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Autore: unknown_girl    22/09/2012    2 recensioni
La storia si basa sulla ricostruzione delle vicende del film "Thor", analizzate e vissute dal punto di vista di Loki, in questo caso il protagonista. Per realizzarla ho utilizzato anche una delle scene eliminate dal film.
[ Sento deboli i miei occhi, bruciano; i battiti del cuore salgono alle tempie e mi frastornano, il mio volto salta da una prospettiva all’altra in cerca di qualcosa, qualcuno. Ma non so cosa. E non so chi. Deglutisco senza difese, inerme. Il tempo si dilata come lo strappo di una tela e mi isola in un turbine di immagini e pensieri che mi accecano. Ma non posso. Non adesso. I Giganti. Thor. Dobbiamo tornare. Fratello, dobbiamo tornare. Adesso. ]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Loki
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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The Hurt Reindeer - Lies

- Lies -

 

Trovo amaramente ironico il modo in cui infine mi sia ritrovato a sedere su questo trono. È sicuramente più ampio di quanto non sembrasse. La sua superficie è liscia e brillante come il marmo e ciò aumenta l’aura di solennità che circonda non solo il seggio ma tutta la sala.

Non penso che abbia più senso parlare di abitudine ormai, visto che ogni cosa che ritenevo abituale si è dissolta nella scoperta di una verità tormentosa quanto meschinamente celata. Non penso potrò abituarmi al trono; perché, in fondo, non c’è niente su cui fare pratica. Devo solo comportarmi come ho sempre immaginato nella mia mente, dire quello che avrei sempre voluto proferire piuttosto che ingoiare, applicare la mia forma mentis a questo nostro governo. Se per questo, di allenamento ne ho fatto anche troppo: ogni domanda che nostro padre formulava, ogni prova a cui ci sottoponeva, ogni strategia che disponeva di esaminare. Al contrario di quell’idiota di Thor, io sono cresciuto nella consapevolezza che avrei dovuto essere pronto a qualunque evenienza e a un ruolo di cui ero disposto ad accettare la sfida, seppur cosciente che probabilmente non mi sarebbe mai stato assegnato. Non come il caro figlio di Odino, favorito dalla sorte, che non ha mai dovuto predisporsi a niente perché niente avrebbe dovuto aspettarsi: lui sarebbe diventato re. Non ha mai conosciuto la condanna della sorpresa o del dubbio. Sono certo che lo avesse sempre saputo. Appurato questo attraverso un’abietta collusione con mio padre, non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla. Thor, il figlio di Odino. Thor, il più amato da Odino. Thor, il favorito di Odino. Thor, il potente guerriero.

E poi io, il reietto; una sorta di secondo figlio mancato. Un vile ripiego attraverso il quale lasciar prosperare una pace fondata sul furto e la menzogna. Una pace che gronda sangue e odora di tradimento. Non mi stupisco di come siano andate in seguito le cose. Anzi, tutto assume adesso un senso cristallino. Pensando a tutti i tormenti che ho trascorso nella speranza indefessa che un giorno lontano, magari, sarei riuscito a mostrare anche il mio di valore -seppur ben diverso da quello di mio fratello- mi si riversa addosso una sensazione di vergogna indistruttibile. Ho mortificato per anni me stesso e la mia dignità rincorrendo un’eventualità che tutti dicevano fosse tracciata per me con inchiostro reale, quando tutti sapevano bene che di quel percorso non era stato schizzato nemmeno l’abbozzo. La mia condotta sarà stata derisa alle mie spalle e pareggiata a quella di un buffone di corte, devo quindi dedurre. Chissà quante risa avrà suscitato nelle personalità reali la mia misera e inconsapevole condizione. Come un cane che tenta di mordersi la coda o una testuggine supina che tenta di rivoltare il proprio guscio, così io –ignaro- agognavo ad un trono che non era neanche stato preparato; meglio, nemmeno pensato.

Mi rendo ben conto che continuare ad indugiare su simili pensieri sarebbe pleonastico, ma trovo assai più difficile aggrapparmi al conforto della distrazione. Non ha alcuna importanza quante persone sapessero, se solo una o tutte quante, quel che è certo è che adesso riserverò ad ognuno lo stesso sguardo ferito e indignato, così lontano da ogni immaginabile comprensione di un tale segreto indigesto.

Lo scettro è nelle mie mani, e per ora questo mi basta. Madre giace accanto al padre degli dei caduto nel sonno di Odino, nella sua stanza. I miei sentimenti al riguardo sono piuttosto confusi. Sono stato colpito da una concatenazione di eventi dalla quale mi è ancora difficile scuotermi. So che mio padre non è morto, eppure chi può dire che sia vivo? La sua esistenza è stata avvolta in una dolce catalessi di fronte a cui nessuno sembra sapere come reagire. Penso che sia stato un male almeno quanto un bene. Avrei voluto porre a mio padre diversi altri interrogativi, chiedere dettagli e spiegazioni che come una valanga avevano devastato i miei pensieri e sradicato ogni mia timida certezza. E questo è un male, sicuramente.

Perché sia anche un bene? Ho riflettuto, e a lungo. Per quanto sconvolto, il raziocinio è sempre stato la mia unica arma e difesa. Ho elaborato una trama precisa, severa e impietosa. Thor è bandito senza alcuna possibilità di ritorno al momento, Odino è caduto in un inaspettato oblio senza certezza di prossimo risveglio. Io sono conseguentemente divenuto il nuovo re di Asgard, legittimo erede al trono in assenza del favorito quanto indegno primogenito. Come spesso mi è stato detto, forse non tutti i mali vengono per nuocere. Con la giusta calma e motivazione, potrei inaspettatamente riuscire a volgere questa condizione a mio favore. Permanentemente. Sto già mettendo insieme i pezzi.

Ed è proprio in questa pacifica riflessione con me stesso che giunge un momento di sublime sorpresa. In realtà, non è del tutto esatto: mi aspettavo la venuta dei cagnacci odiosamente fedeli di mio fratello. Il loro paragone con bestie asservite e maleodoranti non cesserà mai di compiacermi. Cerco di trattenere un riso di disprezzo quando assaporo il loro dolce stupore; è come nettare di ambrosia per le mie membra spossate dalla stanchezza. È una piccola quanto succulenta rivincita. Godo enormemente nel contemplare il loro palese imbarazzo. Ne vorrei di più. Fino a scoppiare. Ma preferisco tendere loro la mano per farli sentire a loro agio. Nelle mie attuali condizioni posso persino permettermi di chiamarli “amici”. È così elettrizzante la reciproca consapevolezza di quell’insulto. Ma questa pittoresca banda di scagnozzi petulanti sembra voler giungere al punto più velocemente di quanto io stesso non voglia. Non temete, vi accontenterò.

Vi narro dunque con mesta compostezza delle condizioni del padre Odino e della decisione della regina. Cos’è? Adesso pensate di non potervi rivolgere più a nessuno forse? Deve essere frustrante sentirsi confusi e abbandonati, vero? Non immaginate nemmeno quanto.

Sembrate cominciare ad essere colti da affanno, amici miei, cosa vi succede? Non vi piace il vostro nuovo re forse? Ne deduco che non siate ancora pronti ad accogliermi come vostro pari; eppure sapete che sono il figlio di Odino e che come tale ho tutto il diritto di sedere su questo trono in assenza sua e di mio fratello Thor. Cosa mai, dunque, vi turba fino a questo livello? La mia persona? Il mio essere che detestate così visceralmente? La vostra futile ostinazione è pari solo alla vostra stupidità. Il vostro sprezzo comincia adesso a nausearmi, facendomi provare un insaziabile desiderio di rivalsa. Vorrei mettervi a tacere con un facile atto di forza, ma so bene che non favorirebbe i piani che sto elaborando e, in aggiunta, non confarebbe all’indole diplomatica che conservo gelosamente. Mi limito quindi a sospirare in una lunga pausa, dicendomi che è il momento di lasciare a voi ottusi la possibilità di aprire gli occhi e comprendere –per quanto vi sia difficile- con chi state parlando in questo momento. Premo con calma risoluta il palmo della mia mano sul freddo marmo del trono e mi sollevo lentamente, fin troppo: dovete gustare attentamente ogni istante della vostra umiliazione, ogni secondo grazie al quale comprenderete di essere voi, oggi per la prima volta, al di sotto della mia persona. Scandisco senza riserve quelle tre parole che sanciscono il mio ruolo e la mia autorità nella grande sala. Io: il vostro re.

Scordatevi Loki, dimenticate le beffe e gli affronti che tanto vi divertivate a scagliarmi con un disprezzo stemperato solo da pungente sarcasmo; abbandonate ogni illusoria idea che possiate ancora una volta sovrastarmi, voi inutili e pietosi parassiti di cuori teneri e ingenui. Io ho lo scettro. Io ho il trono. Io ho il potere. Un solo gesto di insulto e potrei non controllare il mio desiderio di vendetta accecante. L’eco dello scettro che colpisce il pavimento in un gesto di rispetto incondizionato è maggiore di quel che mi aspettassi. Forse perché per la prima volta le vostre bocche si ritrovano asciutte e rinsecchite nell’impossibilità di scagliare altre frecce velenose verso di me. Immagino debba essere una strana sensazione. Bé, sappiate che lo è anche per me.

Oh, e l’esitazione che mostrate nel compiere il vostro inchino doveroso è ancora più appagante. Chi l’avrebbe mai detto che voi inetti, Fandral, Hogun, Volstagg e persino tu, feroce  guerriera Sif, vi sareste mai potuti inchinare a me? Questo deve essere senz’altro uno dei giorni che né io né voi dimenticheremo tanto facilmente. Inchinatevi, adesso. Inchinatevi, forza. Andate giù, ancora più giù. Nel fango delle vostre debolezze e delle vostre colpe. Cospargetevi di un’umiltà che non avete mai conosciuto. Che gentili siete, usate anche degli appellativi di tutto rispetto. Devo ammettere che in questo momento siete quasi degni della mia sottostima.

Peccato però, un’insignificante parte di me pensava quasi di potersi aggrappare alla remota possibilità che la vostra richiesta potesse essere un poco più intelligente. Non fa niente, vi perdono. Non bisogna accanirsi con chi è meno fortunato nell’intelletto, dico bene? Ancora una volta, non mi avete deluso. Comincia quasi a piacermi questo nostro rapporto di reciproca e fondata prevedibilità. Thor, Thor, Thor, come sempre, come al solito, fino alla nausea. Ero già pronto ad affrontare questa vostra infantile lagnanza. Perdonate, ma non posso trattenere un sorriso di indulgenza. La vostra devozione e affezione mi sciolgono il cuore, davvero. In compenso, non ho alcuna fretta. Scendo alcuni gradini con una serenità che nemmeno pensavo di poter ostentare. Mi sento sicuro in quel luogo sopraelevato, con lo scettro saldo nella mano a difendere il mio ruolo che volente o nolente mi è stato assegnato. Niente potrebbe procurarmi maggiore piacere del sapere che, qualunque carica di rabbia e disprezzo monti in voi, non potrete comunque toccarmi né ingiuriarmi. Perché sono il re. Io sono il vostro re. Non potete nuocermi.

Le mie parole sono avvolte dalla dolcezza dell’irremovibilità. È fin troppo facile. Chi l’avrebbe mai detto che mi sarei trovato tanto a mio agio in un compito del genere? È come se fossi nato per questo, al di là dei progetti che mi avevano riservato. Non ci vuole molto a giustificare politicamente la mia decisione: l’imminenza della guerra con Jotunheim, la devozione verso un padre ancora vivo al cui ultimo ordine non posso contrapporre il mio, il bene di Asgard. È così semplice che non mi sembra vero: le parole mi escono dalle labbra come acqua da una sorgente; sono inarrestabili nella loro ineluttabilità. È la vittoria della mente, della lingua e della diplomazia contro l’imbecillità, l’irrazionalità e la brutalità di mio fratello. Sono vittorioso nella sconfitta. Sto recuperando parte di quel che mi è stato tolto. Sto risorgendo, lentamente.

Eppure questa mia segreta rinascita sembra non rallegrarvi. Lo capisco. Dei cani non possono certo comprendere il nobile dolore di una fenice che risorge dalle ceneri. Sif, in particolare: sembri piuttosto contrariata. La mia decisione ti ha forse resa scontenta? Meno male che c’è Fandral, sicuramente più prudente di te nell’ostentare tanto astio di fronte al proprio re, ti piaccia o meno. Basta così. Sta diventando un teatrino insopportabile. Questa conversazione è riuscita a stancare persino me. La vostra sola presenza mi sottrae il vigore necessario per attendere ai miei obblighi.

A voi però sembra non bastare mai, a quanto vedo. Il caro Volstagg ha ancora qualcosa da dire, evidentemente, e sembra anche divertirsi ad insinuare dell’ironia nel proprio tono. Tutto ciò è insopportabile; direi che mi sono divertito abbastanza ormai. Liquido qualunque richiesta con una sentenza secca e precisa. La mia parola è legge adesso. Liberatemi dalla vostra molesta presenza. Andate a piangere il vostro compagno altrove, lontano da me. Un giorno capirete che dovreste essermi grati per questo: vi ho liberato dall’asservimento.

Non potrei udire al momento suono più rinfrancante dei vostri passi che si allontanano dalla sala. È come tornare a respirare aria fresca. La solitudine mi offre il tempo di pensare, elaborare, programmare. In ultimo, anche di ricordare. È stato solo poche ore fa che la mia vita è stata lacerata in tanti esili frammenti e già mi sembra di aver attraversato un inferno di parecchi giorni di cammino. Ho assoluto bisogno di vedere una persona adesso. La mia sete di risposte è implacabile; il mio bisogno di conforto, insostenibile.

 

Osservare mia madre attraverso gli occhi della mia nuova identità mi spinge ad un esperimento: mi sforzo di scorgere ogni dettaglio corporeo, fino a quel momento inesplorato, che possa confermare l’assenza di qualunque somiglianza biologica tra di noi. Il suo viso, i suoi occhi, i suoi capelli, le sue mani. Tento di aggrapparmi a qualunque suggerimento visivo solo per potermi rimproverare, dentro di me: “come hai potuto non accorgertene prima?”

Ma è un esercizio futile e immaturo e pertanto decido di concluderlo. La tua mano, madre, non abbandona quella del padre degli dei. Sono sicuro che in qualche modo riesca a sentire la tua vicinanza. Una tale devozione dovrebbe a buon diritto essere in grado di oltrepassare i confini dei sensi. I muscoli del mio viso, nonostante l’esaurimento logorante delle ultime ore, non riescono a distendersi. Credo che la visione di un padre sul capezzale sia sempre un carico piuttosto gravoso da portare; anche per un figlio adottato. Ma nonostante tutto, non posso trattenere le mie parole più a lungo. Devo sapere. Devo ascoltare. Lo chiedo anche a te madre, perché? Perché avete scelto di dissetarmi, per tutti questi anni, alla fonte della menzogna? In quel momento riesco a leggere il mio sguardo: deve essere certo affaticato e scorato. Percepisco la forma che ogni muscolo del mio viso fa assumere alla mia espressione facciale. Non riesco a simulare altro se non la verità. Devo suscitarti davvero molta pena, madre mia, per spingerti a osservarmi con quegli occhi che sembrano volermi carezzare con lo sguardo. Sono così dolci le tue parole unite a quelle pupille profonde che mi tengono al sicuro. Non avrei altre madri alle quali chiedere asilo. Ho conosciuto solo te.

La tua risposta è piuttosto prevedibile, lo ammetto, ma riesce comunque a mettere da parte per alcuni brevi istanti qualche grammo del mio patimento ininterrotto. Mai come ora, di fronte a te, mi sono sentito minuscolo e sguarnito di qualunque protezione. Una parte di me sa che sono amato; dovrebbe infondermi fiducia, e invece non mi è di alcun conforto. Non riesco più a riconoscere l’apprezzabilità di nulla. Tutto è insignificante quanto perduto. Niente vale più la pena di niente.

Trovo beffardo il destino che ha guidato le vostre azioni ben poco lungimiranti, questo concedimelo. Faccio fatica a sentirmi dire che quella bugia è stata frutto di amore e del desiderio di proteggermi. Da chi e da cosa non riesco ancora a capire. Se l’obiettivo era davvero allontanare ogni possibilità di farmi sentire diverso, posso ben assicurare che l’effetto è stato raggiunto ugualmente. Il copione della vostra opera è stato stravolto senza che neanche ve ne foste mai accorti; nemmeno rendendomi pari nel nome siete riusciti ad assicurarmi una uguale dignità. Lo scherno, il dispregio, il ridicolo e l’offesa: niente mi è stato risparmiato da quelli che vorreste che io chiamassi “amici”. Per non parlare poi dei “fratelli”. Mi sono nutrito per l’intera esistenza di un’unica portata, seduto alla tavola degli emarginati: l’astio. Un odio livido e viscerale, di giorno in giorno crescente, sempre più rivoltante nelle forme spaventose che a poco a poco assumeva. Quando mi sono reso conto di quanto fosse cresciuto e diventato ormai venefico, non ero più nelle condizioni di poterne fare a meno. Certo, una parte di me continuava scioccamente a sperare che sarebbe giunto, forse, il giorno in cui qualcuno o qualcosa mi avesse concesso l’opportunità di assestare a quella massa d’odio un colpo, di scansarla, di dimostrare che non era necessario conservare quel male dentro di me. Un giorno, mi illudevo, qualcuno mi avrebbe reso partecipe di un sentimento di stima che mi avrebbe reso finalmente uno dei pari, fra i tanti. Dunque attesi. A lungo. A dire il vero, ho atteso fino a questo giorno funesto.

E invece nulla mi ha mai, neanche per un istante, distolto dal mio desiderio di vendetta; niente è capitato che mi abbia fatto desistere dal gridare con rabbia al nostro regno che anch’io, figlio di Odino, meritavo un’attenzione troppo a lungo e troppo profondamente sotterrata.

E quindi eccomi qui madre, davanti ai tuoi occhi ignari. Neanche ti sfiora l’idea che possa essere stato proprio io a far entrare i Giganti ad Asgard. E nemmeno penseresti che mai come oggi sono giunto a odiare tutto ciò che credevo mi appartenesse e mi fosse caro. Torno a domandarmi, pertanto, quale fosse la vostra idea di “proteggermi” quando avete stipulato quel patto di silenzio che mi è valso solo a rimandare e amplificare una sofferenza che evidentemente mi appartiene ineluttabile. Forse non sarebbe cambiato niente se fossi cresciuto nella verità già cosciente di essere quel che realmente sono; o forse sarebbe cambiato tutto. Non posso dirlo. Tuttavia, mi sembra chiaro che in entrambi i casi il vostro amato e prediletto sarebbe sempre stato uno: non io. Per quanto mio padre dicesse di amarmi, per quanto il tuo sguardo, madre, mi suggerisce la più incrollabile delle adorazioni materne, io verrò sempre dopo di lui. Thor. Un fratello che non lo è mai stato. Un affetto che dunque non mi è mai davvero appartenuto.  Ormai non credo che né lui né altri sapessero, eppure…non è di conforto neanche questo.

Tanto più che mentre io desidero morte, distruzione e perenne allontanamento di colui il quale è stato –e ancora è- una nemesi oscura e tormentosa, tu tenti di infondermi speranza. Un afflato di redenzione che non può che disgustarmi: speranza. Per Thor? Non ha forse fatto già abbastanza, invece? Non è forse stato causa di già sufficienti e dolorose disgrazie per il nostro regno? Lo sdegno mi raggiunge così fulmineo che non ho neanche la forza di occultarlo nello sguardo. Sempre un passo indietro. Sempre una rincorsa. Sempre la tua schiena dovrai mostrarmi, fratello odiato almeno quanto amato. Nemmeno in seguito ad un simile affronto che ti è costato l’esilio sembri ancora sprofondare. Sembra che ci sarà sempre una mano tesa, pronta ad afferrarti e a perdonarti ogni torto. Perché sei così fortunato? Perché sei così beneamato? Perché ti sento così distante, al punto da smarrire la tua figura alla vista? La mia condanna è dunque restare l’ombra appassita del tuo retaggio? A questo mi hanno confinato?

In un istante, decido che mai più avrei voluto sentire quella parola. Quelle tre sillabe mi infiammano ogni cellula del corpo, accendendo una miccia di repulsione velenosa incontrollabile. Speranza. Speranza. Speranza. Io che ho sperato per anni. Io che ho pregato ogni padre e ogni divinità a noi più cara per una sola occasione. Una sola possibilità. Una soltanto.

Mi avrebbe salvato. Lo so per certo. Mi avrebbe cancellato, o almeno temperato, questo odio putrido e famelico che cresce come un parassita. Avrebbe gettato luce dove ora ci sono solo le tenebre di un’oscurità già precedente. Al buio si è aggiunto buio. Ogni giorno. E quella possibilità, l’unica che mi teneva ancora in vita la speranza, non è mai giunta. Mai la redenzione ha anche solo osato sfiorarmi. Mai una volta.

Cosa ti fa credere adesso, fratello, che tu possa meritartela con tanta facilità? Chi sei, tu, per avere una seconda opportunità quando mai tu ne hai date? A me. Mai mi hai dato una sola occasione per rendermi degno di camminare al tuo fianco come tuo eguale. Mai hai messo a tacere le malelingue dei tuoi amici che infierivano come fruste sulla mia schiena nuda e vulnerabile. Hai sempre saputo cosa pensavano, li hai sentiti addirittura, eppure mai hai osato difendermi né dissuaderli. Chi sei tu per meritare tanta benevolenza, ora? Come io non ne ho avuta, così non ne avrai tu. È una promessa, fratello. Le parole di nostra madre, per quanto spiacevoli e difficili, mi hanno condotto sulla strada giusta: sto elaborando una prima risposta a questo sconvolgimento esistenziale. Per la prima volta da quando la verità mi ha accoltellato con violenza, sento di reagire. I miei pensieri scalciano per la vivacità con la quale si rinnovano. Sto scartando, rimescolando e riunendo tutti quei pezzi del puzzle che mi erano stati lanciati come frecce. La mia visione si va definendo. È cristallina adesso. Mentre prima posava su di un vetro opaco e macchiato da scompiglio e turbamento, ora risorge sovra un diadema:

Io sono Loki.

Non sono il figlio di Odino; non lo sono mai stato. Non appartengo a questo regno come non appartengo alla sua gente. Non riconosco affetti che mi leghino a questo mondo. Tutto quel che conoscevo è scomparso alla luce accecante della verità, mentre ogni congiunzione affettiva è stata recisa come un cordone ombelicale. Non sono dunque il figlio di Odino. Non è dunque questa la mia casa, seppur presunta tale per anni.

E non sono nemmeno il figlio di Laufey. Per quanto il sangue e la genetica non mentano, Laufey non è mio padre. Non lo è mai stato. E non lo è mai stato perché mi ha abbandonato come un fetido rifiuto. Non devo averlo soddisfatto, si vede. Nessuno chiamerebbe un simile individuo “padre”. Non è mai stato mio padre perché non l’ho mai creduto tale. Pertanto, la validità biologica cade nella sua certezza. Non esistono legami né affetti che mi trattengono al regno dei ghiacci. Jotunheim sarà per me solo un mondo oscuro e gelido nel quale conducono le loro insignificanti esistenze dei mostri volgari, pronti all’odio e alla prepotenza. Così sono stato cresciuto. Questo mi è stato insegnato. Non c’è luogo né essere che io laggiù possa chiamare “casa”.

Pertanto, sono giunto alla conclusione: io sono Loki.

Io sono Loki, e nient’altro. Non possiedo generalità né appellativi né epiteti. Non sono figlio di nessuno. Non sono abitante di nessun regno. Non ho fratelli, né sorelle, né amici. L’unica cosa che mi resta, è la vendetta. Un’ultima possibilità per guadagnarmi a denti stretti l’occasione che ho tanto aspettato ma che ormai, ho imparato, sarà meglio costruirmi da solo con le mie mani.

Sono soltanto Loki.

Questo è il dono che chi credevo mio padre e mia madre mi ha fatto: l’oblio. Infliggo alla mia vecchia identità una damnatio memoriae nella prospettiva che ciò mi restituisca la libertà spirituale utile al compimento del mio intento. Ormai è tutto pronto. D’altronde, chi non ha nulla da perdere può essere pronto al rischio di perdere ogni cosa. L’abbandono di chi sono stato è più dolce di quanto mi aspettassi. È come librarsi nello stesso spaziotempo ma con rinnovato sguardo. Ogni cosa appare diversa e nuova, come se non fossi mai cresciuto tra queste mura. È la mia occasione. L’unica che ho sempre aspettato e che mai è arrivata. È l’unica possibilità che sono in grado di plasmare per il mio bene. Per la mia salvezza. La speranza è morta. Adesso mi aggrappo solo al diritto della rivincita. Essa è così calda dentro di me; e sarà consumata. A breve.

Così come la speranza è morta per me, fratello detestato, così lo sarà pure per te. Ti dono questo, Thor: la parità che mi hai sempre negato. Per la prima volta nelle nostre vite, assaporerai il gusto della competizione. Sarai come me. E io sarò come te. Saremo morti nelle aspettative e arresi nel destino. Saremo insieme per l’ultima volta come non siamo mai stati. Ti mostrerò ciò che di me hai sempre respinto. Vedrai, sarà il più bel dono che possa mai farti. Uguali nel trapasso a una nuova vita e a una nuova forma. Nessuno spettacolo varrà mai tanto.

Ma mentre io morrò e risorgerò ancora una volta, come ormai ho imparato a fare, per te non vi sarà ritorno. Tu che non hai mai affrontato la sconfitta né la caduta, giacerai per sempre in quelle tenebre alle quali mi hai costretto, inconsapevolmente complice della tua stessa vanità. Mi osserverai crisalide; ammirerai il mio guscio schiudersi per un’altra volta ancora. E infine, mi guarderai volare via come un’imperatrice del cielo. Nient’altro ammireranno i tuoi occhi di più bello se non il mio primo, unico, ma infinito trionfo. Una fenice infuocata che arderà il tuo corpo fino alle ceneri. Ti destinerò al più dolce e prolungato dei sonni. Ti distruggerò con l’amore che ti devo. Non te ne risparmierò una sola libbra. E per l’ultima volta, mentre osserverò i tuoi occhi chiudersi, ti chiamerò “fratello”.

 

È il primo passo del mio disegno. Nel compierlo mi sento emozionato come un bambino a ricevere un dono. Queste saranno le fondamenta del mio successo. Il primo tassello a cui seguiranno tutti gli altri, fino a che la mia catarsi non sarà completa e mi renderà ciò che mi spetta. È curioso questo mondo di Midgar; ricolmo di creature incapaci di suscitare in me il benché minimo interesse. Detestabili, oserei dire.

Ma non è questo il punto. Non è questo il motivo per cui sono qui. Giungo ora a te, fratello, per portarti il primo frammento del mio nuovo costrutto. Sei la mia prima e inconsapevole pedina. Che gioia rivedere il tuo viso, colmo di stupore. Così conciato sembri tutto fuorché la potente divinità che entrambi ben conosciamo. Guardati. Uno straccio d’uomo coperto di fango e di onta, rinchiuso da qualche scagnozzo mortale ben addestrato in una specie di complesso militare. Non potrei godere di vista migliore, in effetti. Ma non è il caso di perdere tempo. Giungo con una missione e un messaggio ben precisi. Interrompo duramente le tue lagnanze fastidiose con la prima grande menzogna del mio disegno.

Com’è facile fingere costernazione per un evento così lontano dalla realtà. La tua reazione avviene come da copione: sei distrutto, confuso, incredulo. Tutto come avevo immaginato. Chissà cosa si prova a realizzare che il proprio padre è morto per colpa delle proprie mancanze e della propria arrogante condotta. Deve far male. In questo caso, sarà meglio che renda ben chiara la cosa, tanto per lasciarti abbracciare e consumare dalla responsabilità di un crimine al limite della premeditazione. Rincaro la dose, rendendo esplicito ciò che i tuoi occhi hanno già implicitamente colto. Sì Thor, proprio così. L’allontanamento subìto, causato dalla tua trasgressione, così come la minaccia di una nuova guerra, causata dalla tua vanagloria, hanno costituito per il nostro povero e indebolito padre fardelli troppo pensanti perché lo spettro della morte non lo cogliesse. Nessuna bugia è mai stata più dissetante. La tua risposta di completa sconfitta e disperazione rappresenta solo la prima delle mie prossime vittorie. Ti ho piegato fratello. Ti ho colpito, infine. Ti ho ferito. Ma non temere, questo sarà solo il principio.

Non riesco a trattenermi e le mie labbra si muovono ormai da sole scagliandoti altri dardi invisibili. Ti ricatto con la perdita della fiducia di un padre che ti ha sempre amato sopra ogni cosa. Costringerti alla verità che egli sia morto nella certezza di non essere ricambiato da te è un supplizio che non oso risparmiarti. Coglilo, fratello. Assapora l’amarezza di un dolore che si insinua fin nelle ossa, in ogni capillare del tuo corpo. China ancora il capo. Struggiti pure. È la prima fila di uno spettacolo irripetibile e straordinario. Vorrei continuare. Desidero ancora infierire. Ma il rischio di tradirmi sarebbe troppo elevato e se c’è una cosa che la vita alla quale mi hanno costretto mi ha insegnato è la capacità di frenare gli istinti e pazientare. Avrò altre occasioni di vulnerarti.

Veniamo invece alle questioni burocratiche. Con una malcelata sorpresa che scorgo nei tuoi occhi ti confermo che sono io, adesso, il re di Asgard. Sono sul trono, fratello. Lo stesso su cui ti saresti dovuto sedere poche ore fa. Ma forse è un tasto ancora dolente, mi sbaglio? Evidentemente no visto che noto con piacere che la tua prima preoccupazione è quella di tornare a casa così da potermi detronizzare. Complimenti Thor, sei un brillante stratega. Sospiro una risposta così docile e logica da farla sembrare ineluttabile nella sua semplicità. No fratello, non puoi tornare. Per una volta, fai finta di voler davvero proteggere il tuo regno da una guerra e poni fine a questa tua famelica ricerca di gloria. Il tuo tentativo di arrangiamento è squisitamente pietoso. Ti brucia, vero? Essere lasciato qui nel fango, da solo, abbandonato, colpevole. Onestamente, questo è il primo momento di vero rinfranco che provo da quando ho avuto quella piacevole conversazione con nostro padre nella sala delle reliquie. Forse dovrei ringraziarti, Thor. La tua pena, infine, mi reca conforto.

Non ci vuole molto a mettere a tacere i tuoi mugugni. Mi basta tirare in gioco nostra madre. La sua autorità. Ti infliggo la perdita anche della sua, di benevolenza. Tutto sembra scivolarti via dalle mani in questo giorno, eh fratello? È una sensazione alla quale dovrai fare l’abitudine. Su questo potremmo dire di essere identici. Impareremo entrambi a conviverci.

Questo è un addio, caro Thor. Finalmente, sembri averlo compreso. Le tue ultime parole sono degne di uno stoico che accetta a capo chino il proprio destino, su questo ti concedo un piccolo riguardo. Pur sapendo che questa sarà l’ultima volta che incrocerò il tuo sguardo e che ti avrò accanto, non riesco a scorgere in me alcuna reazione. Non provo assolutamente nulla. È come se avessi abbandonato sul ciglio del mio cammino il peso della tua presenza e del tuo ricordo. Me ne sono liberato. Adesso non potresti essere più vicino eppure così lontano. Potrei sfiorare il tuo volto solo allungando un braccio e invece mai come ora ti vedo così evanescente e distante: dalla mente, dal cuore, da tutto il mio essere. Sono io che abbandono te, fratello. Sono io che rinuncio a te.

Un addio sussurrato tra le labbra strette è più che sufficiente. Non meriti altro ormai se non le mie spalle. Non avverto rimpianto né colpa dentro di me. Volo sopra ogni ricordo, orgoglioso di una nuova dignità, di un nuovo nome, di un nuovo me stesso. Una nuova identità. Per quanto il tuo caro vecchio martello mi confidi il contrario ora che tento di sollevarlo, io mi sento finalmente degno; meritevole di un destino che stavolta condurrò con le mie mani. Costruirò nuovi mondi e nuove realtà arrivando dove le vostre catene mi hanno sempre impedito di spingermi. Sarò il nuovo dio e il nuovo sovrano di un regno che non ha più importanza chiamare casa. Esso sarà semplicemente la mia dimora. Governerò nella sapienza di una riconosciuta consapevolezza: dimostrerò a ogni abitante dei nove regni che io, Loki, sono degno di questo compito. Nulla ormai potrebbe arrestare l’inevitabile.

   

La prima parte del mio piano è stata perfettamente adempiuta. Thor rimane bandito. Sa di non poter tornare. Sa di essere stato la causa della morte di nostro padre e di una prossima guerra con Jotunheim. Nessuno a corte ha il potere di contravvenire all’ultimo ordine di nostro padre se non me. Sono al sicuro, in una gabbia dorata. Per la prima volta appare tutto così perfetto.

Sono ormai al secondo passo del mio tragitto. Il primo è stato Thor; ora tocca a Laufey. Ammetto che sarà piuttosto strano trovarmi di fronte al re dei Giganti con la consapevolezza che sia colui il quale mi ha generato. Colui che dovrei chiamare padre. Il solo pensiero mi ripugna, ma conservo il mio dovere; non sarà certo una meschina e burbera creatura dei ghiacci a ostacolare i miei progetti. Questa terra infelice mi ha sempre destato nervosismo, ma in questo momento nessun sentimento potrebbe essere più chiaro del turbamento. Spero di lasciarla tanto velocemente quanto l’ho raggiunta. Il suo vento gelido mi ferisce il viso come una lama. I miei passi decisi ma esenti da fretta lasciano dei chiari solchi sul terreno. Ho il forte sospetto che i bruti siano già a conoscenza della mia presenza. Raggiungo il loro palazzo di roccia senza temere alcun attacco. So che mi lasceranno arrivare al loro cospetto; e so che mi ascolteranno. Devono farlo.

Il luogo è sinistro come me lo ero immaginato. Per un attimo mi abbandono alla debolezza di osservarmi in giro per scorgere il ricordo di qualcosa, ma mi accorgo immediatamente della sciocchezza di quel tentato proposito. In pochi istanti incontro le figure alte e immense dei Giganti; prima che sia riuscito a contarli tutti mi rendo conto di essere completamente circondato. Immagino che se solo volessero la mia morte potrebbe essere istantanea.

Pertanto sorrido, non posso farne a meno, quando quella creatura che da adesso in poi mi rifiuterò anche solo di pensare come “padre” ordina ai suoi scagnozzi la più prevedibile delle azioni. È incredibile quanto in quel contesto di tensione e imbarazzo il mio spirito al contrario si abitui a poco a poco a intorpidire la collera e a lasciar scomparire ogni avversione. È sufficiente che io inizi a parlare pronunciando parole di sublime diplomazia che scorrono come acqua su roccia perché possa rinfrancarmi dalla fatica di sostenere il suo sguardo. Sto bene. Anzi, non sono mai stato meglio. Il tempo delle questioni personali è terminato, ora bisogna giungere ad affari di ben altra rilevanza. Non posso permettermi distrazioni di alcun tipo.

Come, dunque, sommo Laufey potresti trattare in maniera tanto scortese chi ha benevolmente permesso a una manciata dei tuoi compagni di infiltrarsi fino alle fondamenta di Asgard? Sarebbe davvero irriconoscente. Esattamente come avevo previsto, l’argomento non può non stuzzicare la tua attenzione. Che sia la volta buona in cui ti osserverò ponderare come un vero sovrano invece che agire come un rozzo? A quanto pare sì, dato che riesco a farmi concedere la parola.

Mi diverte confessare il mio infantile desiderio di vedere mio fratello finire in rovina proprio di fronte a voi, miei orribili progenitori. E noto con piacere che la questione stimola in voi altrettanto interesse. Con piacere, dunque, può iniziare l’esposizione della seconda parte del mio piano, quella a voi dedicata. La stessa che vi condurrà direttamente alla mia mano assassina. La mia capacità di persuasione riesce continuamente a stupirmi, devo ammetterlo. L’attenzione che mostrare alle mie parole mi sazia. Sono qui di fronte a voi a patteggiare nel ruolo di nuovo re di Asgard, già macchiandomi di quella che in molti chiamerebbero una collusione, o peggio, di alto tradimento. Quasi mi spezza il cuore. La riflessione che giustamente ti ascolto fare, re dei Giganti, era la domanda che più di ogni altra stavo aspettando. “Perché?”

Nessuna migliore possibilità per eliminare dalle vostre menti poche evolute il più esile sospetto che io possa venir meno alla mia parola. Insinuare in voi la certezza che io abbia bisogno di tener fede al mio patto è la priorità assoluta. Quindi ti sorrido, ancora una volta, giocando la mia carta vincente attraverso il taglio ironico che mi caratterizza. Suvvia, le trame di corte ordite alle spalle di ignari sovrani ormai in punto di morte sono sempre state il pane di ogni storia e leggenda reale che si rispetti. Cosa potrebbe mai esistere di più vicino alla realtà?

Tu ucciderai mio padre, caro Laufey, e mi renderai re; mentre io restituirò nelle tue mani il potere della tua stirpe che ti è stato così ingiustamente sottratto. Mi sembra un accordo paritario e fin troppo appetibile perché il tuo orgoglio ti costringa a rinunciarvi. Tutto come previsto, anche in questo caso. Infettare col germe della menzogna la mente di questi stolti è stato così semplice da risultarmi quasi imbarazzante. Coltiva dunque bene il mio dono per te, padre immondo, vedrai che spettacolo sarà quando lo vedrai crescere, fiorire, e infine perire sotto la mia mano. La sola idea mi elettrizza e il tuo assenso mi riempie di silenzioso potere. Sono cresciuto nel dominio. Sto cambiando forma ai contorni della mia esistenza. Tutto ciò che verrà da ora in poi sarà finalmente per mano mia. Sto decidendo il mio destino, finalmente consapevole delle mie origini e del mio ruolo. La sensazione di forza e di potenza che si rovescia interiormente in me è così vigorosa da infiammarmi ogni nervo del corpo. Solo un piccolo neo giunge indesiderato a raffreddare questo mio ritrovato entusiasmo non appena rimetto piede nel mio regno: il buon vecchio Heimdall, il guardiano infallibile e dai principi incrollabili. Comprendo bene il tuo senso del dovere e la tua preoccupazione, ma non è proprio questo il momento per mostrare simili sospetti: avrei un piano da portare a termine.

Non ho alcuna intenzione di lasciarti formulare illazioni provocate dalla diffidenza che provi nei miei confronti, e pertanto ti restituisco l’offesa colpendo la dubbia efficacia delle tue prestazioni. È probabile che i tuoi sensi siano in fallo. D’altro canto, perché mai dovresti voler osservare e ascoltare il tuo re nel quale riponi ogni fiducia e al quale hai prestato giuramento? Non ve n’è alcun bisogno. E il modo migliore per mettere a tacere un simile azzardo è senz’altro la sottomissione. Per quanto tu sia potente, Heimdall, e per quanto la tua saggia persona riesca a vedere più in là di qualunque altro asgardiano, resti comunque e pur sempre un suddito di questo regno. E del suo re, che al momento sarei io. Non me ne voglia ricordartene, ma gradirei sentirti pronunciare qui e ora il tuo giuramento di obbedienza a me. Questo dovrebbe tenerti tranquillo almeno per un po’.

Come immaginavo, non sei molto diverso da quei cani che mio fratello teneva come amici. Basta punzecchiare il tuo onore e la tua fedeltà che celere come un fulmine torni a rifugiarti nel tuo guscio di grandi virtù inattaccabili. Fintanto che ciò potrà farti tacere e renderti servile, mi andrà benissimo.  Non ho bisogno di destabilizzatori. Ora meno che mai. Sta’ qui al tuo posto, allora, a fare ciò che hai sempre fatto. Anzi no, mi correggo. Preferisco renderti noto che vorrei non aprissi ad altri il portale, se non a me. Meglio evitare che a qualcuno venga la folle idea di andare ad indagare su Jotunheim o di organizzare una visita a mio fratello, dico bene? Quando il mio piano sarà compiuto e la nascita di un nuovo regno sarà alle porte, allora mi occuperò anche di te, buon Heimdall. Fino ad allora, resterai fedele e al mio servizio nella speranza che la tua mente vivace non si metta a macchinare losche azioni alle mie spalle. Stolti sono tutti coloro che non riescono a vedere nel mio disegno l’unica risorsa utile per risorgere da questo regno di caos e disfacimento nel quale c’è mancato poco che Thor ci scaraventasse completamente. Possibile che nessuno comprenda quanto la mia azione sia necessaria, mai come adesso? Nessuno comprende quanta fatica io debba addossarmi per recuperare al danno di quell’idiota? Ci sarà qualcuno così ragionevole e lungimirante da riconoscermi il merito di tali difficili scelte? Asgard ha bisogno di me. Io ho bisogno di Asgard. Sono certo che non potrebbe esistere unione più felice né necessaria.

Ancora poco e potrò dimostrarlo a tutto il regno, a mia madre, a mio padre. Renderò carne l’idea di un monarca perfetto e meritevole. Concretizzerò gli insegnamenti di mio padre in una splendente effigie dorata. Non manca molto ormai, ci sono quasi. Un ultimo passo e la mia esistenza potrà essere riscattata, capovolta, completamente rivalutata. Mi purificherò dal fango con cui sono stato crudelmente macchiato e allora sì che la risorta fenice potrà levarsi in cielo, in tutta la sua gloria e potenza, come fiamme ardenti nel cielo stellato.

   
 
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