappresenta. Mia madre
annuisce, mentre prende a raccontarle i dettagli di quel pomeriggio che io
ricordo benissimo.
Hannah aveva solo tre anni. E’
plausibile che non ricordi nulla invece. Mi tengo un po’ a distanza,
semplicemente sollevato dal fatto che sembrino tutte e due allegre e che
abbiano abbandonato almeno per qualche minuto il clima denso di riferimenti
poco piacevoli che aleggiava in veranda meno di un attimo fa.
Hannah prende a scartare anche il mio
di pacco, ridendo di fronte al ragazzino disegnato a mano e prendendomi in
giro. “Sei proprio tu, Elwood.
Nulla da dire. Occhi giganti…”.
“…sorriso da sdentato…”, aggiunge maliziosamente mia
madre e con la consueta nota di dolcezza. Quel rimarcare ti voglio bene, all’infinito che mi fa sorridere a mia volta,
sorpreso in continuazione da quanto affetto sia capace
di dare Deb. Tantissimo. Sempre. In qualsiasi circostanza.
“Hey, eri già un patito di Star Wars a
cinque anni?!”, commenta Hannah
di fronte agli album di figurine e alla miniatura di Leia.
“Dov’è Luke?”, chiede poi continuando a frugare tra i
miei, sottolineo miei,
giocattoli come fossero suoi.
Il suono del telefonino, mi fa distogliere gli occhi da
quella scena confusionaria e piena di esclamazioni di
sorpresa e prese in giro a mio indirizzo, si capisce. Il cellulare è il mio.
Non ricordavo di non averlo portato nell’altro appartamento, anzi ne avevo proprio dimenticato l’esistenza.
Lo afferro evitando che cada a terra… stupida vibrazione, e mi siedo su un bracciolo del divano, continuando comunque ad
osservare Hannah e Debbie, intente a catalogare le varie Barbie che sono riemerse dal
passato. Non so chi delle due sia più entusiasta.
“Sì?”, rispondo alla chiamata.
“Elijah”, risponde la voce
allegra della mia agente.
“Coleen, ciao”.
“Tornato a casa?”.
“Ieri sera”.
“Com’è andata la vacanza?”.
“Diciamo… uh… che ce ne sono state di migliori…”.
“Speravo di trovarti un po’ meglio”.
“Sto bene, solo qualche pensiero che mi sta distruggendo
il cervello”.
“Non devi parlarmene, Lij. Sono
certo non ne abbia nessuna voglia”. È l’intuito unito
al tatto che ammiro particolarmente in lei. Ne fa uso in continuazione e, anche
questa volta, non si smentisce.
“Grazie, Lee. In effetti, se posso archiviarlo quanto prima è meglio”.
“Parliamo di… impregni improrogabili allora…”, ride
mettendomi a mio agio.
“Sì… cosa bolle in pentola?”.
E così la sento spiegarmi praticamente
il programma dei miei prossimi quindici giorni. Continuo a sorridere
dell’immagine ludica di Han e Debbie
affascinate da quei cimeli, mentre con la testa registro gli elementi focali
del suo resoconto.
Dunque…
Tribeca
Festival.
Seconda proiezione di Hooligans dopo la prima al SXSW.
Si ritorna al lavoro…
“D’accordo, Lee. Ci vediamo in
aeroporto allora”.
“Perfetto Lij. Ci incontriamo al solito cafè.
Buona serata”.
Chiudo la comunicazione e dopo vari tentativi riesco a far distogliere l’attenzione di Hannah
dai suoi giochi, senza risparmiami di prenderla in giro e le chiedo se le va di
uscire a fare la spesa. Mi dice di sì, chiedendomi cinque secondi per il
trucco, come negarglielo, mentre io
torno a casa per cambiarmi la maglietta e prendere le chiavi della Mini.
Inutile dire che mi fa aspettare
dieci minuti e la vedo correre trafelata, inseguita da Rascal
e Levonne, per poi saltare in macchina e mettere del
lucidalabbra utilizzando lo specchietto del sedile passeggero. Facendo finta di
ignorare questa sua mania, faccio retromarcia e apro il cancello.
Automaticamente metto su un CD. Stiamo un po’ in
silenzio, nessuno dei due ha voglia di parlare ora che l’eccitazione per i
giocattoli è passata e i ricordi tornano ad essere i macigni che sono sempre.
Vorrei dirle che forse non siamo stati dimenticati e
che non lo saremo mai. Del resto quei giocattoli ne sono
la testimonianza, no? Io so anche del canestro e del televisore… ma non riesco
a convincere me stesso. Figurarsi se ci riuscirei con Hannah…
La strada sfila veloce davanti agli occhi e le luci della
sera brillano in quantità indefinita. Los Angeles e i suoi boulevard sono famosi anche per questo.
Da Mellon Collie and The Infinite Sadness,
sfilano delle canzoni bellissime che sono state colonna sonora della mia vita a
lungo e che sembrano esserlo ancora .
The useless
drag of another day/ The endless drags of a death rock boy/ Mascara sure and
lipstick lost/Glitter burned by restless thoughts Of being forgotten/ And in
your sad machines/You’ll forever stay/Desperate and displeased - with whoever
you are/And you’re a star/Somewhere - he pulls his hair down - over a frowning
smile/A hidden diamond you cannot find/A secret star that cannot shine over to
you
May the king of gloom be forever doomed/And in your sad machines/You’ll forever
stay/Burning up in speed/Lost inside your dreams, of teen machines/The useless
drags, the empty days/The lonely towers of long mistakes/To forgotten faces and
faded loves/Sitting still was never enough/And if you’re giving in, you’re
giving up/’cause in your sad machines/You’ll forever stay/Burning up in
speed/Lost inside the dreams of teen machines
Una canzone che ci fa riflettere, ancora in silenzio,
concentrati entrambi su quel pensiero logorante.
Ci vorrà del tempo primo di tornare ad accantonarlo e
pensare di nuovo con indifferenza a quanto ci ha fatto cedere entrambi, senza
che potessimo opporci.
Svolto in direzione di Santa Monica e parcheggio di
fronte al solito 7-11/**.
James mi saluta con
l’abituale calore: “Lij, man. What’s up?” e rimango a fare
due chiacchiere con lui nei pressi della cassa, mentre Han
gira per i vari reparti riempiendo uno di quei cestini che si trovano
normalmente nei supermercati. La raggiungo dopo qualche minuto, trovandola
indecisa di fronte lo stand con i biscotti per la
colazione. Quasi sgomento vedo che il cesto è
pressoché vuoto. Hannah ama comprare cianfrusaglie,
il fatto che abbia solo preso del succo di frutta e degli yogurt fino ad ora,
mi suggerisce il fatto che nonostante abbia gradito la
sorpresa dei pacchi, l’umore più privato non è cambiato per nulla da quando
eravamo in veranda.
Trattengo a stento un sospiro di frustrazione e provvedo a
comprare le cose di primissima necessità. Del resto ripartirò tra tre giorni, non ha senso riempire la dispensa per
lasciare le cose lì ad ammuffire. Chiedo ad Han se vuole qualcosa in particolare, ma nega con la testa,
rimanendo silenziosa. Anche James
la squadra, sorpreso di vederla così taciturna, mentre imbusta i viveri.
Con un’occhiata eloquente gli faccio intendere che è un po’ giù e lui annuisce
con sorriso di comprensione ed un’occhiata preoccupata in direzione di mia
sorella.
Non so cosa provi Jamie per
lei, ma spesse volte mi sono trovato a pensare che Hannah
gli piaccia, sebbene non si sia mai fatto avanti o almeno che io sappia. La
conosce di riflesso, nel senso che è mia sorella e mi accompagna spesso in
giro, e non so cosa ne pensi lei di lui onestamente.
“Ci vediamo allora, J”, lo saluto prendendo in mano una
delle buste.
“Ciao Lij. Vado al cinema
questa sera. Ti dirò poi che ne penso di Sin
City”.
“Vedi di non stroncarmi…”.
“Questo non dipende da me, ma da come hai recitato”, mi
prende in giro ed ottenendo come risultato un sorriso
disteso da parte di Han che mi guarda allo stesso
modo, ironica.
“Andiamo, sis”, la invito prima che possa iniziare a criticarmi. Odio
vedere i miei film con i miei familiari.
Non c’è nulla di più imbarazzante. Un’esperienza allucinante, lo giuro. I loro
commenti quando vogliono divertirsi a farmi a pezzi
sono più che acidi, per quella legge alla quale mi riferivo prima ed in base alla quale è meglio che ti stronchino prima in
famiglia che altrove. Almeno sei preparato.
“Ciao James”.
“Ciao Han”.
Abbiamo preso a camminare lentamente una volta
all’esterno.
“Ciao James… Ciao Han…”,
imito cinguettando, con un’espressione sognante nello sguardo, facendo
voltare mia sorella. Quello che è sconvolgente è che anziché darmi del coglione, arrossisce, poco ma
arrossisce, ed è solo per via dell’illuminazione artificiale dei lampioni che
le guance appaiono appena rosate. Mi ritrovo allora un po’ senza parole. Non mi
va più di prenderla in giro adesso. Insomma la giornata è stata abbastanza di merda e non è dell’umore adatto per rispondermi a tono.
Difatti non so se per il disagio o semplicemente l’umore
sotto i tacchi con il quale è entrata nel 7-11, è tornata ad abbassare lo sguardo sul marciapiede,
rimanendo praticamente muta.
“Un gelato, Han?”, mormoro
allora a bassa voce, come se temessi di disturbarla. L’aria non è caldissima,
ma un gelato in teoria non si rifiuta mai.
“Sì…”, annuisce tornando a guardarmi, uno sguardo un po’
confuso e forse colpevole negli occhi. Non so quanto c’entri Jamie in questo, ma quello che so è che non ce l’ho con lei per non avermi detto niente. Insomma non è
che debba sentirsi obbligata a raccontarmi vita , morte
e miracoli. La privacy è privacy. Le sorrido
incoraggiante, facendole capire che è tutto a posto, che non me la sono presa,
ed entriamo al Creamyland.
La vedo avvicinarsi al bancone che mostra una quantità infinita di gusti e
aspetto che ordini, riflettendo sul fatto che forse se mi trovassi io nella sua
situazione, se cioè fossi interessato a qualcuna e non
gliene avessi parlato un po’ colpevole mi sentirei, visto il livello di
confidenza che abbiamo. Ma non posso sindacare sulle
sue emozioni private o sulle sue scelte in quel senso. Io non vorrei che
nessuno lo facesse a sua volta con me.
Dopo qualche attimo, la vedo voltarsi con una coppa media
in mano, con tanto di panna e cialda biscottata per decorazione e, pagato il
conto, usciamo di nuovo in strada. Non so perché non
ci siamo rimessi subito in macchina dopo essere usciti dal 7-11. Forse avevamo voglia di stare un po’ all’aperto. Come se l’ambiente chiuso della Mini e Mellon Collie ci avessero un po’ soffocati.
Hannah è ancora silenziosa, ma vedo che
sta mangiando coscienziosamente il suo gelato. “Ne vuoi, Lijah?”,
mi chiede dopo un po’ indicandomi la coppetta. In altre occasioni l’avrei
punzecchiata, dicendole che di solito una cosa si
offre prima di averla finita per metà, ma adesso mi limito solo a scuotere il
capo negativamente, sorridendole con dolcezza.
Mi fa male vederla così giù, quale che sia
il motivo adesso. Ne scruto la figuretta magra e ben
disegnata, coperta da un paio di pantaloni blu a vita bassa, una maglietta di
cotone amaranto e poi un giubbotto di jeans, avvitato e solo parzialmente
abbottonato. È carina e mi fa stranamente tenerezza.
“Che c’è?”, la sento chiudermi
all’improvviso, mentre si volta a guardarmi, un’espressione curiosa e
interrogativa sul volto. “Ho del gelato in faccia?”, inquisisce gettando in un
cestino la coppetta vuota e strofinandosi un dito con la mano, come a togliere
una qualche goccia di gelato.
“No…”, nego trattenendo un sorriso. “E’ tutto a posto, Han”, la rassicuro, passandole un braccio intorno alle
spalle e stringendola appena. Lei fa lo stesso allora, facendomi
scivolare un braccio dietro la schiena e appoggiandomi la testa contro la
spalla. Le sfugge un sospiro, ma più che di
frustrazione sembra di sollievo, come se dimostrasse di aver trovato un qualche
conforto. Le stringo allora ancora una volta le spalle, un po’ meno oppresso a
mia volta, e continuiamo a dirigerci verso l’auto.
Il boulevard
davanti a noi, illuminato da luci al neon e Los Angeles che si prepara ad
un’altra nottata delle sue, sullo sfondo.
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/* Anche se è superfluo puntualizzarlo è l’attore che ha dato vita a Gollum /Sméagol
/** Minisupermarket che vendono un po’ tutto, anche
giornali, dvd, sigarette, si occupano di servizi di
sviluppo foto, etc. Aperti sette giorni su sette, undici ore al
giorno. Da lì appunto il nome Seven-Eleven