- Lies -
Trovo amaramente ironico il modo in
cui infine mi sia ritrovato a sedere su questo trono. È sicuramente più ampio
di quanto non sembrasse. La sua superficie è liscia e brillante come il marmo e
ciò aumenta l’aura di solennità che circonda non solo il seggio ma tutta la
sala.
Non penso che abbia più senso
parlare di abitudine ormai, visto che ogni cosa che ritenevo abituale si è
dissolta nella scoperta di una verità tormentosa quanto meschinamente celata.
Non penso potrò abituarmi al trono; perché, in fondo, non c’è niente su cui
fare pratica. Devo solo comportarmi come ho sempre immaginato nella mia mente,
dire quello che avrei sempre voluto proferire piuttosto che ingoiare, applicare
la mia forma mentis a questo nostro governo. Se per questo, di allenamento ne
ho fatto anche troppo: ogni domanda che nostro padre formulava, ogni prova a
cui ci sottoponeva, ogni strategia che disponeva di esaminare. Al contrario di
quell’idiota di Thor, io sono cresciuto nella consapevolezza che avrei dovuto
essere pronto a qualunque evenienza e a un ruolo di cui ero disposto ad
accettare la sfida, seppur cosciente che probabilmente non mi sarebbe mai stato
assegnato. Non come il caro figlio di Odino, favorito dalla sorte, che non ha
mai dovuto predisporsi a niente perché niente avrebbe dovuto aspettarsi: lui
sarebbe diventato re. Non ha mai conosciuto la condanna della sorpresa o del
dubbio. Sono certo che lo avesse sempre saputo. Appurato questo attraverso
un’abietta collusione con mio padre, non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla.
Thor, il figlio di Odino. Thor, il più amato da Odino. Thor, il favorito di
Odino. Thor, il potente guerriero.
E poi io, il reietto; una sorta di
secondo figlio mancato. Un vile ripiego attraverso il quale lasciar prosperare
una pace fondata sul furto e la menzogna. Una pace che gronda sangue e odora di
tradimento. Non mi stupisco di come siano andate in seguito le cose. Anzi,
tutto assume adesso un senso cristallino. Pensando a tutti i tormenti che ho
trascorso nella speranza indefessa che un giorno lontano, magari, sarei
riuscito a mostrare anche il mio di valore -seppur ben diverso da quello di mio
fratello- mi si riversa addosso una sensazione di vergogna indistruttibile. Ho
mortificato per anni me stesso e la mia dignità rincorrendo un’eventualità che
tutti dicevano fosse tracciata per me con inchiostro reale, quando tutti
sapevano bene che di quel percorso non era stato schizzato nemmeno l’abbozzo. La
mia condotta sarà stata derisa alle mie spalle e pareggiata a quella di un
buffone di corte, devo quindi dedurre. Chissà quante risa avrà suscitato nelle
personalità reali la mia misera e inconsapevole condizione. Come un cane che
tenta di mordersi la coda o una testuggine supina che tenta di rivoltare il
proprio guscio, così io –ignaro- agognavo ad un trono che non era neanche stato
preparato; meglio, nemmeno pensato.
Mi rendo ben conto che continuare ad
indugiare su simili pensieri sarebbe pleonastico, ma trovo assai più difficile aggrapparmi
al conforto della distrazione. Non ha alcuna importanza quante persone
sapessero, se solo una o tutte quante, quel che è certo è che adesso riserverò
ad ognuno lo stesso sguardo ferito e indignato, così lontano da ogni
immaginabile comprensione di un tale segreto indigesto.
Lo scettro è nelle mie mani, e per
ora questo mi basta. Madre giace accanto al padre degli dei caduto nel sonno di
Odino, nella sua stanza. I miei sentimenti al riguardo sono piuttosto confusi.
Sono stato colpito da una concatenazione di eventi dalla quale mi è ancora
difficile scuotermi. So che mio padre non è morto, eppure chi può dire che sia
vivo? La sua esistenza è stata avvolta in una dolce catalessi di fronte a cui
nessuno sembra sapere come reagire. Penso che sia stato un male almeno quanto
un bene. Avrei voluto porre a mio padre diversi altri interrogativi, chiedere
dettagli e spiegazioni che come una valanga avevano devastato i miei pensieri e
sradicato ogni mia timida certezza. E questo è un male, sicuramente.
Perché sia anche un bene? Ho
riflettuto, e a lungo. Per quanto sconvolto, il raziocinio è sempre stato la
mia unica arma e difesa. Ho elaborato una trama precisa, severa e impietosa.
Thor è bandito senza alcuna possibilità di ritorno al momento, Odino è caduto
in un inaspettato oblio senza certezza di prossimo risveglio. Io sono
conseguentemente divenuto il nuovo re di Asgard, legittimo erede al trono in
assenza del favorito quanto indegno primogenito. Come spesso mi è stato detto,
forse non tutti i mali vengono per nuocere. Con la giusta calma e motivazione,
potrei inaspettatamente riuscire a volgere questa condizione a mio favore.
Permanentemente. Sto già mettendo insieme i pezzi.
Ed è proprio in questa pacifica
riflessione con me stesso che giunge un momento di sublime sorpresa. In realtà,
non è del tutto esatto: mi aspettavo la venuta dei cagnacci odiosamente fedeli
di mio fratello. Il loro paragone con bestie asservite e maleodoranti non
cesserà mai di compiacermi. Cerco di trattenere un riso di disprezzo quando
assaporo il loro dolce stupore; è come nettare di ambrosia per le mie membra
spossate dalla stanchezza. È una piccola quanto succulenta rivincita. Godo
enormemente nel contemplare il loro palese imbarazzo. Ne vorrei di più. Fino a
scoppiare. Ma preferisco tendere loro la mano per farli sentire a loro agio.
Nelle mie attuali condizioni posso persino permettermi di chiamarli “amici”. È
così elettrizzante la reciproca consapevolezza di quell’insulto. Ma questa
pittoresca banda di scagnozzi petulanti sembra voler giungere al punto più
velocemente di quanto io stesso non voglia. Non temete, vi accontenterò.
Vi narro dunque con mesta
compostezza delle condizioni del padre Odino e della decisione della regina.
Cos’è? Adesso pensate di non potervi rivolgere più a nessuno forse? Deve essere
frustrante sentirsi confusi e abbandonati, vero? Non immaginate nemmeno quanto.
Sembrate cominciare ad essere colti
da affanno, amici miei, cosa vi succede? Non vi piace il vostro nuovo re forse?
Ne deduco che non siate ancora pronti ad accogliermi come vostro pari; eppure
sapete che sono il figlio di Odino e che come tale ho tutto il diritto di
sedere su questo trono in assenza sua e di mio fratello Thor. Cosa mai, dunque,
vi turba fino a questo livello? La mia persona? Il mio essere che detestate
così visceralmente? La vostra futile ostinazione è pari solo alla vostra
stupidità. Il vostro sprezzo comincia adesso a nausearmi, facendomi provare un
insaziabile desiderio di rivalsa. Vorrei mettervi a tacere con un facile atto
di forza, ma so bene che non favorirebbe i piani che sto elaborando e, in
aggiunta, non confarebbe all’indole diplomatica che conservo gelosamente. Mi
limito quindi a sospirare in una lunga pausa, dicendomi che è il momento di
lasciare a voi ottusi la possibilità di aprire gli occhi e comprendere –per
quanto vi sia difficile- con chi state parlando in questo momento. Premo con
calma risoluta il palmo della mia mano sul freddo marmo del trono e mi sollevo
lentamente, fin troppo: dovete gustare attentamente ogni istante della vostra
umiliazione, ogni secondo grazie al quale comprenderete di essere voi, oggi per
la prima volta, al di sotto della mia persona. Scandisco senza riserve quelle
tre parole che sanciscono il mio ruolo e la mia autorità nella grande sala. Io:
il vostro re.
Scordatevi Loki, dimenticate le
beffe e gli affronti che tanto vi divertivate a scagliarmi con un disprezzo
stemperato solo da pungente sarcasmo; abbandonate ogni illusoria idea che
possiate ancora una volta sovrastarmi, voi inutili e pietosi parassiti di cuori
teneri e ingenui. Io ho lo scettro. Io ho il trono. Io ho il potere. Un solo
gesto di insulto e potrei non controllare il mio desiderio di vendetta
accecante. L’eco dello scettro che colpisce il pavimento in un gesto di
rispetto incondizionato è maggiore di quel che mi aspettassi. Forse perché per
la prima volta le vostre bocche si ritrovano asciutte e rinsecchite
nell’impossibilità di scagliare altre frecce velenose verso di me. Immagino
debba essere una strana sensazione. Bé, sappiate che lo è anche per me.
Oh, e l’esitazione che mostrate nel
compiere il vostro inchino doveroso è ancora più appagante. Chi l’avrebbe mai
detto che voi inetti, Fandral, Hogun, Volstagg e persino tu, feroce guerriera Sif, vi sareste mai potuti inchinare
a me? Questo deve essere senz’altro uno dei giorni che né io né voi
dimenticheremo tanto facilmente. Inchinatevi, adesso. Inchinatevi, forza.
Andate giù, ancora più giù. Nel fango delle vostre debolezze e delle vostre
colpe. Cospargetevi di un’umiltà che non avete mai conosciuto. Che gentili
siete, usate anche degli appellativi di tutto rispetto. Devo ammettere che in
questo momento siete quasi degni della mia sottostima.
Peccato però, un’insignificante
parte di me pensava quasi di potersi aggrappare alla remota possibilità che la
vostra richiesta potesse essere un poco più intelligente. Non fa niente, vi
perdono. Non bisogna accanirsi con chi è meno fortunato nell’intelletto, dico
bene? Ancora una volta, non mi avete deluso. Comincia quasi a piacermi questo
nostro rapporto di reciproca e fondata prevedibilità. Thor, Thor, Thor, come
sempre, come al solito, fino alla nausea. Ero già pronto ad affrontare questa
vostra infantile lagnanza. Perdonate, ma non posso trattenere un sorriso di
indulgenza. La vostra devozione e affezione mi sciolgono il cuore, davvero. In
compenso, non ho alcuna fretta. Scendo alcuni gradini con una serenità che
nemmeno pensavo di poter ostentare. Mi sento sicuro in quel luogo sopraelevato,
con lo scettro saldo nella mano a difendere il mio ruolo che volente o nolente
mi è stato assegnato. Niente potrebbe procurarmi maggiore piacere del sapere
che, qualunque carica di rabbia e disprezzo monti in voi, non potrete comunque
toccarmi né ingiuriarmi. Perché sono il re. Io sono il vostro re. Non potete
nuocermi.
Le mie parole sono avvolte dalla
dolcezza dell’irremovibilità. È fin troppo facile. Chi l’avrebbe mai detto che
mi sarei trovato tanto a mio agio in un compito del genere? È come se fossi
nato per questo, al di là dei progetti che mi avevano riservato. Non ci vuole
molto a giustificare politicamente la mia decisione: l’imminenza della guerra
con Jotunheim, la devozione verso un padre ancora vivo al cui ultimo ordine non
posso contrapporre il mio, il bene di Asgard. È così semplice che non mi sembra
vero: le parole mi escono dalle labbra come acqua da una sorgente; sono
inarrestabili nella loro ineluttabilità. È la vittoria della mente, della
lingua e della diplomazia contro l’imbecillità, l’irrazionalità e la brutalità
di mio fratello. Sono vittorioso nella sconfitta. Sto recuperando parte di quel
che mi è stato tolto. Sto risorgendo, lentamente.
Eppure questa mia segreta rinascita
sembra non rallegrarvi. Lo capisco. Dei cani non possono certo comprendere il nobile
dolore di una fenice che risorge dalle ceneri. Sif, in particolare: sembri
piuttosto contrariata. La mia decisione ti ha forse resa scontenta? Meno male
che c’è Fandral, sicuramente più prudente di te nell’ostentare tanto astio di
fronte al proprio re, ti piaccia o meno. Basta così. Sta diventando un teatrino
insopportabile. Questa conversazione è riuscita a stancare persino me. La
vostra sola presenza mi sottrae il vigore necessario per attendere ai miei
obblighi.
A voi però sembra non bastare mai, a
quanto vedo. Il caro Volstagg ha ancora qualcosa da dire, evidentemente, e
sembra anche divertirsi ad insinuare dell’ironia nel proprio tono. Tutto ciò è
insopportabile; direi che mi sono divertito abbastanza ormai. Liquido qualunque
richiesta con una sentenza secca e precisa. La mia parola è legge adesso. Liberatemi
dalla vostra molesta presenza. Andate a piangere il vostro compagno altrove,
lontano da me. Un giorno capirete che dovreste essermi grati per questo: vi ho
liberato dall’asservimento.
Non potrei udire al momento suono
più rinfrancante dei vostri passi che si allontanano dalla sala. È come tornare
a respirare aria fresca. La solitudine mi offre il tempo di pensare, elaborare,
programmare. In ultimo, anche di ricordare. È stato solo poche ore fa che la
mia vita è stata lacerata in tanti esili frammenti e già mi sembra di aver
attraversato un inferno di parecchi giorni di cammino. Ho assoluto bisogno di
vedere una persona adesso. La mia sete di risposte è implacabile; il mio
bisogno di conforto, insostenibile.
Osservare mia madre attraverso gli
occhi della mia nuova identità mi spinge ad un esperimento: mi sforzo di
scorgere ogni dettaglio corporeo, fino a quel momento inesplorato, che possa
confermare l’assenza di qualunque somiglianza biologica tra di noi. Il suo
viso, i suoi occhi, i suoi capelli, le sue mani. Tento di aggrapparmi a
qualunque suggerimento visivo solo per potermi rimproverare, dentro di me:
“come hai potuto non accorgertene prima?”
Ma è un esercizio futile e immaturo
e pertanto decido di concluderlo. La tua mano, madre, non abbandona quella del
padre degli dei. Sono sicuro che in qualche modo riesca a sentire la tua
vicinanza. Una tale devozione dovrebbe a buon diritto essere in grado di
oltrepassare i confini dei sensi. I muscoli del mio viso, nonostante
l’esaurimento logorante delle ultime ore, non riescono a distendersi. Credo che
la visione di un padre sul capezzale sia sempre un carico piuttosto gravoso da
portare; anche per un figlio adottato. Ma nonostante tutto, non posso
trattenere le mie parole più a lungo. Devo sapere. Devo ascoltare. Lo chiedo
anche a te madre, perché? Perché avete scelto di dissetarmi, per tutti questi
anni, alla fonte della menzogna? In quel momento riesco a leggere il mio
sguardo: deve essere certo affaticato e scorato. Percepisco la forma che ogni
muscolo del mio viso fa assumere alla mia espressione facciale. Non riesco a
simulare altro se non la verità. Devo suscitarti davvero molta pena, madre mia,
per spingerti a osservarmi con quegli occhi che sembrano volermi carezzare con
lo sguardo. Sono così dolci le tue parole unite a quelle pupille profonde che
mi tengono al sicuro. Non avrei altre madri alle quali chiedere asilo. Ho
conosciuto solo te.
La tua risposta è piuttosto
prevedibile, lo ammetto, ma riesce comunque a mettere da parte per alcuni brevi
istanti qualche grammo del mio patimento ininterrotto. Mai come ora, di fronte
a te, mi sono sentito minuscolo e sguarnito di qualunque protezione. Una parte
di me sa che sono amato; dovrebbe infondermi fiducia, e invece non mi è di
alcun conforto. Non riesco più a riconoscere l’apprezzabilità di nulla. Tutto è
insignificante quanto perduto. Niente vale più la pena di niente.
Trovo beffardo il destino che ha
guidato le vostre azioni ben poco lungimiranti, questo concedimelo. Faccio
fatica a sentirmi dire che quella bugia è stata frutto di amore e del desiderio
di proteggermi. Da chi e da cosa non riesco ancora a capire. Se l’obiettivo era
davvero allontanare ogni possibilità di farmi sentire diverso, posso ben
assicurare che l’effetto è stato raggiunto ugualmente. Il copione della vostra
opera è stato stravolto senza che neanche ve ne foste mai accorti; nemmeno
rendendomi pari nel nome siete riusciti ad assicurarmi una uguale dignità. Lo
scherno, il dispregio, il ridicolo e l’offesa: niente mi è stato risparmiato da
quelli che vorreste che io chiamassi “amici”. Per non parlare poi dei
“fratelli”. Mi sono nutrito per l’intera esistenza di un’unica portata, seduto
alla tavola degli emarginati: l’astio. Un odio livido e viscerale, di giorno in
giorno crescente, sempre più rivoltante nelle forme spaventose che a poco a
poco assumeva. Quando mi sono reso conto di quanto fosse cresciuto e diventato
ormai venefico, non ero più nelle condizioni di poterne fare a meno. Certo, una
parte di me continuava scioccamente a sperare che sarebbe giunto, forse, il
giorno in cui qualcuno o qualcosa mi avesse concesso l’opportunità di assestare
a quella massa d’odio un colpo, di scansarla, di dimostrare che non era
necessario conservare quel male dentro di me. Un giorno, mi illudevo, qualcuno
mi avrebbe reso partecipe di un sentimento di stima che mi avrebbe reso
finalmente uno dei pari, fra i tanti. Dunque attesi. A lungo. A dire il vero,
ho atteso fino a questo giorno funesto.
E invece nulla mi ha mai, neanche
per un istante, distolto dal mio desiderio di vendetta; niente è capitato che
mi abbia fatto desistere dal gridare con rabbia al nostro regno che anch’io,
figlio di Odino, meritavo un’attenzione troppo a lungo e troppo profondamente
sotterrata.
E quindi eccomi qui madre, davanti
ai tuoi occhi ignari. Neanche ti sfiora l’idea che possa essere stato proprio
io a far entrare i Giganti ad Asgard. E nemmeno penseresti che mai come oggi sono
giunto a odiare tutto ciò che credevo mi appartenesse e mi fosse caro. Torno a
domandarmi, pertanto, quale fosse la vostra idea di “proteggermi” quando avete
stipulato quel patto di silenzio che mi è valso solo a rimandare e amplificare
una sofferenza che evidentemente mi appartiene ineluttabile. Forse non sarebbe
cambiato niente se fossi cresciuto nella verità già cosciente di essere quel
che realmente sono; o forse sarebbe cambiato tutto. Non posso dirlo. Tuttavia,
mi sembra chiaro che in entrambi i casi il vostro amato e prediletto sarebbe
sempre stato uno: non io. Per quanto mio padre dicesse di amarmi, per quanto il
tuo sguardo, madre, mi suggerisce la più incrollabile delle adorazioni materne,
io verrò sempre dopo di lui. Thor. Un fratello che non lo è mai stato. Un
affetto che dunque non mi è mai davvero appartenuto. Ormai non credo che né lui né altri
sapessero, eppure…non è di conforto neanche questo.
Tanto più che mentre io desidero
morte, distruzione e perenne allontanamento di colui il quale è stato –e ancora
è- una nemesi oscura e tormentosa, tu tenti di infondermi speranza. Un afflato
di redenzione che non può che disgustarmi: speranza. Per Thor? Non ha forse
fatto già abbastanza, invece? Non è forse stato causa di già sufficienti e
dolorose disgrazie per il nostro regno? Lo sdegno mi raggiunge così fulmineo
che non ho neanche la forza di occultarlo nello sguardo. Sempre un passo
indietro. Sempre una rincorsa. Sempre la tua schiena dovrai mostrarmi, fratello
odiato almeno quanto amato. Nemmeno in seguito ad un simile affronto che ti è
costato l’esilio sembri ancora sprofondare. Sembra che ci sarà sempre una mano
tesa, pronta ad afferrarti e a perdonarti ogni torto. Perché sei così
fortunato? Perché sei così beneamato? Perché ti sento così distante, al punto
da smarrire la tua figura alla vista? La mia condanna è dunque restare l’ombra
appassita del tuo retaggio? A questo mi hanno confinato?
In un istante, decido che mai più
avrei voluto sentire quella parola. Quelle tre sillabe mi infiammano ogni
cellula del corpo, accendendo una miccia di repulsione velenosa
incontrollabile. Speranza. Speranza. Speranza. Io che ho sperato per anni. Io
che ho pregato ogni padre e ogni divinità a noi più cara per una sola occasione.
Una sola possibilità. Una soltanto.
Mi avrebbe salvato. Lo so per certo.
Mi avrebbe cancellato, o almeno temperato, questo odio putrido e famelico che
cresce come un parassita. Avrebbe gettato luce dove ora ci sono solo le tenebre
di un’oscurità già precedente. Al buio si è aggiunto buio. Ogni giorno. E
quella possibilità, l’unica che mi teneva ancora in vita la speranza, non è mai
giunta. Mai la redenzione ha anche solo osato sfiorarmi. Mai una volta.
Cosa ti fa credere adesso, fratello,
che tu possa meritartela con tanta facilità? Chi sei, tu, per avere una seconda
opportunità quando mai tu ne hai date? A me. Mai mi hai dato una sola occasione
per rendermi degno di camminare al tuo fianco come tuo eguale. Mai hai messo a
tacere le malelingue dei tuoi amici che infierivano come fruste sulla mia schiena
nuda e vulnerabile. Hai sempre saputo cosa pensavano, li hai sentiti
addirittura, eppure mai hai osato difendermi né dissuaderli. Chi sei tu per
meritare tanta benevolenza, ora? Come io non ne ho avuta, così non ne avrai tu.
È una promessa, fratello. Le parole di nostra madre, per quanto spiacevoli e
difficili, mi hanno condotto sulla strada giusta: sto elaborando una prima risposta
a questo sconvolgimento esistenziale. Per la prima volta da quando la verità mi
ha accoltellato con violenza, sento di reagire. I miei pensieri scalciano per
la vivacità con la quale si rinnovano. Sto scartando, rimescolando e riunendo
tutti quei pezzi del puzzle che mi erano stati lanciati come frecce. La mia
visione si va definendo. È cristallina adesso. Mentre prima posava su di un
vetro opaco e macchiato da scompiglio e turbamento, ora risorge sovra un
diadema:
Io sono Loki.
Non sono il figlio di Odino; non lo
sono mai stato. Non appartengo a questo regno come non appartengo alla sua
gente. Non riconosco affetti che mi leghino a questo mondo. Tutto quel che
conoscevo è scomparso alla luce accecante della verità, mentre ogni
congiunzione affettiva è stata recisa come un cordone ombelicale. Non sono
dunque il figlio di Odino. Non è dunque questa la mia casa, seppur presunta
tale per anni.
E non sono nemmeno il figlio di
Laufey. Per quanto il sangue e la genetica non mentano, Laufey non è mio padre.
Non lo è mai stato. E non lo è mai stato perché mi ha abbandonato come un fetido
rifiuto. Non devo averlo soddisfatto, si vede. Nessuno chiamerebbe un simile
individuo “padre”. Non è mai stato mio padre perché non l’ho mai creduto tale.
Pertanto, la validità biologica cade nella sua certezza. Non esistono legami né
affetti che mi trattengono al regno dei ghiacci. Jotunheim sarà per me solo un
mondo oscuro e gelido nel quale conducono le loro insignificanti esistenze dei
mostri volgari, pronti all’odio e alla prepotenza. Così sono stato cresciuto.
Questo mi è stato insegnato. Non c’è luogo né essere che io laggiù possa
chiamare “casa”.
Pertanto, sono giunto alla
conclusione: io sono Loki.
Io sono Loki, e nient’altro. Non
possiedo generalità né appellativi né epiteti. Non sono figlio di nessuno. Non
sono abitante di nessun regno. Non ho fratelli, né sorelle, né amici. L’unica
cosa che mi resta, è la vendetta. Un’ultima possibilità per guadagnarmi a denti
stretti l’occasione che ho tanto aspettato ma che ormai, ho imparato, sarà
meglio costruirmi da solo con le mie mani.
Sono soltanto Loki.
Questo è il dono che chi credevo mio
padre e mia madre mi ha fatto: l’oblio. Infliggo alla mia vecchia identità una
damnatio memoriae nella prospettiva che ciò mi restituisca la libertà
spirituale utile al compimento del mio intento. Ormai è tutto pronto.
D’altronde, chi non ha nulla da perdere può essere pronto al rischio di perdere
ogni cosa. L’abbandono di chi sono stato è più dolce di quanto mi aspettassi. È
come librarsi nello stesso spaziotempo ma con rinnovato sguardo. Ogni cosa
appare diversa e nuova, come se non fossi mai cresciuto tra queste mura. È la
mia occasione. L’unica che ho sempre aspettato e che mai è arrivata. È l’unica
possibilità che sono in grado di plasmare per il mio bene. Per la mia salvezza.
La speranza è morta. Adesso mi aggrappo solo al diritto della rivincita. Essa è
così calda dentro di me; e sarà consumata. A breve.
Così come la speranza è morta per
me, fratello detestato, così lo sarà pure per te. Ti dono questo, Thor: la
parità che mi hai sempre negato. Per la prima volta nelle nostre vite,
assaporerai il gusto della competizione. Sarai come me. E io sarò come te.
Saremo morti nelle aspettative e arresi nel destino. Saremo insieme per
l’ultima volta come non siamo mai stati. Ti mostrerò ciò che di me hai sempre
respinto. Vedrai, sarà il più bel dono che possa mai farti. Uguali nel trapasso
a una nuova vita e a una nuova forma. Nessuno spettacolo varrà mai tanto.
Ma mentre io morrò e risorgerò
ancora una volta, come ormai ho imparato a fare, per te non vi sarà ritorno. Tu
che non hai mai affrontato la sconfitta né la caduta, giacerai per sempre in
quelle tenebre alle quali mi hai costretto, inconsapevolmente complice della
tua stessa vanità. Mi osserverai crisalide; ammirerai il mio guscio schiudersi
per un’altra volta ancora. E infine, mi guarderai volare via come
un’imperatrice del cielo. Nient’altro ammireranno i tuoi occhi di più bello se
non il mio primo, unico, ma infinito trionfo. Una fenice infuocata che arderà
il tuo corpo fino alle ceneri. Ti destinerò al più dolce e prolungato dei
sonni. Ti distruggerò con l’amore che ti devo. Non te ne risparmierò una sola libbra.
E per l’ultima volta, mentre osserverò i tuoi occhi chiudersi, ti chiamerò “fratello”.
È il primo passo del mio disegno.
Nel compierlo mi sento emozionato come un bambino a ricevere un dono. Queste
saranno le fondamenta del mio successo. Il primo tassello a cui seguiranno tutti
gli altri, fino a che la mia catarsi non sarà completa e mi renderà ciò che mi
spetta. È curioso questo mondo di Midgar; ricolmo di creature incapaci di
suscitare in me il benché minimo interesse. Detestabili, oserei dire.
Ma non è questo il punto. Non è
questo il motivo per cui sono qui. Giungo ora a te, fratello, per portarti il
primo frammento del mio nuovo costrutto. Sei la mia prima e inconsapevole
pedina. Che gioia rivedere il tuo viso, colmo di stupore. Così conciato sembri
tutto fuorché la potente divinità che entrambi ben conosciamo. Guardati. Uno
straccio d’uomo coperto di fango e di onta, rinchiuso da qualche scagnozzo
mortale ben addestrato in una specie di complesso militare. Non potrei godere
di vista migliore, in effetti. Ma non è il caso di perdere tempo. Giungo con
una missione e un messaggio ben precisi. Interrompo duramente le tue lagnanze
fastidiose con la prima grande menzogna del mio disegno.
Com’è facile fingere costernazione
per un evento così lontano dalla realtà. La tua reazione avviene come da
copione: sei distrutto, confuso, incredulo. Tutto come avevo immaginato. Chissà
cosa si prova a realizzare che il proprio padre è morto per colpa delle proprie
mancanze e della propria arrogante condotta. Deve far male. In questo caso,
sarà meglio che renda ben chiara la cosa, tanto per lasciarti abbracciare e
consumare dalla responsabilità di un crimine al limite della premeditazione.
Rincaro la dose, rendendo esplicito ciò che i tuoi occhi hanno già
implicitamente colto. Sì Thor, proprio così. L’allontanamento subìto, causato
dalla tua trasgressione, così come la
minaccia di una nuova guerra, causata dalla tua
vanagloria, hanno costituito per il nostro povero e indebolito padre fardelli
troppo pensanti perché lo spettro della morte non lo cogliesse. Nessuna bugia è
mai stata più dissetante. La tua risposta di completa sconfitta e disperazione
rappresenta solo la prima delle mie prossime vittorie. Ti ho piegato fratello. Ti
ho colpito, infine. Ti ho ferito. Ma non temere, questo sarà solo il principio.
Non riesco a trattenermi e le mie
labbra si muovono ormai da sole scagliandoti altri dardi invisibili. Ti ricatto
con la perdita della fiducia di un padre che ti ha sempre amato sopra ogni
cosa. Costringerti alla verità che egli sia morto nella certezza di non essere
ricambiato da te è un supplizio che non oso risparmiarti. Coglilo, fratello. Assapora
l’amarezza di un dolore che si insinua fin nelle ossa, in ogni capillare del
tuo corpo. China ancora il capo. Struggiti pure. È la prima fila di uno
spettacolo irripetibile e straordinario. Vorrei continuare. Desidero ancora
infierire. Ma il rischio di tradirmi sarebbe troppo elevato e se c’è una cosa
che la vita alla quale mi hanno costretto mi ha insegnato è la capacità di
frenare gli istinti e pazientare. Avrò altre occasioni di vulnerarti.
Veniamo invece alle questioni
burocratiche. Con una malcelata sorpresa che scorgo nei tuoi occhi ti confermo
che sono io, adesso, il re di Asgard. Sono sul trono, fratello. Lo stesso su
cui ti saresti dovuto sedere poche ore fa. Ma forse è un tasto ancora dolente,
mi sbaglio? Evidentemente no visto che noto con piacere che la tua prima
preoccupazione è quella di tornare a casa così da potermi detronizzare.
Complimenti Thor, sei un brillante stratega. Sospiro una risposta così docile e
logica da farla sembrare ineluttabile nella sua semplicità. No fratello, non
puoi tornare. Per una volta, fai finta di voler davvero proteggere il tuo regno
da una guerra e poni fine a questa tua famelica ricerca di gloria. Il tuo
tentativo di arrangiamento è squisitamente pietoso. Ti brucia, vero? Essere
lasciato qui nel fango, da solo, abbandonato, colpevole. Onestamente, questo è
il primo momento di vero rinfranco che provo da quando ho avuto quella
piacevole conversazione con nostro padre nella sala delle reliquie. Forse
dovrei ringraziarti, Thor. La tua pena, infine, mi reca conforto.
Non ci vuole molto a mettere a
tacere i tuoi mugugni. Mi basta tirare in gioco nostra madre. La sua autorità. Ti
infliggo la perdita anche della sua, di benevolenza. Tutto sembra scivolarti
via dalle mani in questo giorno, eh fratello? È una sensazione alla quale dovrai
fare l’abitudine. Su questo potremmo dire di essere identici. Impareremo entrambi
a conviverci.
Questo è un addio, caro Thor. Finalmente,
sembri averlo compreso. Le tue ultime parole sono degne di uno stoico che
accetta a capo chino il proprio destino, su questo ti concedo un piccolo
riguardo. Pur sapendo che questa sarà l’ultima volta che incrocerò il tuo
sguardo e che ti avrò accanto, non riesco a scorgere in me alcuna reazione. Non
provo assolutamente nulla. È come se avessi abbandonato sul ciglio del mio
cammino il peso della tua presenza e del tuo ricordo. Me ne sono liberato.
Adesso non potresti essere più vicino eppure così lontano. Potrei sfiorare il
tuo volto solo allungando un braccio e invece mai come ora ti vedo così
evanescente e distante: dalla mente, dal cuore, da tutto il mio essere. Sono io
che abbandono te, fratello. Sono io che rinuncio a te.
Un addio sussurrato tra le labbra
strette è più che sufficiente. Non meriti altro ormai se non le mie spalle. Non
avverto rimpianto né colpa dentro di me. Volo sopra ogni ricordo, orgoglioso di
una nuova dignità, di un nuovo nome, di un nuovo me stesso. Una nuova identità.
Per quanto il tuo caro vecchio martello mi confidi il contrario ora che tento
di sollevarlo, io mi sento finalmente degno; meritevole di un destino che
stavolta condurrò con le mie mani. Costruirò nuovi mondi e nuove realtà
arrivando dove le vostre catene mi hanno sempre impedito di spingermi. Sarò il
nuovo dio e il nuovo sovrano di un regno che non ha più importanza chiamare casa. Esso sarà semplicemente la mia
dimora. Governerò nella sapienza di una riconosciuta consapevolezza: dimostrerò
a ogni abitante dei nove regni che io, Loki, sono degno di questo compito. Nulla
ormai potrebbe arrestare l’inevitabile.
La prima parte del mio piano è stata
perfettamente adempiuta. Thor rimane bandito. Sa di non poter tornare. Sa di
essere stato la causa della morte di nostro padre e di una prossima guerra con
Jotunheim. Nessuno a corte ha il potere di contravvenire all’ultimo ordine di
nostro padre se non me. Sono al sicuro, in una gabbia dorata. Per la prima
volta appare tutto così perfetto.
Sono ormai al secondo passo del mio
tragitto. Il primo è stato Thor; ora tocca a Laufey. Ammetto che sarà piuttosto
strano trovarmi di fronte al re dei Giganti con la consapevolezza che sia colui
il quale mi ha generato. Colui che dovrei chiamare padre. Il solo pensiero mi
ripugna, ma conservo il mio dovere; non sarà certo una meschina e burbera
creatura dei ghiacci a ostacolare i miei progetti. Questa terra infelice mi ha
sempre destato nervosismo, ma in questo momento nessun sentimento potrebbe
essere più chiaro del turbamento. Spero di lasciarla tanto velocemente quanto
l’ho raggiunta. Il suo vento gelido mi ferisce il viso come una lama. I miei
passi decisi ma esenti da fretta lasciano dei chiari solchi sul terreno. Ho il
forte sospetto che i bruti siano già a conoscenza della mia presenza. Raggiungo
il loro palazzo di roccia senza temere alcun attacco. So che mi lasceranno
arrivare al loro cospetto; e so che mi ascolteranno. Devono farlo.
Il luogo è sinistro come me lo ero
immaginato. Per un attimo mi abbandono alla debolezza di osservarmi in giro per
scorgere il ricordo di qualcosa, ma mi accorgo immediatamente della sciocchezza
di quel tentato proposito. In pochi istanti incontro le figure alte e immense
dei Giganti; prima che sia riuscito a contarli tutti mi rendo conto di essere
completamente circondato. Immagino che se solo volessero la mia morte potrebbe
essere istantanea.
Pertanto sorrido, non posso farne a
meno, quando quella creatura che da adesso in poi mi rifiuterò anche solo di
pensare come “padre” ordina ai suoi scagnozzi la più prevedibile delle azioni.
È incredibile quanto in quel contesto di tensione e imbarazzo il mio spirito al
contrario si abitui a poco a poco a intorpidire la collera e a lasciar scomparire
ogni avversione. È sufficiente che io inizi a parlare pronunciando parole di
sublime diplomazia che scorrono come acqua su roccia perché possa rinfrancarmi
dalla fatica di sostenere il suo sguardo. Sto bene. Anzi, non sono mai stato
meglio. Il tempo delle questioni personali è terminato, ora bisogna giungere ad
affari di ben altra rilevanza. Non posso permettermi distrazioni di alcun tipo.
Come, dunque, sommo Laufey potresti
trattare in maniera tanto scortese chi ha benevolmente permesso a una manciata
dei tuoi compagni di infiltrarsi fino alle fondamenta di Asgard? Sarebbe
davvero irriconoscente. Esattamente come avevo previsto, l’argomento non può
non stuzzicare la tua attenzione. Che sia la volta buona in cui ti osserverò
ponderare come un vero sovrano invece che agire come un rozzo? A quanto pare
sì, dato che riesco a farmi concedere la parola.
Mi diverte confessare il mio
infantile desiderio di vedere mio fratello finire in rovina proprio di fronte a
voi, miei orribili progenitori. E noto con piacere che la questione stimola in
voi altrettanto interesse. Con piacere, dunque, può iniziare l’esposizione
della seconda parte del mio piano, quella a voi dedicata. La stessa che vi
condurrà direttamente alla mia mano assassina. La mia capacità di persuasione
riesce continuamente a stupirmi, devo ammetterlo. L’attenzione che mostrare
alle mie parole mi sazia. Sono qui di fronte a voi a patteggiare nel ruolo di
nuovo re di Asgard, già macchiandomi di quella che in molti chiamerebbero una
collusione, o peggio, di alto tradimento. Quasi mi spezza il cuore. La
riflessione che giustamente ti ascolto fare, re dei Giganti, era la domanda che
più di ogni altra stavo aspettando. “Perché?”
Nessuna migliore possibilità per
eliminare dalle vostre menti poche evolute il più esile sospetto che io possa
venir meno alla mia parola. Insinuare in voi la certezza che io abbia bisogno
di tener fede al mio patto è la priorità assoluta. Quindi ti sorrido, ancora
una volta, giocando la mia carta vincente attraverso il taglio ironico che mi
caratterizza. Suvvia, le trame di corte ordite alle spalle di ignari sovrani
ormai in punto di morte sono sempre state il pane di ogni storia e leggenda
reale che si rispetti. Cosa potrebbe mai esistere di più vicino alla realtà?
Tu ucciderai mio padre, caro Laufey,
e mi renderai re; mentre io restituirò nelle tue mani il potere della tua
stirpe che ti è stato così ingiustamente sottratto. Mi sembra un accordo
paritario e fin troppo appetibile perché il tuo orgoglio ti costringa a rinunciarvi.
Tutto come previsto, anche in questo caso. Infettare col germe della menzogna
la mente di questi stolti è stato così semplice da risultarmi quasi
imbarazzante. Coltiva dunque bene il mio dono per te, padre immondo, vedrai che
spettacolo sarà quando lo vedrai crescere, fiorire, e infine perire sotto la
mia mano. La sola idea mi elettrizza e il tuo assenso mi riempie di silenzioso
potere. Sono cresciuto nel dominio. Sto cambiando forma ai contorni della mia
esistenza. Tutto ciò che verrà da ora in poi sarà finalmente per mano mia. Sto
decidendo il mio destino, finalmente consapevole delle mie origini e del mio
ruolo. La sensazione di forza e di potenza che si rovescia interiormente in me è
così vigorosa da infiammarmi ogni nervo del corpo. Solo un piccolo neo giunge
indesiderato a raffreddare questo mio ritrovato entusiasmo non appena rimetto
piede nel mio regno: il buon vecchio Heimdall, il guardiano infallibile e dai
principi incrollabili. Comprendo bene il tuo senso del dovere e la tua preoccupazione,
ma non è proprio questo il momento per mostrare simili sospetti: avrei un piano
da portare a termine.
Non ho alcuna intenzione di
lasciarti formulare illazioni provocate dalla diffidenza che provi nei miei
confronti, e pertanto ti restituisco l’offesa colpendo la dubbia efficacia delle
tue prestazioni. È probabile che i tuoi sensi siano in fallo. D’altro canto,
perché mai dovresti voler osservare e ascoltare il tuo re nel quale riponi ogni
fiducia e al quale hai prestato giuramento? Non ve n’è alcun bisogno. E il modo
migliore per mettere a tacere un simile azzardo è senz’altro la sottomissione.
Per quanto tu sia potente, Heimdall, e per quanto la tua saggia persona riesca
a vedere più in là di qualunque altro asgardiano, resti comunque e pur sempre
un suddito di questo regno. E del suo re, che al momento sarei io. Non me ne
voglia ricordartene, ma gradirei sentirti pronunciare qui e ora il tuo
giuramento di obbedienza a me. Questo dovrebbe tenerti tranquillo almeno per un
po’.
Come immaginavo, non sei molto
diverso da quei cani che mio fratello teneva come amici. Basta punzecchiare il
tuo onore e la tua fedeltà che celere come un fulmine torni a rifugiarti nel
tuo guscio di grandi virtù inattaccabili. Fintanto che ciò potrà farti tacere e
renderti servile, mi andrà benissimo.
Non ho bisogno di destabilizzatori. Ora meno che mai. Sta’ qui al tuo
posto, allora, a fare ciò che hai sempre fatto. Anzi no, mi correggo.
Preferisco renderti noto che vorrei non aprissi ad altri il portale, se non a
me. Meglio evitare che a qualcuno venga la folle idea di andare ad indagare su
Jotunheim o di organizzare una visita a mio fratello, dico bene? Quando il mio
piano sarà compiuto e la nascita di un nuovo regno sarà alle porte, allora mi
occuperò anche di te, buon Heimdall. Fino ad allora, resterai fedele e al mio
servizio nella speranza che la tua mente vivace non si metta a macchinare
losche azioni alle mie spalle. Stolti sono tutti coloro che non riescono a
vedere nel mio disegno l’unica risorsa utile per risorgere da questo regno di
caos e disfacimento nel quale c’è mancato poco che Thor ci scaraventasse
completamente. Possibile che nessuno comprenda quanto la mia azione sia
necessaria, mai come adesso? Nessuno comprende quanta fatica io debba
addossarmi per recuperare al danno di quell’idiota? Ci sarà qualcuno così
ragionevole e lungimirante da riconoscermi il merito di tali difficili scelte?
Asgard ha bisogno di me. Io ho bisogno di Asgard. Sono certo che non potrebbe
esistere unione più felice né necessaria.
Ancora poco e potrò dimostrarlo a
tutto il regno, a mia madre, a mio padre. Renderò carne l’idea di un monarca
perfetto e meritevole. Concretizzerò gli insegnamenti di mio padre in una splendente
effigie dorata. Non manca molto ormai, ci sono quasi. Un ultimo passo e la mia
esistenza potrà essere riscattata, capovolta, completamente rivalutata. Mi purificherò
dal fango con cui sono stato crudelmente macchiato e allora sì che la risorta fenice
potrà levarsi in cielo, in tutta la sua gloria e potenza, come fiamme ardenti
nel cielo stellato.