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Autore: MedOrMad    23/09/2012    26 recensioni
Med ha 24 anni e non ne fa una giusta. Porta avanti una relazione di sesso con un soggetto di discutibile fascino, è 2 anni fuori corso ad una facoltà che non ha intenzione di terminare, è sovrappeso ed è pure stronza. O forse è solo socialmente inadeguata.
Ma più di tutto è persa: nella collana di errori che l’hanno portata a questo punto, ha dimenticato chi voleva essere.
Con Med ci sono Bet e Jules, le persone che di lei sanno tutto. Un trio improbabile, con l’eleganza oratoria di un gruppo di scaricatori di porto, che passa la metà del tempo a prendersi in giro e parlare di sesso. L’altra metà del tempo, però, si completano a vicenda.
All’apice della stronzaggine di Med, arriva lui: un po’ arrogante, impiccione e con un’ossessione - a quanto pare - per il grosso culo di lei.
Una storia di affetti, ridicoli avvenimenti, sesso e parolacce: perché a 24 anni la vita è anche quello.
E anche le ciccione, stronze e infelici fanno sesso. A volte.
Dal Testo:
“Che...che...che cosa vuol dire?” balbetto inebetita.
“Vuol dire che da oggi io e te avremo tantissimo tempo per fare l’amore in ogni stanza della casa.” mi risponde lui, facendomi l’occhiolino.
Questo mi manda ancor più fuori di testa.
“Tu sei tutto scemo! Io starò con la Amish che non si lava, non con uno la cui priorità è il proprio pisello!”
Lui mi fissa smarrito e, suppongo, anche un po' divertito.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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IPTT capitolo 11 (10 efp) Do ut des




Per chi avesse domande sulla storia, sui personaggi, sugli sviluppi futuri o che so io, c'è il mio simpatico profilo formspring... http://www.formspring.me/MedOrMad




CAPITOLO 10




Do ut Des




Esiste un confine netto tra la coincidenza e la sfiga prestabilita e programmata da quel simpaticone del Destino? C’è una percentuale di sfortuna che ognuno di noi è costretto a preventivare ogni volta che mette piede fuori di casa? E, soprattutto, c’è una maniera delicata per mandare a quel paese il suddetto Destino senza inimicarselo a vita?

No, perché, seriamente: quante potevano essere le probabilità che, in un mio momento di poca lucidità, quel cretino di L avesse l’ardire di baciarmi di nuovo e che il tutto avvenisse sotto gli occhi sbigottiti del ragazzo su cui ora sono concentrate le mie attenzioni e da cui, da almeno quaranta secondi, non riesco a spostare lo sguardo?

Il mio cuore deve aver iniziato a battere allo stesso ritmo di quando i miei mi chiedono delucidazioni sui miei esami (quindi parecchio, parecchio veloce; al limite del panico) nell’istante in cui ho incrociato le sue orbite blu e sul suo viso ha preso vita un’espressione di totale stupore. All’improvviso è come se tutto l’alcol che ho ingerito fosse affluito alle mie tempie e la mia capacità di vedere in modo nitido fosse venuta meno.

Non riesco a spostare lo sguardo da Alex e dalla sua postura tesa: se ne sta fermo immobile, protetto da un vetro che fa da barriera ai suoi pensieri, ma non alla scena che ha appena avuto luogo. È vestito con una divisa, suppongo da cuoco, nera; in una mano regge una padella e nell’altra un canovaccio: i suoi occhi restano allacciati ai miei e, quando per un istante sposto lo sguardo su una delle sue mani, realizzo che le nocche sono bianche per quanto forte sta stringendo l’oggetto che impugna.

Torno a cercare il suo viso che ora è concentrato sul retro della nuca di L, ed è allora che le mie attività cerebrali si riattivano e mi rendo conto di cosa sta succedendo e, per la seconda volta, capisco di essere una grandissima testa di cazzo (sia per aver bevuto, che per essermi distratta): quel verme di L sta baciando con insistenza il lato del mio collo, assolutamente ignaro di ciò che accade alle sue spalle e dello scambio di sguardi appena avvenuto tra me e Alex.

Sembra davvero troppo preso dal suo tentativo di farmi sapere che, nonostante tutto, io sono territorio suo, per essere cosciente di quanto assente io sia e di dove realmente sia con la mente: da Alex. Perché più i suoi occhi assorbono i movimenti di L contro la mia pelle, più il suo viso si rabbuia e più io mi sento intorpidita.

Questo deve essere uno dei quei sogni surreali in cui lo scopo di Morfeo è quello di farti imbarazzare il più possibile e di farti percepire la situazione con il più alto livello di disagio: come quando sogni di essere a scuola e di non avere le scarpe. E tutti se ne accorgono. O come quando sogni di spogliarti in mezzo al supermercato e sai di avere addosso un paio di mutande orrende, ma non riesci a fermarti. Ecco, questo deve essere uno di quei sogni, per forza, perché la delusione sul volto di Alex è qualcosa che mi sta facendo entrare in uno stato di fortissima ansia.

“Quell’Alex non ti sa baciare così, vero?” mormora L contro la mia pelle, ed io mi risveglio dal mio fottuto stato di incredulità e recupero il controllo della situazione.

L ha veramente passato ogni limite: se non capisce con le buone quale sia il confine che può avvicinare, lo capirà con le cattive.
Il mio coinquilino non si è ancora mosso dalla sua posizione e io vorrei non dover lasciare il suo viso, per paura di rompere una connessione di cui ho bisogno; ma ho seriamente necessità di chiudere definitivamente ogni possibile strascico a cui L si aggrappa e dimostrargli che non gli permetterò mai più di trattarmi come una ridicola pezza da piedi.

Recupero ogni pagliuzza di forza nel mio corpo e la concentro contro le spalle di L, spingendo con rabbia e repulsione.

“Sei un vero coglione.” ringhio, spingendolo lontano da me e lui oppone resistenza, ridacchiando meschinamente di fronte alla mia inferiorità muscolare per poi cercare di aggrappare nuovamente le sue dita attorno ai miei fianchi.

“Che ti prende? Lo sai che lo volevi anche tu.”

Dopo la cazzata della settimana appena proferita dal presente imbecille, lo faccio: quello che ogni donna rancorosa sogna di fare ma che le convenzioni sociali e la morale vietano.

Siccome sono ubriaca, arrabbiata, e ho fretta di raggiungere Alex - oltre al fatto che sono una brutta persona e che le convenzioni sociali mi hanno stancato - io lo faccio: concentrando tutta la rabbia che conservo da tempo nei suoi confronti, lo allontano e, con infinita soddisfazione, gli tiro uno schiaffo.

Bello forte. Di quelli che, spero, lasciano le cinque dita stampate sulle pelle: lui barcolla indietro, sconvolto dalla mia reazione e, massaggiandosi la guancia, mi guarda allibito.

“Sei impazzita?” mi chiede balbettando. Priva di qualunque desiderio di spiegare (per l’ennesima volta) a L perché non lo voglio più nella mia vita, mi limito a sibilargli di starmi lontano e, oltrepassandolo, spalanco la porta a vetri dietro cui Alex - immobile - continua a guardarmi.
Ma L sembra non voler capire l’antifona: cocciuto, mi prende per un gomito, nel tentativo di fermarmi; poi il suo viso incontra quello di Alex e sulle sue labbra prende vita un sorriso vittorioso. I due si fissano, in un silenzioso scambio di parole, mentre Alex aggrotta le sopracciglia, confuso e arrabbiato.
“Vattene...” sibilo un’ultima volta ma L non risponde: i suoi occhi restano incrociati con quelli del mio coinquilino ed è evidente che l’unica cosa che conta in questo momento è la sua erronea convinzione di aver vinto l’inesistente confronto tra loro.

“Falla finita. Hai veramente superato il limite: vai via, ok? E piantala di fare a gara con Alex: se davvero ci fosse competizione, tu perderesti.”

L sposta lo sguardo da me ad Alex; si decide ad allentare la presa e lascia ricadere il mio braccio lungo il fianco. Poi indietreggia, ignorandomi e alzando le braccia in segno di finta resa e si allontana: quel ghigno consapevole sempre stampato sul suo volto ed i suoi occhi ancora su Alex.

Io sospiro, decisamente sconcertata dagli ultimi eventi ma più che decisa a cancellare L dai miei ricordi per concentrarmi su Alex: spingo la porta della cucina, scuotendo il mio coinquilino da quello stato pietrificato in cui era rimasto fino a quell’istante.
“Signorina, mi dispiace, ma non può entrare qui!” mi fa notare un collega di Alex, parandomisi davanti e invitandomi ad uscire con un gesto della mano.

Io ignoro il ragazzo e mi faccio strada dentro la stanza, ma Alex, una volta realizzato il mio intento, si allontana veloce da me ed inizia a muoversi con frenesia tra i fornelli.

Ma io non mollo.
“Alex, non è come sembra...” sussurro alle sue spalle, mentre lui prosegue con abilità nel suo lavoro.

Che frase idiota: ovviamente io non me ne potevo uscire che con una frase inutile come questa.

“Med, devo lavorare.” risponde semplicemente lui, senza guardarmi e portando tutta la sua attenzione su un delizioso risotto ai funghi.

Per qualche istante mi lascio distrarre dalla leccornia e mi domando se sarebbe inopportuno chiederne un assaggio: voglio dire, ha davvero un’aria invitante! Poi mi ricordo che qui c’è in gioco qualcosa di più delle mie golose papille gustative quindi, scuotendo il capo, mi porto alla sua destra e sparo la successiva ovvietà:

“Alex, ti giuro che non è andata come pensi tu.”

Oh, mio Dio: sono veramente patetica! Sono le regina delle ciccione patetiche. Oltre ad essere una vera imbecille e, probabilmente, essermi bruciata ogni occasione con Alex. Le mie sorelle sovrappeso mi rinnegherebbero a vita e mi caccerebbero dal club Solo per taglie forti.

“Med, io non penso niente. Ora vattene. Non ho tempo per te o per queste cose, adesso.” ribatte aggressivo, mescolando rabbiosamente il risotto e allontanandosi da me di qualche passo: e più si sposta, più mi convinco che non posso uscire di qui prima di avergli spiegato.

Non so perché è così importante che mi ascolti, ma poco conta.

“Signorina, per favore, devo chiederle di uscire...” incalza il ragazzo di prima, distraendomi dal mio complicatissimo compito di chiarire la mia posizione, ma io continuo a fingere di non sentirlo.<

“Alex, cazzo, fermati un secondo. Devi starmi a sentire.” insisto continuando a muovermi dietro di lui, incurante degli occhi dei suoi colleghi fissi su di noi.

Alle figure di merda ci sono abituata.

“Io non ti devo niente. Onestamente, non me ne frega nulla di quello che hai da dire.” rilancia, voltandosi di scatto verso di me ed i suoi occhi sono gelidi. Gli stessi occhi che di solito sembrano scintillare, ora paiono di vetro.

Ho fatto una... No! L ha fatto una cazzata!

“Che vuoi dire?” chiedo io tentennante.
Il silenzio che segue è completamente intriso del suo rancore, ma non è assolutamente sufficiente a prepararmi alla risposta che lo rompe poco dopo:

“Voglio dire che voglio che tu esca da quella porta, ok? Non ho tempo di stare a sentire quello che vuoi dirmi. Sei libera di fare quello che ti pare della tua vita. Avrei dovuto capirlo prima che ti avevo sopravvalutata.”

Le sue parole tagliano come rasoi. Sono volutamente cattive ma, cercando nei suoi occhi, spero di trovare un segno che mi faccia capire che non pensa davvero quello che ha detto. Al mio primo tentativo di incontrare le sue iridi, Alex abbassa il viso e riprende a lavorare con frenesia.
“Ti sbagli...”

“Ti chiederei di dimostrarmelo, ma non è questo il momento.” risponde secco, lasciando andare gli strumenti che impugnava e voltandosi verso di me così in fretta che mi ritrovo a indietreggiare di un passo; le sue mani si stringono in due pugni pieni di astio e i suoi occhi evitano i miei, optando per fermarsi sulle mie labbra.

Tento il tutto per tutto, consapevole del rischio che corro, appoggiando una mano sul collo: tutto il suo corpo si irrigidisce al contatto, ma riesco a costringerlo a guardarmi e, soprattutto, lui non si ritrae.
I suoi occhi, intensi più che mai, collidono con i miei, e sono carichi di rabbia, incertezza, disapprovazione.

“Perché non mi hai detto che lavoravi qui?“ gli mormoro piano mentre, con una eccessiva dose di audacia, lascio scivolare due dita tra i capelli sulla parte bassa della nuca.

Se si incazza, mi arriva un ceffone come quello che ho appena tirato io a L; e me lo meriterei tutto. Se scherzi col fuoco, sentirai odore di pollo bruciato perché ti sarai incenerito i peli delle braccia. È scientificamente provato.

Per qualche ragione, però, lui non reagisce al mio azzardo, molto più interessato a sottolineare quanto inopportuna sia la mia domanda.

“Credi davvero sia questo il momento di parlarne?” chiede quindi scettico, esternando il suo dissenso per la mia curiosità con una risatina incredula.

Unitevi a me, oh gente, nell’applauso alla mia stupidità. Sto peggiorando la mia situazione ad ogni frase proferita e, guardandolo in faccia, sento un nodo formarmisi in gola: cosa diavolo sto facendo?

“No, hai ragione, non lo è. Ti lascio lavorare, ma promettimi che quando torniamo a casa mi lascerai parlare.”
“Med, non mi devi dire nulla. Io non sono il tuo ragazzo.”

Nella sua voce si percepisce solo irritazione e la tensione che ha irrigidito ogni muscolo del suo collo è viva sotto il palmo della mia mano:

“Lo so, ma voglio che ne parliamo.” ribatto impedendogli di distogliere lo sguardo da me.
I suoi occhi blu, scuri per la rabbia e per il carico emotivo che li adorna, scrutano i miei per pochi attimi e so che lo sta facendo di nuovo: cerca ancora di leggermi dentro ma io, questa volta, non pongo barriere. Lascio che cerchi le risposte che vuole.
Poi, da un secondo all’altro, rompendo il pesante silenzio con un rapido “ok”, cerca di voltare la testa e di liberarsi della mia mano che ancora giace appoggiata sul lato del suo collo.

“Alex, non sei in pausa. Torna a lavorare!” urla una voce alle mie spalle. Scosso dall’ordine, si libera della mia presa e si concentra sul suo risotto.
“Sei arrabbiato?” mi trovo a bisbigliare, sicura che qualunque risposta non sarà quella che avrei voluto.

Perché se dicesse sì, mi sentirei in colpa per averlo deluso e perché, per una sciocchezza, ho rovinato qualcosa che doveva ancora nascere. E se dicesse no, sarebbe ancora peggio: vorrebbe dire che non gli importa, che non c’era alcuna possibilità che nascesse qualcosa e che sto facendo solo la figura dell’idiota.

“No.” risponde secco, ma non mi guarda mentre lo dice.

Tac! Ovviamente... Però la sua voce lascia trapelare esattamente il contrario: e, poiché sono di natura una a cui piace illudersi, sceglierò di credere che ha mentito e che c’è ancora qualcosa che posso fare.

“Alex, guardami!” gli ordino piano. Ma lui non lo fa.
“... per favore” supplico un’ultima volta.

Ruota per un secondo il viso verso di me, aggrotta la fronte sorpreso e mi chiede.
“Sei ubriaca?” Io arrossisco per l’imbarazzo ed annuisco.
“Abbastanza. Anzi, parecchio direi.”

Lui scuote la testa, credo in un gesto di disapprovazione, ma, conoscendolo, potrebbe anche essere per divertimento.
Cerco di sussurrare il suo nome ancora una volta, ma lui mi blocca.
“Ti prego, Med, lascia stare, ok? Ho un sacco di lavoro da fare e tu non dovresti essere qui. Mi metterai nei casini...”

“Ehi, San Francisco, se ci tieni a mantenere il tuo posto di lavoro, chiedi cortesemente alla signorina di uscire e rimboccati le maniche, o puoi anche non scomodarti a tornare domani.” strilla la stessa voce autoritaria di prima alle mie spalle e la cosa allarma incredibilmente il mio coinquilino che, d’un tratto, assume una postura preoccupata e di subordinazione.

“Hai sentito? Te lo chiedo per favore, vattene.” sussurra, distogliendo l’attenzione da me e regalando il suo sguardo ad una pentola fumante di risotto. 
“Ok, scusami.... mi dispiace” bisbiglio, lasciando andare il suo braccio e voltandomi.

Fatto il primo passo, sento la sua mano afferrare le mie dita e, con uno strattone veloce ma delicato, voltarmi nuovamente verso di lui.

“Ci vediamo a casa” sussurra guardandomi negli occhi, con uno sguardo che non so decifrare “E, sì Med, sono arrabbiato. Ora vai...” conclude, lasciando cadere la mia mano e dandomi le spalle.
Mentre mi avvio fuori dalla cucina, sono consapevole delle occhiate confuse e curiose che i colleghi di Alex mi lanciano furtivamente, ma non mi importa.

Appoggio entrambi i palmi sul vetro della porta e spingo, lasciando un Alex infuriato, mille domande, nessuna risposta e tante parole soffocate, alle mie spalle.

Non posso restare un minuto di più e non voglio rischiare di finire di nuovo in qualche situazione assurda con L; sono ancora ubriaca e non ho più le forze di proseguire con una serata che avevo predetto sarebbe stata difficile, ma che non potevo immaginare sarebbe andata così male.
Cercando di barcollare il meno possibile torno al tavolo dai miei amici per raccogliere la mia roba e lasciare i soldi: i loro sguardi interrogativi si piantano tutti sul mio viso ma il mio bisogno di fuggire da lì è più forte di qualunque altra cosa.

Bisbiglio a Bet e Jules che racconterò tutto domani, ma che ora me ne devo davvero andare e gli occhi irritati di Leo sfrecciano sul mio viso nuovamente: strike 2, Med.

Se c’è una cosa che ha sempre creato problemi tra me e Leo, è la mia tendenza a tenere tutto dentro finché non scoppio: è un atteggiamento che lui ritiene inutilmente doloroso e potenzialmente deleterio per i rapporti.

Ha ragione, ma a me non è mai importato più di tanto: stasera mi interessa ancora meno. Il mio amico dovrà conservare l’ira per quando sarò sobria e, soprattutto, quando non avrò un L che mi fissa soddisfatto e il pensiero degli occhi gelidi di Alex stampato in testa.

“Ma come pensi di tornare a casa?” chiede preoccupata Jules mentre io mi infilo il cappotto in modo goffo e stringo tra i denti il manico dell’unica pochette che posseggo.
“Prendo un taxi. Prometto che vi spiegherò tutto: ora però ho davvero bisogno di andare via di qui...” mi limito ad asserire dopo aver dato un bacio veloce ad ognuno di loro e dirigendomi velocemente verso l’uscita.

Appena metto piede fuori dal locale il mio cellulare suona, avvisandomi dell’arrivo di un sms di Bet che, allegando una faccina preoccupata, chiede cosa diavolo mi è preso e se lei e Jules mi devono seguire. Rispondo con un telegrafico “No, tranquille. Ho solo bisogno di stare da sola, ma grazie!” per poi dedicarmi all’impresa di fermare un taxi: venti minuti più tardi mi trovo sul sedile posteriore di una macchina che puzza di fumo di sigaretta, mentre un simpatico autista croato - che è sposato con tre figli, a suo dire e che mi invita ad andare in vacanza nel suo splendido paese l’estate prossima - mi racconta di quanto bravo sia a scuola il suo secondogenito.

Io sorrido come una marionetta ad ogni sua affermazione ma, in realtà, l’unica cosa che faccio è ripensare ad Alex e chiedermi perché, all’improvviso, è così importante per me che lui capisca cosa è successo. Perché dopo quel bacio il mio coinquilino è passato dal podio della lista di quelli che mi stanno sulle palle, al primo posto di quella di ragazzi con cui vorrei stare?

E più ci penso, più credo che Jules abbia ragione: Alex mi è sempre piaciuto. Il suo stupido modo di flirtare mi irritava perché mi piaceva: perché mi lusingava e perché, per una volta, sentivo che le attenzioni di qualcuno nei miei confronti erano genuine. E, per una come me, la cosa era talmente surreale che non potevo fare altro che risentirmi nei suoi confronti: perché aveva invaso il mio spazio vitale; perché si era insinuato nella mia quotidianità con naturalezza; perché quando discutevo con lui mi dimenticavo che avevo un grosso nodo in fondo allo stomaco che da sei mesi mi divorava; perché lui era un bel ragazzo e i bei ragazzi non flirtano con le ragazze stronze e col sedere grosso.

Mi irritava perché non era il ragazzo perfetto e dolce per cui avrei dovuto perdere la testa nelle mie recondite fantasie: era un frizzante ventottenne che si divertiva a provocarmi e che se ne usciva con frasi inopportune, che non si faceva problemi a invadere la privacy altrui (ricordiamo il problema cacca) e che si faceva i fatti miei senza raccontare assolutamente nulla di sé. Non era ciò che sognavo quindi, per questo stesso motivo, era proprio quello che volevo.

Che voglio.

Perché è reale.
Perché è imperfetto.
Perché è genuino.
Perché è Alex.

Non ho un’idea precisa di quanto tempo ho passeggiato distrattamente per il quartiere dopo che mi sono fatta lasciare all’angolo di casa mia dal taxista (combattendo con un fortissimo desiderio di fumarmi un intero pacchetto di sigarette), prima di ritrovarmi sotto casa ma, guardando lo schermo del cellulare, vedo che è passata l’una di notte e sono certa che, ormai, anche Alex sarà a casa.
Con l’ansia che sale, apro il portone del palazzo e mi trascino con cautela su per le scale con la tensione che si accumula nel mio corpo, mano a mano che mi avvicino al mio appartamento: arrivata al terzo piano mi faccio coraggio e mi avvicino alla porta.

Poi, a conferma di quanto codarda realmente io sia, appoggio un orecchio contro il legno per cercare di capire se il mio coinquilino è dentro e, con mio stupore, sento Alex gridare in inglese:

“That’s not why we are talking. This has nothing to do with me.... No, I’m not asking, I’m telling you...” poi una pausa breve, prima che la sua voce torni a riempire il silenzio.

“Well, I appreciate the interest and I don’t mean to be rude, but this is none of your business... No, no, I don’t care what Adam told you. He wasn’t supposed to say anything and I really don’t know what you expect me to do... I don’t wanna discuss that with you, for God’s sake! No, dad, don’t put her on the phone I really don’t... dad? Dad?! Damn!”

La curiosità inizia a farsi insopportabile mano a mano che le proteste di Alex proseguono e, quando rivela che il suo interlocutore è il padre, mi ritrovo a spiaccicarmi come una platessa contro la porta, nel tentativo di non farmi sfuggire neppure una parola. I genitori di Alex sono ancora svegli all’una di notte? I miei sono in fase di mummificazione a quest’ora, ne sono certa.

“Hi yeah, no, everything is fine. No, mom, I’m sorry but I don’t need this: I’m 28 and I can take care of myself.”

Beato lui.

“I’m not discussing this kind of things with you guys... I did! Well, it obviously didn’t work out or we wouldn’t be having this conversation. I... maybe Adam should pay more attention to his own problem and keep his nose out of my business... Are you kidding me? You seriously don’t know what his problem is? That’s amazing... Ok, well--”

Il mio coinquilino si interrompe di colpo nel momento in cui io infilo la chiave nella serratura; poi lo sento tagliare la telefonata e abbassare il tono della voce.

“Listen, I’ve gotta go now. Thanks for asking but, like I said, I’m a grown ass man, I can handle my business.”

Conclusa la telefonata, l’appartamento cade nel silenzio più totale e io ripeto nella mia testa le parole che ho appena sentito dire da Alex.

Dunque: litigava con i genitori perché sembravano chiedere spiegazioni su qualcosa che un certo Adam gli aveva riferito. Apparentemente qualche problema personale di Alex che, però, pare pensare che il suddetto Adam dovrebbe preoccuparsi di più del suo problema e tenere il naso fuori dagli affari suoi. In conclusione Alex ringraziava, si fa per dire, per l’interessamento ma rifiutava un aiuto perché sostiene di avere ventotto anni e potersi occupare da solo dei propri affari.

Perfetto: non ho capito assolutamente nulla e ora sono divorata dalla curiosità.

Scuoto la testa. Per quanto mi sforzi di capire la conversazione, continua a non avere senso. È inutile provarci.

Aspetto ancora qualche secondo fuori dalla porta: un po’ per concedere ad Alex il tempo di ricomporsi, e un po’ perché ho una paura fottuta di affrontarlo.

Come ho fatto a creare tutto questo casino?

Sospiro e faccio ruotare la chiave nella toppa. Basta tergiversare.
Spingo piano contro il legno della porta e, silenziosamente, mi faccio strada dentro il nostro appartamento.
Quando raggiungo il salotto, l’immagine che mi si presenta davanti agli occhi crea un nodo di tristezza nel mio stomaco.
La stanza è immersa nella penombra, illuminata solo dalla luce dei faretti della cucina: il cellulare di Alex è appoggiato sul tavolino e si illumina ad intermittenza, segnalando una chiamata in arrivo.

Una chiamata a cui lui non sembra essere intenzionato a rispondere.

Il mio coinquilino è seduto sul bordo del divano e mi dà le spalle: i palmi delle sue mani sono premuti contro gli occhi, quasi cercasse di nascondersi dal mondo; la testa china e le spalle basse, come se si fossero lasciate andare sotto il peso che le opprimeva. Ha addosso un paio di jeans e una maglia a maniche lunghe nera: ai miei occhi sembra estremamente vulnerabile, ma intimidatorio allo stesso tempo.

Non so se si è accorto della mia presenza nella stanza, ma se l’ha fatto, sembra che la cosa non lo tocchi perché non si muove dalla sua posizione: rimane zitto e fermo, intrappolato in non so quale spirale di pensieri.
Aggiro il divano e mi fermo in piedi di fronte a lui; poi gli sfioro i capelli e la sua reazione mi sconvolge: si ritrae all’istante dal mio tocco, si alza in piedi velocemente e, in un battito di ciglia, è dall’altra parte della stanza.

Io mi volto verso di lui e incontro i suoi occhi: sono così scuri da sembrare quasi neri e il suo sguardo equivale a un centinaio di lame conficcate nel petto.

“Ce ne hai messo di tempo. Immagino la tua serata si sia conclusa nel migliore dei modi.”

Io ignoro la sua domanda, piena di sarcasmo e cattiveria, e domando:
“Stai bene? Che è successo?”
“Non sono affari tuoi.” sputa lui, lanciandomi l’occhiata più crudele che abbia mai visto sul suo viso.
“Alex...”
“No, stanne fuori, Med. Fatti i cazzi tuoi, ok?”
Io resto quasi inebetita dalla potenza del suo tono; Alex non mi ha parlato così ed io non so cosa rispondere.

Deglutisco a fatica e abbasso il volto: normalmente arriverebbero le sue scuse per come mi ha riposto, ma nessuna sillaba lascia la fessura tra le sue labbra.
“Credevo dovessimo parlare...”
“E invece ho cambiato idea. Ho deciso che non ne vali la pena, Med.” ringhia senza spostare gli occhi da me.

A questa frase il mio viso scatta in su e non riesco a controllarmi. Attraverso il salotto a lunghi passi e mi posiziono di fronte a lui, cercando nei suoi occhi. Che cosa di preciso non lo so, ma almeno qualcosa che mi suggerisca che non sta dicendo sul serio.

Ma non trovo nulla al di fuori della rabbia.

“Che cazzo ti è preso?!” bisbiglio appoggiando una mano sul suo braccio.
“Non toccarmi, Med.” ribatte lui scrollandosela di dosso.

Il fatto che continui a ripetere il mio nome, non so perché, ma rende le sue parole ancora più cattive. Forse perché inconsciamente avrei voluto credere che tutta questa rabbia non fosse rivolta davvero verso di me.
Io lo fisso e prendo un sospiro vibrante: i suoi occhi si addolciscono un po’ e mi illudo che, a breve, le sue labbra sussurreranno un sottile “mi dispiace”.

Ma quelle parole non arrivano; al loro posto ne escono invece alcune che mi distruggono.

“Devo complimentarmi per la performance?”
 E allora resto davvero a corto di risposte.

Come si controbatte ad una frase simile?

A questo punto il silenzio diventa troppo pesante, faccio un passo indietro, mi volto e, lentamente, mi dirigo verso la mia camera.
“Dove pensi di andare?”

È pazzo. Sono certa che converrete con me che è fuori come un balcone.

Io mi blocco nuovamente perché, a questo punto, l’orgoglio ha la meglio. Devo per forza essermi persa un passaggio, perché non c’è nulla che io riesca a trovare che possa spiegare la crudeltà che si è impossessata di Alex.

“Che vuoi che ti dica?” gli chiedo sospirando spazientita e ancora stupita dal suo modo di affrontare la cosa.
“Voglio che mi dici se ti è piaciuto. Voglio sapere se hai così poco rispetto per te stessa da provare piacere nel farti sbattere da uno che si è approfittato di te per anni e nel frattempo si divertiva a giocare al dottore con mezza città. Voglio che mi dici perché nel mio cervello era giusto starti lontano per non rischiare di complicarci ancora di più la vita o ferirci. Voglio sapere perché alla fine invece mi hai dimostrato che sei solo senza morale e che non ha un briciolo di amor proprio.” mi urla in faccia, pietrificandomi.

“Mi stai dando della puttana?”
“L’hai detto tu, non io...”

E le sue parole sono così taglienti che il mio cervello non riesce a formulare nessuna risposta se non un patetico:
“Avevi detto che mi avresti lasciato parlare.”
“Le parole sono sopravvalutate, Med. Quello che conta sono i fatti. E i fatti mi dicono che la stronza sei tu, e quello ferito sono io.” conclude lui voltandosi e allontanandosi da me.

Poi lo vedo raccogliere la giacca dal bancone della cucina ed estrarre il suo mazzo di chiavi, prima di raggiungere l’entrata di casa a lunghi passi e abbassare la maniglia.

“Ma dove vai?!” domando alzando la voce, ma il mio quesito resta senza risposta: l’unico rumore che segue le mie parole è quello della porta che sbatte quando lui esce.

Ed io mi ritrovo sola in mezzo al salotto, nel silenzio di questo appartamento che, all’improvviso, sembra enorme e terribilmente freddo: resto imbambolata al centro della stanza per non so quanto tempo, convinta che, da un momento all’altro, il gemello buono di quell’Alex con cui ho appena litigato (non si sa bene neanche perché, visto che fino a prova contraria io e lui non stiamo insieme; il che dovrebbe ridimensionare ogni tipo di sceneggiata che uno può fare all’altro) rispunti da dietro la porta e mi dica che mi stava prendendo per il culo.

E invece nulla di tutto ciò succede: due ore dopo mi infilo sconsolata il mio pigiamotto e sguscio sotto le coperte, sicura che il mattino seguente lui si sarà calmato (e avrà preso delle medicine per quel suo evidente disturbo psicologico!) e potremo parlare civilmente.


Take a break

SI INVITA IL GENTILE LETTORE AD ALLONTANARSI DAL PC E INSERIRE UNA MASSICCIA DOSE DI CAFFEINA O TEINA NEL PROPRIO ORGANISMO: LA STRADA VERSO LA FINE DEL CAPITOLO è ANCORA LUNGA.


Ma anche la mia seconda ipotesi viene confutata: al mio risveglio la casa è esattamente come l’avevo lasciata la notte prima e di Alex non c’è alcuna traccia.
La porta della sua stanza è spalancata: dopo essermi avvicinata con un’aria un po’ sconsolata, mi appoggio allo stipite della porta, decidendo che può andare a farsi benedire e che non aveva alcun diritto di trattarmi in quel modo.

Dunque, con l’eleganza che mi contraddistingue da sempre, mi spingo lontana dalla porta e mando a ‘fanculo la stanza di Alex con il terzo dito: e mi sento subito incredibilmente meglio.
Mi dedicherò a questo rito più volte durante la giornata odierna, fino al ritorno di quel troglodita.

Poi, sollevata, mi abbandono ad una serie di insulti più che leciti nei confronti sia di L che di Alex, facendo colazione in conference call su Skype con Bet e Jules, per aggiornarle come si deve sui fatti della sera precedente.

Bet avanza l’ipotesi di denunciare L per molestie sessuali; poi però ritratta perché dice che, avendolo schiaffeggiato, se lo provocassi rischierei una querela per percosse. Io, con la bocca stracolma di plum cake inzuppato di caffè (plum cake di Alex, si intende: il furto di cibo fa sempre parte della mia vendetta, insieme al dito medio verso la stanza), domando:

“Scusa, ma la legittima difesa?”
“Sei più grossa di lui: non ti crederebbe nessuno.” risponde lei prima di imprecare perché, come ogni santa mattina, ha immerso troppo a lungo il biscotto nel caffellatte e le è ricascato nella tazza.
“Che stronza, Bet!” la apostrofa Jules masticando i suoi special K e dichiarando estasiata:
“Io sono troppo felice di tutta questa storia!”
“Ma che... Jules, ma vai a farti benedire!”
“No, cioè, mi dispiace che tu abbia dovuto tollerare la lingua di L nella tua bocca e mi rammarico che tu abbia visto svanire il pisello di Alex...”
“... così, da davanti al naso...” incalza Bet, ridendo.
“... insomma, ce l’avevi in pugno!” conclude Jules mentre io osservo indifferente lo schermo del pc.

“Aveva il pisello di Alex in pugno?!” urla Bet euforica e stupita “Ma quando l’ha detto? Me lo sono persa!”

“Non ho mai avuto il pisello di Alex in pugno, bionda stupida!” mi intrometto per un attimo, prendendo un secondo plum cake e fissandolo con aria minacciosa: ne mangerei un altro solo per rendere la mia vendetta più realistica. Poi, però, Jules ricomincia a parlare e io mi distraggo dai miei intenti criminali:

“Testa di gallina! Parlavo in senso metaforico! Comunque, sono molto contenta perché Alex è chiaramente pazzo e io posso fare una tesi su di lui!”

Da quel momento in poi il delirio ha la meglio su qualunque auspicabile parvenza di senso; per più di un’ora me ne sto in pigiama a ridere con le mie diversamente intelligenti migliori amiche.
Quando le saluto, però, il silenzio della casa torna a farsi sentire freddo e costante: credo che oggi potrebbe essere una giornata no.

Osservo la mia immagine riflessa nel vetro del forno e, come un vera cretina, mi faccio una domanda che, ad alta voce, non mi sono mai rivolta:

“Med, ma che cos’hai? Che c’è che non va?”

Ma il mio riflesso non parla: resta zitto a fissarmi e aver sentito quelle parole pronunciate dalla mia voce, è stata una delle cose più brutte degli ultimi sei mesi.

Certe volte me ne sto sdraiata sul divano, con un libro appoggiato sulla pancia, a pensare. E in quei momenti mi rendo conto di quanto la vita non aspetti nessuno. Di quanto i piccoli e grandi problemi che ci affliggono siano irrilevanti nello scorrere dei giorni. La giostra del tempo non si ferma solo perché noi vorremmo trovare il pulsante per farla smettere di girare, anche solo per un attimo.
E quello che più ti lacera è la presa di coscienza che, attorno a te, le persone continuano a muoversi, al passo giusto, al ritmo che le lancette dell’orologio battono, camminando sui nastri della quotidianità che conoscono e che hanno, con fatica, costruito.

Mentre tu te ne stai fermo, nel piccolo buco che il peso della tua inadeguatezza ha creato, osservandoli. E la tua mente non lavora. Il tuo corpo non collabora. La tua anima non respira più come tu vorresti. Il tuo cuore batte al tempo sbagliato. La tua voce non si sente, perché il frastuono del mondo è troppo forte, e il soffio del tuo grido di aiuto, troppo silenzioso e incomprensibile.
E allora resti immobile, sentendo un male dentro che cresce, vedendo i treni di quelli che ami, correre lungo i loro binari, e gli occhi di chi ha vissuto accanto a te voltarsi indietro ogni tanto per guardarti con aria interrogativa, senza capire perché il tuo vagone si è fermato.

Il mio flusso di riflessione viene interrotto dal suono del campanello della porta. Sospiro grata e contraggo i muscoli, sollevandomi dalla fossetta che il mio corpo ha creato sul divano e dirigendomi verso la porta.
Aprendola vengo salutata dagli occhi azzurri e consapevoli di un amico che, proseguendo sulle rotaie della sua vita, non ha capito perché io abbia smesso di viaggiare.
“Oh, ciao Leo.”
“Posso entrare?” domanda lui con aria seria.
“Certo, vieni.”
La mia voce è incerta e, aprendo di più l’entrata per fargli spazio, mi chiedo se voglio davvero parlare con lui.
Il mio amico si fa strada nel mio appartamento senza ostacoli e poi, in silenzio, si siede sul divano.

Da quell’istante si crea una strana atmosfera: tesa e inusuale per me e Leo.

“Allora, che succede?” dico, tentando di rompere un ghiaccio che non so come si sia formato.
Lui si sfrega i palmi l’uno contro l’altro e appoggia i gomiti sopra le ginocchia, cercando le parole giuste, ma dalla sua bocca escono solo una serie strana di formalità che appesantiscono ancora di più l’aria.
Leo continua ad evitare il mio viso e a far ruotare la testa, fingendo di osservare gli oggetti attorno a noi, come se questa casa gli fosse estranea.

Tace.

“Leo?” lo richiamo all’attenzione e lui si volta verso di me.
“Mmm?”
“Che sei venuto a fare qui?”

“Oh, scusa, ti ho disturbato? Non ci ho pensato. Io...” accenna ad alzarsi in piedi.
“Leo finiscila! Perché ti comporti così? Perché sei così teso?”

“Ok, hai ragione. Non so di preciso perché sono qui. È solo che io...ecco insomma....” balbetta, cercando la frase giusta e, dopo vari tentativi, sembra trovare il coraggio di buttare fuori il peso che lo schiaccia:

“Mi dispiace per ieri sera.”

Io lo fisso sbigottita e confusa: non sono sicura di sapere se si sta scusando per quello che mi ha detto o per altro, ma Leo raramente si scusa, anche quando ha torto; quando lo fa in genere si tratta di un problema che lui considera grave e questa cosa manda in cortocircuito i miei sistemi di difesa.

“Per cosa?”
“Per quello che ti ho detto. Sì, insomma, per averti accusata di avere troppi argomenti tabù” mi spiega guardandomi negli occhi; il mio disagio si manifesta in un insistente tic di ostinata tortura dell’unghia del pollice. No, non la mangio: io la mordicchio fino allo sfinimento; compio un’opera di assottigliamento per usura e la cosa mi rilassa molto più di quanto un morso netto potrebbe mai fare.

“E’ solo che certe volte è frustrante: basta una parola sbagliata e tu scatti.” continua, nella speranza di ricevere un segno da me.

Ma io mi sento improvvisamente inadeguata e mi vergogno per averlo costretto ad arrivare a questo punto: perché avrei dovuto aprirmi con lui come ho cercato di fare con Bet e Jules. Ma la cruda verità è che di Leo io avevo paura. E imbarazzo. Profondo e semplice imbarazzo.

Il mio amico è una persona pratica: non si sofferma su lunghe introspezioni logoranti, non l’ha mai fatto. Il ruolo dell’analisi è sempre spettato a me; io sega-mentalizzavo, lui ideava il piano d’attacco.

Ora: è risaputo che, quando si tratta di problemi degli altri, siamo tutti dei gran fenomeni. Parliamo con cognizione di causa, usiamo un occhio critico e razionale, diamo consigli ponderati e su misura per l’amico di turno: è una scienza collaudata e lo scoprirci così maturi e così arguti e sensibili ci inorgoglisce in modo schifoso.

Ma siamo dei falsi smisurati: o meglio, il consiglio lo diamo sempre col cuore ma, e non provate neppure a negarlo, usiamo costantemente due pesi e due misure quando poi si tratta di noi.
Tanto per cominciare, diveniamo dei sottosviluppati mentali al punto che non siamo più neppure in grado di prendere le decisioni più scontate; poi, allorché ci trovassimo ad affrontare un evento simile a quello per cui abbiamo dato un suggerimento ad altri in passato, d’un tratto, chissà perché, quello stesso consiglio per noi “non andrà bene”.

E, infine, chicca di superlativa dimostrazione di errata percezione, c’è la drammatizzazione; l’incremento del vittimismo e della gravità: noi soffriamo e ci torturiamo molto di più perché, ovviamente, il nostro problema è molto più grave. Dunque, siamo ampiamente legittimati a gongolarci nell’autocommiserazione e non ci è più possibile usare i due neuroni che abbiamo per razionalizzare.

Sto generalizzando? Sì. Sto attribuendo a tutti l’atteggiamento di pochi? Forse. Sono più che certa che, in qualche misura, questa teoria si applichi a chiunque? Assolutamente sì.

Capirete, di conseguenza che, quando la consigliera ero io e Leo era il soggetto con quesito a cui trovare la risposta, la mia analisi dei fatti era puntuale e profonda: e lui agiva di conseguenza. Processo rapido e, per me, anche indolore, direi.

Ma, con l’inversione di ruoli, si è invertita anche la mia capacità oratoria e, piuttosto di risultare patetica ai suoi occhi, ho taciuto.

Sì, è vero, ho sperato di farla franca e che la sua sensibilità da mandria di gnù impazzita gli impedisse di percepire la realtà dei fatti: beh, ho fallito e il mio amico è più scaltro del previsto.

Mi alzo dalla mia posizione sulla poltrona e mi dirigo verso la cucina, senza proferire risposta.
“Med...” si lamenta lui, vedendo la mia reazione.
“Leo, non fa niente, davvero. Tranquillo. Va tutto bene. Io sto bene.” ribatto dandogli le spalle.
“No Med, non va tutto bene. Io sono stato sgarbato ma, porca vacca, non riesco più a capirti.”

“Che vorresti dire?” chiedo indignata, ma in realtà so da dove vengono le sue parole, e non lo posso biasimare. Io sono cambiata negli ultimi mesi, e non certo in meglio.
“Che non so più chi sei. Non ti capisco. Non capisco come ci si deve comportare con te. Non so se sei diventata una stronza a cui non frega più nulla dei suoi amici, o se...se....vedi? Non ho neppure un’alternativa. Non so più nulla.”

“Va tutto bene, è solo un periodo un po’ così. Ho avuto da fare, non mi sono sentita bene e..” cerco di giustificarmi io, accampando scuse banali.
“E cosa, Med? Sono mesi che vai avanti con queste cazzate. Sempre e solo scuse. Quando ti fai vedere sembra che non ti importi più di nulla. Ed è evidente che non te ne fotte niente se sei con noi oppure no!” mi ferma lui, alzando la voce e appoggiando entrambe le mani sul bancone della cucina.

“Leo, non è come pensi.”
“E allora dimmelo tu com’è! Dimmi che ti passa per la testa, Med! Quando è successo che hai smesso di fidarti di me? Non mi parli più. Perché non mi racconti più della tua vita? Che cosa è cambiato?” incalza lui, cercando di spingermi ad aprirmi.

Ed è in quel preciso istante che realizzo che i miei amici non hanno capito. Non hanno visto. Non hanno percepito che stavo sprofondando in qualcosa che, ancora oggi, non so classificare. E quello che più mi spiazza è che non so se è colpa mia o loro. Non so se mi sono inconsciamente chiusa troppo, bloccando i cancelli della mia mente e del mio cuore ai miei amici, o se sono stati loro troppo ciechi per notare cosa stava succedendo.

No, non è vero: so che sono entrambe le opzioni. Le cose si fanno in due: io ho fatto il riccio e loro hanno evitato di andare in profondità. Hanno evitato: però ora Leo ci sta andando in profondità.

“Ti sbagli, io non ho mai smesso di fidarmi di te. Insomma, sei il mio migliore amico!”
“Oh, alla faccia del migliore amico!” ribatte lui, innervosito. “Così migliore che non sa nemmeno che diavolo è successo nella tua vita negli ultimi sei mesi.”

Io abbasso lo sguardo, colpevole.

“Parlami cazzo. Rispondimi. Io so di non avere un carattere facile, di non essere l’amico affettuoso o che se ne esce con frasi poetiche e perle di saggezza profonde. Ma tu sai come parlo. Tu sai che nelle mie risposte scherzose cerco sempre di darti una mano.” mi dice stanco e arreso.
“Non so cosa vuoi sentirti dire...”

“Voglio sapere che cosa ti è successo, perché questa nuova versione di te non la capisco, e, ad essere sincero, non mi piace affatto.” sentenzia lui, spazientito.

Io alzo il viso di scatto alle sue parole e realizzo che sta mollando. Sta dicendo che non ha più intenzione di provare a capirmi, che non ne può più e che rinuncia. Sta dando voce alla mia più grossa paura: quella di perdere i miei amici per quello che mi sta succedendo.
“Dici sul serio?” mormoro timorosa.

“Sì, Med, dico sul serio. Io ci ho provato in tutti i modi, te lo giuro. Ho provato a mandare giù la rabbia che sentivo salire ogni volta che inventavi una balla per non uscire. Ho cercato di non volerti prendere a calci tutte le volte che ti facevi vedere e che ponevi veti su ogni conversazione. Ti assicuro che mi sono sforzato di accettare questa nuova Med; che ho detto a me stesso che mi sbagliavo. Ma la verità dei fatti è che tu mi hai allontanato e io sono stanco di fingere che tutto vada bene, che tu sia la stessa persona di un anno fa.”

Le sue parole sono pungenti; sono esattamente le parole che ho temuto di sentirmi dire per mesi e che sapevo sarebbero prima o poi arrivate. I suoi occhi mi fissano potenti, mentre attende che io dia una risposta a tutte le sue domande: scrutando dentro quegli occhi chiari sento la rabbia salirmi al cervello.

“Quindi tutte le colpe sono mie?” e la mia accusa sembra stupirlo terribilmente.
“Che vorresti dire?”
“Ti sei accorto che ho qualcosa che non va, giusto? E allora perché non hai fatto nulla? Sono la tua migliore amica, eppure non mi sembra che il mio telefono abbia squillato miliardi di volte e che il mio amico abbia cercato di capire che stava succedendo...”

Dio, io non sono capace di chiedere aiuto, e questa è una mia colpa. Ma lui lo dovrebbe sapere: eppure è qui a farmi il processo, dandosi piena assoluzione e condannando me. Visto? Sto facendo la vittima. E anche lui. Due pesi, due misure: tutti vittime e nessun carnefice.

“Se avevi bisogno di me, perché non l’hai detto?”
“Perché non dovrei avere necessità di dirtelo, Leo...”
“Io non leggo nel pensiero, Med.”
“Bet e Jules non hanno avuto bisogno che glielo dicessi.” accuso senza riflettere e poi mi porto una mano sulla bocca, sconvolta dal fatto che quelle parole siano uscite proprio dalle mie labbra: lo sguardo di dolore che scoppia dentro ai suoi occhi è qualcosa che non penso riuscirò mai a scordare.

“Oddio, mi dispiace! Non... non volevo dirlo, davvero.”
“Beh, se è quello che pensi, sì.”
“Non lo è. Dio, Leo...” sussurro soffocata dal senso di colpa e, d’istinto, mi avvicino a lui e porto le mani attorno al suo collo, abbracciandolo.

Premessa: Leo non è affatto una persona fisica. È assolutamente allergico alle dimostrazioni di affetto tra amici che includano il contatto e, in genere, la sua frase preferita è Tirami giù le mani!, che non vuol dire un cazzo, ma che lui non cambia da anni.

Non riesco a credere di avergli detto che è un amico peggiore di Bet e Jules e, mentre premo il mento contro la sua spalla, gli occhi mi si riempiono di lacrime al pensiero di aver dato la stoccata finale a questa amicizia.

“Non lo penso, mi... mi dispiace...”
Lui resta immobilizzato per i dieci secondi più lunghi della mia vita e poi, contro ogni mia previsione, le sue mani sgusciano attorno ai miei fianchi. Pochi attimi dopo, Leo sta ricambiando il mio abbraccio.

“Med, devi darmi una mano qui... Io non so cosa devo fare.” la sua voce è solo un sussurro e, per una volta, mi concedo di lasciar scendere le lacrime.

Piango perché ho deliberatamente ferito il mio migliore amico: quanto dice questo di me e della persona che sto diventando?
“Se tu non mi parli, io non lo so capire cosa c’è che non va.”
“Il problema è che me lo chiedo ogni giorno e non lo capisco neppure io...” mormoro spingendomi sulle punte per mantenere la stretta sul suo collo, ben più in alto della mia normale bassitudine.


“Hai paura?”
“Sì.”
“Di che cosa?”
“Di me stessa.”

Non l’avevo mai detto ad alta voce in modo così diretto: cazzo, ho davvero paura di quello che potrei diventare se non trovo il modo per cambiare le cose.

“È l’università?”
“Anche...”

“Med, lasciala. Lasciala. Se contribuisce a farti stare così, lasciala. Non è così importante: e non è quello che vuoi fare. Lasciala.”

“Ok.” mi esprimo in modo telegrafico perché ho il terrore delle cazzate che potrebbero uscire di nuovo dalla mia bocca.
“Sì?”
“Sì.”

“Che altro c’è? È successo qualcosa di preciso?”
“Non lo so. Non trovo la risposta.”

È una conversazione al limite del senso compiuto quella che stiamo avendo, eppure - oltre alle analisi costanti che ho con Bet e Jules - questo è il modo più diretto in cui io abbia mai affrontato il malessere che mi cresce dentro.

“Lo vuoi il mio aiuto?” è una domanda onesta, sincera, preoccupata; così spiazzante che le mie lacrime aumentano e il respiro diviene difficile per i miei polmoni premuti contro il suo petto.
“Sì. Sì, lo voglio.” 
“Ok.”

E continuo a piangere come una cretina perché ho quasi perso il mio migliore amico e perché sono una vera e grossa merda. Mancano pochi giorni al pranzo con i miei genitori e questa domenica dovrò rispondere alle stesse domande che mi ha fatto Leo: eppure, nel terrore di perdere lui, una risposta ho avuto finalmente il coraggio di darmela.

Io questa università non la voglio fare. E non la finirò. Anche se lo facessi e prendessi la laurea, obiettivamente, a che cosa servirebbe? Fossi un datore di lavoro, non mi assumerei mai. Sono una biologa terrificante e darmi quel titolo è un vero insulto alla categoria.
Basta piangersi addosso: sto distruggendo con le mie mani tutto quello che mi circonda e, se non mi smuovo, rischio davvero di perdere tutto e affogare nel buio.

Una delle mani di Leo accarezza un paio di volte i miei capelli e la cosa mi sconvolge: l’emotività di questa conversazione, probabilmente, ha traumatizzato lui al punto da forzarsi in gesti che, in genere, gli farebbero venire l’orticaria.

Poi mi spinge delicatamente lontano di qualche centimetro e, guardandomi in faccia, il suo viso si contorce in una smorfia di disagio di fronte alle mie lacrime.
“No, senti, cazzo... non piangere. Già mi sento violentato da tutto questo appiccicume. Se poi frigni, vado in autocombustione per evitare la situazione!” esclama asciugandomi una guancia e io rido.

È il mio Leo. È il mio imbecille preferito.

“Mi dispiace davvero per come mi sto comportando e per quello che ti ho detto.” sussurro fissando il suo volto ancora contratto dall’imbarazzo e, per un attimo, lo vedo sussultare; forse la mia accusa di prima ha attraversato la sua mente come la mia.
“A me dispiace di aver capito e di non aver fatto niente.”

“Non spettava solo a te fare qualcosa.”

Sorride appena e, per sconvolgermi definitivamente, si china verso di me e lascia cadere un bacio sulla mia fronte.
“Ma è l’apocalisse?” scherzo di fronte al suo eccesso di umanità e lui, in risposta, mi tira una sberletta sotto il mento.

“Cazzo, sì. Mi sento quasi sporco dopo tutta questa sincerità. Potresti dire qualche porcata, così che io possa nuovamente sentirmi vivo?”

Io ridacchio alla sua stupidità e, dopo un paio di battute ad hoc per stemperare la tensione, lui annuncia che è arrivato il momento di salutarci perché lui non è un fancazzista come me e deve andare a servire la comunità.
Sono tutte cazzate, ma a Leo piace fare uscite idiote tipo questa.

Quando arriviamo sulla porta e lui fa un passo sul pianerottolo, ci scambiamo un insolito saluto:
“Scusami.”
“Anche tu.”

Quando richiudo la porta alle mie spalle, faccio un respiro profondo e sorrido: in quel buio devastante che sono io, ci sono piccole luci e, se trovo il coraggio di guardarle, forse posso smettere di avere paura.



Bathroom break


La direzione calcola che, a questo punto, potreste necessitare di una pausa pipì e di rinfrescarvi: nell'attesa, riordineremo per voi la vostra stanza. (No, grossa bugia.)



Sono passati tre giorni dalla sera della cena di laurea: tre fottutissimi giorni da quando ho discusso con Alex. Tre maledetti giorni dall’ultima volta che l’ho visto.

Non è più tornato a casa e i miei tentativi di entrare in contatto con lui sono andati a vuoto: la mia prima telefonata è stata prontamente respinta e il mio sms - nel quale gli chiedevo se potevamo risolvere la discussione come persone civili - non ha ricevuto risposta. Da quel momento in poi il suo telefono è rimasto spento.

Tre cazzo di giorni di trattamento del silenzio da parte di qualcuno che non è neppure il mio ragazzo: silenzio e astio per qualcosa che non ho fatto e non ho avuto modo di spiegare.

Tutto questo è così ridicolo che, per sfogare la frustrazione, mi sono ritrovata a svuotare interamente la libreria del salotto per risistemare i volumi in ordine di altezza e alfabetico: la cosa è così demenziale che ora, a metà dell’opera, avrei solo voglia di raccogliere tutti i libri impilati a terra e rimetterli sul mobile accompagnati da un cartello con scritto ‘Fanculo a tutti. Alex per primo.

Mentre mi sfogo sulla mia copia usurata dell'Amleto, sfogliando con rabbia le pagine e provando rancore nei confronti dell’atteggiamento immaturo di Alex, sento le chiavi che girano nella toppa della porta e il cigolio delle cerniere che annuncia l’arrivo del mio coinquilino.

Mi alzo di scatto dalla mia posizione sul tappeto e mi volto verso l’entrata, incontrando la sua figura che, a testa bassa, si addentra nel nostro appartamento.
Alex non alza lo sguardo e resta concentrato sul mazzo di chiavi che fatica ad uscire dalla serratura; lo osservo silenziosa e prendo atto del fatto che indossa gli stessi jeans di tre giorni fa - constatando che continuano a fargli un sedere appetitosissimo - e che i suoi capelli sono così spettinati che sarebbe lecito ipotizzare che ci abbia affondato le mani più e più volte.

Mentre lo scruto da cima a fondo senza proferire parola, lui finalmente si volta e si accorge di me: il viso sbigottito e il corpo improvvisamente di nuovo teso.

Oh, ma te la darò io una motivazione per essere teso, stupido idiota!

Lascio cadere il mio amato Amleto a terra e, aggrottando la fronte, incrocio le braccia sul petto, in attesa di sentire cosa abbia da dire.

Alex mostra tutto il suo disagio lanciando le chiavi sul bancone della cucina e iniziando a trafficare con la zip della giacca, accuratamente impegnato nell’evitare di incontrare di nuovo i miei occhi, prima di dirigersi verso camera sua e borbottare:

“Ciao.”
Io resto interdetta di fronte all’indifferenza che mostra e, ben decisa a chiarire le cose, non mi lascio sfuggire l’occasione.

“Ciao? Ciao?!” domando con voce acuta e incredula, ottenendo in risposta un altro borbottio distante:
“È ancora il modo educato di salutare, no?”
“Alex, sono tre giorni che non torni e te ne esci con ‘ciao’?!”

“Dovevo uscirmene con quando ti compri un pigiama guardabile?”
“Vaffanculo!”

Lui fa scorrere lo sguardo sul mio viso per qualche secondo, quasi stesse contemplando se sono degna di una risposta ma dopo averci riflettuto un po’, pare decidere che non ci sia motivo di proseguire la conversazione e, quando mi volta le spalle per entrare in camera, sembra porre fine ad ogni interazione.
A quel punto, stabilito che ne ho veramente troppo del suo atteggiamento, lo seguo con passo sicuro e, impedendogli di chiudere la porta della stanza, entro con prepotenza.

“Tu predichi bene e razzoli male, vero Mr. Maturità?”
“Med, vattene.”
“No.”
“Non era una richiesta...”

La sua voce è impregnata dello stesso gelo che recava qualche giorno fa e, più si mostra distaccato, più la rabbia dentro di me aumenta.
Il mio problema è che non tollero di essere giudicata senza aver avuto modo di spiegarmi; so perfettamente che sono responsabile di non aver fermato L, ma vorrei tanto che mi lasciasse raccontare la mia versione dei fatti e, soprattutto, mi logora l’idea di non aver neppure avuto l’occasione di scoprire se quel maledetto bacio nel pub potesse portare da qualche parte.

Qui siamo passati da troppo a niente in pochi secondi!
Per di più, la realizzazione che tutto finisce in nulla solo perché quell’idiota di L si è intromesso, mi fa impazzire.
Ho permesso a L di monopolizzare la mia vita e le mie azioni già a sufficienza: questa volta non lascerò che qualunque possibile fallimento di una conoscenza più profonda con Alex possa essere anche lontanamente collegato a quel cretino.

Ancora meno, lascerò che il mio coinquilino si comporti da quattordicenne: aveva detto che avremmo parlato. E ora parleremo.

Lui non sembra propenso a cambiare idea e, voltandosi, si avvicina a me, portando una mano sul bordo della porta.

“Med, te ne vai, per favore?”
“No. Mi hai detto che mi avresti lasciato parlare e invece mi hai dato della puttana e te ne sei andato per tre giorni. Ti rendi conto? Che cosa dovrei pensare io di te, ora?”

Lui chiude gli occhi per un attimo e inspira a fatica; il suo viso è così teso che i muscoli della mandibola continuano a contrarsi a ritmo regolare e, più si irrigidisce, più il suo volto si rabbuia.

“Ok, ascolta, di quello mi scuso. Di... averti dato della.. della...” si interrompe, come se non volesse dare voce a quella parola, come se non volesse ripetere l’insulto.

Ma così è troppo facile. Non mi ci ha chiamata direttamente, ma mi ha fatto capire che lo stava pensando e, visto come ha fatto sentire me, non vedo perché mai io debba rendergli la cosa più facile.

“... puttana. Mi hai dato della puttana.”
“No, io non l’ho detto.” prova a sviare lui e il mio sguardo incredulo lo porta ad alzare le braccia e a concludere: “Comunque, non avrei dovuto.”
“No, non avresti dovuto. Non me lo meritavo e in ogni caso non ti devi permettere di...”
“Senti, mi sono scusato, ok? Piantala, ora.”

Mi interrompe alzando la voce e spostando la propria attenzione sul bordo inferiore della sua felpa, prima di stringerla tra le dita e tirare verso l’alto per togliersela con un gesto sicuro; nel movimento anche la maglietta che porta sotto si solleva di parecchio, scoprendogli la pancia fino a oltre l’ombelico e i miei occhi cascano involontariamente là.
I jeans sui suoi fianchi cadono di un paio di centimetri sotto ai boxer e l’assenza di una cintura li rende pericolosamente morbidi, lasciando intravedere quelli che io identifico come la quintessenza del sesso: i muscoletti.

Sì, io ho stabilito che il loro nome scientifico è muscoletti: possiamo fare muscolettos gnocculis, per renderlo più pomposo e molesto ma, cambiando il nome, il fatto resta.
Lo diceva anche Shakespeare che quella che chiamiamo rosa, anche un altro nome, profumerebbe ugualmente.

Ecco, il muscoletto, anche se lo chiami caccapupù, a me fa sangue allo stesso modo.

Poiché sono una pessima biologa, non sono certa di come si chiamino ma sono sicura che non esista donna al mondo che, al comparire dei quei muscoli sul basso ventre che formano una V verso il pube, non pensi al sesso. Ecco, quando in un ragazzo quei muscoletti sono evidenti, io percepisco un segnale sinaptico ben preciso dal mio sistema nervoso: accoppiamento.

Quest cosa con Alex era già sedimentata: il muscolettos goncculis sta solo peggiorandole cose.
Soprattutto vista la situazione disastrosa in cui ci troviamo al momento.
Il mio sguardo incantato si sposta lungo il suo ventre e, per un attimo, temo mi sia venuta la bava alla bocca: poi lui, conscio di dove è concentrata la mia attenzione, si schiarisce la voce ed io, come una demente con le fauci spalancate, torno a guardare il suo viso che, per la prima volta, reca un sorriso. Cioè, è più un ghigno divertito e consapevole, ma meglio dello sguardo di ghiaccio.

“Like what you see?” chiede prima di sistemarsi, abbassando la t-shirt e ricoprendosi la pancia, mentre ride di me.

Cazzo, sì! Sì che mi piace quello che vedo e, per colpa di quel carciofo di L, le mie chance di averlo si assottigliano come il fianco della torta mano a mano che io ne taglio fette sottili (convincendomi che, se non è una fetta vera e propria, è come se non l’avessi mangiata).
“Possiamo parlare di quello che è successo?” chiedo fissandolo dritto negli occhi con voce bassa prima di entrare nella sua stanza, sedermi sulla sua scrivania e aggiungere piano:

“... Per favore.”

Appoggio i palmi delle mani sul legno sotto di me, ai lati delle mie gambe, stringendomi nelle spalle e restando in attesa del verdetto, ma lui non vacilla.
“Non ho proprio voglia o bisogno di infilarmi in un’altra lite con te.”
“Io non voglio litigare, ma...” provo a protestare ancora ma, con mio stupore, lui ne ha abbastanza e, con un gesto secco, sbatte la porta della camera, chiudendola.

“Niente ma, Med. Senti, non è davvero il caso che ti giustifichi. Io non sono il tuo ragazzo.”

Se esistesse un modo alternativo per pugnalare qualcuno, il suo sguardo e le sue parole sarebbero senza dubbio la scelta migliore.
Peccato che io mi sia stancata di tutta questa aggressività: questo non è il ragazzo con cui ho vissuto gli ultimi mesi e, in ogni caso, anche se questo dovesse essere il suo modo di affrontare un conflitto, non ha alcun diritto di trattarmi così. Proprio per il fatto che non sono la sua ragazza, come ha tenuto a sottolineare più volte lui.

“Hai ragione, non lo sei. Quindi piantala di comportarti come un orso. Se non sei il mio ragazzo e non ti importa di sapere cosa è successo con L, non hai ragione di essere arrabbiato con me.” Mi rendo conto che la mia sia una provocazione pericolosa e che potrei bruciarmi ogni brandello rimasto di possibilità di conoscere davvero Alex, ma mi rifiuto di credere che tutto questo astio derivi da un’incomprensione.
La sua espressione lascia intendere che la mia risposta l’ha lasciato interdetto e, per un istante, credo di aver vinto lo scontro; ma la mia speranza svanisce in fretta quando lui abbassa lo sguardo e borbotta:

“Sei tu quella che ci tiene tanto a spiegarsi. Immagino sia perché hai la coda di paglia.”
“Ehi, imbecille! Io non ho scopato con L, quindi finiscila! E, viste tutte le tue chiacchiere su quanto ti piacevo e sul fatto che dovevamo conoscerci, chiarire con te mi sembrava la cosa giusta da fare.”

Sento il mio petto gonfiarsi di gloria di fronte al suo sguardo stupito e contemplo la possibilità di aver esorcizzato il mio coinquilino dal mostro che ha abitato il suo corpo nelle ultime ore: non sono una persona particolarmente brava quando si tratta di confronti.

Mi incarto quando devo difendermi e manco assolutamente di tempismo nel trovare risposte coerenti o ad effetto; di solito, dopo che ho rimuginato sul confronto, mi mordo le mani perché, riflettendoci, mi sovvengono innumerevoli battute taglienti che avrei potuto dire. Ma sono orribilmente orgogliosa, non sopporto che mi si attribuiscano colpe che non ho: e Alex con me sta giocando sporco.

Lo osservo muoversi dalla porta alla sedia accanto al suo letto: resta zitto e mi ignora come se fosse infastidito dalla mia sola presenza e i suoi gesti sono riflesso dell’irritazione che la mia testardaggine sta provocando. Fruga tra i vestiti abbandonati sulla seggiola, senza trovare quello che cercava e non posso fare a meno di chiedermi che cosa diamine stia frullando dentro quella sua testolina bionda.
Poi si volta, lanciandomi uno sguardo tagliente al quale io reagisco inarcando le sopracciglia e lui espira con forza; si incammina verso l’armadio e lo spalanca, ricominciando finalmente a parlare:

“Stai facendo un dramma per due bacetti...”
“Uno. Uno. Lui ha baciato me e l’ha fatto una sola volta ed io ero...”
“Parlavo di noi.” mi interrompe, mentre afferra un paio di jeans scuri e li lancia sul letto.
“Alla fine ci siamo baciati un paio di volte. Tutto qui: cos’era, la tua prima volta? Non hai mai baciato nessuno senza aprire lunghe e complicate relazioni?”

La sua voce è attutita dalle pareti e dalle ante aperte del guardaroba e continua a non guardarmi mentre parla: stavolta sta sparando per colpire, punta proprio a ferirmi. E direi che sta riuscendo perfettamente nel suo intento.
E la cosa mi basisce: perché, personalmente, avrei creduto che il mio coinquilino fosse innocuo da quel punto di vista. Non avrei mai pensato che avesse problemi - come la sottoscritta - a gestire la rabbia e che il risultato fosse un suo deliberato tentativo di fare male con le parole: dovrei decretarlo riprovevole, ma non posso. Io faccio una cosa molto simile quando mi sale il sangue al cervello e, in quel momento, capisco che ogni possibile discussione tra me e Alex in futuro, rischia di essere estremamente viscerale.

La rabbia è un sentimento ignobile, ne sono consapevole, ma è anche l’unico che mi fa sentire reale di questi tempi: mi pulsa dentro e mi parte dal fondo dello stomaco. Come se tutte le altre ore trascorse nella confusione e nell’apatia gridassero giustizia all’improvviso.
L’ira non ha nulla di buono: ma è una forma di passione che non ho mai imparato a gestire.

E, poiché sappiamo tutti che sono stronza, lui ferisce me e io non mi ritraggo dal replicare:
“Fottiti, Alex. Ho sempre pensato che fossi un coglione. Ma non immaginavo fossi della stessa pasta di L...”

Ho sputato consciamente veleno e non riesco a non compiacermi nell’osservare la reazione alla mia risposta: il suo corpo si tende, mentre le mani volano su una delle ante aperte e sembrerebbe essere sul punto di sbattere anche quella.
“Oh, scusa, ho detto qualcosa che ti ha offeso?” chiedo sarcastica e scendendo dal ripiano della scrivania per dirigermi verso la porta.

La conversazione è finita e, visto che lui non pare propenso al dialogo o interessato a sentire cosa ho da dire, per quello che mi riguarda può affogare nella sua stronzaggine; sono a pochi passi dall’uscita ma la sua voce, improvvisamente molto più bassa e insicura, mi ferma, domandando timidamente:

“Davvero non ci sei andata a letto?”
Il respiro mi si smorza in gola e l’indignazione per il fatto che continui a credere che io sia stata di nuovo con L, è così potente che si manifesta tutta in un mio inaspettato innalzamento della voce.
“Non ci posso credere!” strillo voltandomi verso di lui a bocca aperta e rischiando di slogarmi la mandibola quando me lo ritrovo a petto nudo che si sgancia i bottoni dei jeans.

“Beh, che ti aspettavi? Io ti vedo baciarti col tuo ex...”
“Cosa fai?! Perché ti spogli?”
“Mi devo cambiare...” risponde con voce confusa, come se fosse naturale discutere con me in mutande e fosse ovvio che il bisogno era così impellente da non poter attendere.
“Ma lo devi fare proprio ora?!” chiedo incredula, indicando la sua figura seminuda che si staglia di fronte a me e che, a breve, avrà annullato ogni mia abilità oratoria.

Echecazzo! Non si possono fare queste cose: io sto cercando di litigare, per l’amor del cielo.

“Che problema c’è? Mai visto un uomo in mutande?”
“Non... non... non ti levare i jeans, Alex!”
“Non pensavo fossi così pudica...” constata lui con voce dubbiosa e aggrottando la fronte prima di far saltare l’ultimo bottone e alzare le mani per mostrarmi che si sta fermando.
“Non lo sono... Mi... mi distrai!” balbetto come una vera liceale e sono incapace di controllare la direzione dello sguardo che, chiaramente, si posa sul triangolo di cotone scoperto dai lembi aperti dei suoi pantaloni. E lui ride.

È bipolare, è ovvio.

Inspiro stanca e confusa dalla conversazione sconnessa che sta avendo luogo; strizzo gli occhi, prima di coprirmeli con entrambi i palmi delle mani e supplico:

“Ti prego, ti puoi rivestire? Tutto questo è ridicolo: io stavo provando a spiegarti una cosa e tu hai prima dato fuori di matto e ora mi distrai col tuo fisichino tutto conturbante. Se non vuoi starmi a sentire, va bene, non farlo. Lasciamo perdere tutto e mi farò...” il mio monologo isterico viene interrotto da un improvviso calore che prima mi sfiora le spalle e poi mi afferra entrambi i polsi, per allontanarli dal mio viso.

Poi la sua voce, la sua voce vera, quella divertita e limpida di sempre, mi invita ad aprire gli occhi e a inspirare profondamente.

Quando lascio che le palpebre tornino ad aprirsi, incontro i suoi occhi ma, con mio disappunto, li trovo ancora rabbuiati da qualche cosa che lo turba; non posso fare a meno di chiedermi se sia colpa mia o se ci sia qualcosa di più.
Faccio scivolare impercettibilmente lo sguardo sul resto della sua figura e, per il bene della mia sanità mentale, scopro che si è cambiato e che è nuovamente vestito.

In realtà un po’ mi dispiace: era una visione così succulenta, ma non potevo seriamente discutere con lui che si spogliava! Non è umanamente possibile; avrei solamente rischiato di imbavagliarlo con la sua stessa maglietta e fare di lui ciò che volevo.
Mentre fantastico su questa sconceria, lui afferra i due laccetti della mia felpa verde tra le dita e fa un fiocchetto, smettendo di guardare il mio viso e dichiarando:

“Che ne dici se usciamo a prendere una boccata d’aria?”
“Adesso?! Alex, scusa se te le chiedo ma... ti hanno mai diagnosticato un disturbo di personalità?” e lui fatica a trattenere una leggera risata prima di ignorare la domanda e spiegarmi:
“Non è solo per quello che è successo che sono così... io... io ho altri problemi in questo momento.”

“Quali problemi?”

La mia voce è quasi un sussurro, nella speranza di non allarmarlo, ma la delicatezza sembra non essere sufficiente: la sua postura cambia senza preavviso e, quando solleva il mento verso l’alto, capisco che con la mia curiosità ho attivato tutte le sue difese.
“Non mi va di parlarne...” borbotta lasciando andare i lacci della felpa e allungandosi dietro di me per aprire la porta.

“Dai, usciamo. Andiamo a mangiare qualcosa qui attorno. Pensa cosa vuoi, io ti aspetto di sotto...” il suo viso evita accuratamente il mio quando esce dalla sua stanza e si addentra nel salotto, dirigendosi verso l’uscita e io resto imbambolata a fissare la sua schiena mentre si allontana.



Pausa


QUESTA È L'ULTIMA PAUSA PROGRAMMATA DALLA DIREZIONE E, PER IL MAGGIOR COMFORT DEL LETTORE, LO SI INVITA A COGLIERE QUESTO MOMENTO PER LA PAUSA SIGARETTA (CHE, PER OVVI MOTIVI, CI SENTIAMO DI SCONSIGLIARE), L'INCURSIONE AL FRIGORIFERO IN CERCA DI CIBO, LA DOCCIA (SE VI STATE ADDORMENTANDO) E VARIE ED EVENTUALI.


Alzo bandiera bianca e dichiaro ufficialmente che io, quel ragazzo, proprio non lo capisco; penso di doverlo far analizzare a Jules perché credo fermamente di non essere l’unica con evidenti turbe mentali in questo appartamento.

La porta di casa si richiude con un tonfo sordo alle sue spalle e, sospirando, corro in camera mia per sostituire la mia tenuta di casa con un paio di leggings (grande invenzione per chi lotta disperatamente con la chiusura dei pantaloni ogni volta che si deve strizzare dentro un capo di abbigliamento, temendo di veder debordare la propria adipe), rigorosamente neri e un maglione grigio lungo fino alle ginocchia: non sarà un completo particolarmente seducente ma, per lo meno, non ho l’aspetto di una barbona.

Senza curarmi di osservare la mia immagine riflessa, raccolgo i miei fedeli stivali (che hanno visto giorni migliori ma che credo non butterò mai) e, zompettando come un’antilope ferita, me li infilo raggiungendo la porta di casa; mentre recupero il mio cappotto mi accorgo della giacca di Alex abbandonata sullo schienale del divano, così la raccolgo dal bancone e la porto con me, fiondandomi giù dalle scale.

Ho stranamente fretta di raggiungerlo, come se ogni secondo fosse rischioso e aumentassero le possibilità che lui cambi di nuovo idea: ogni cosa di Alex ora mi incuriosisce e, più ci penso, meno mi ricordo perché gli facevo ostruzionismo.

Arrivata agli ultimi tre gradini mi trovo a rallentare e a cercare di regolarizzare il mio respiro: il portone è aperto e, inspirando profondamente, percorro la breve distanza che manca per raggiungere il mio coinquilino, stringendo tra le dita la sua giacca.

Alex è appoggiato con la schiena al muro accanto all’entrata e guarda fisso la punta di una delle sue scarpe; le mani stanno nascoste dentro le tasche dei suoi jeans mentre si stringe nelle spalle per ripararsi dal freddo. Sembra assorto in qualche pensiero complesso e ha la fronte aggrottata a segnalare il suo stato riflessivo: allungo la giacca nella sua direzione, chiamandolo per nome, ma lui non si muove e non mi guarda finché, per attirare la sua attenzione, non appoggio una mano sulla sua spalla.

“Alex?”

Il mio coinquilino scuote la testa, quasi sorpreso di trovarmi già lì e, alzando il viso, mi scruta da capo a piedi; accennando un sorriso forzato accetta il giaccone e sussurra:

“Sei carina.”
“Grazie.” borbotto a disagio, voltandomi verso il semaforo alla nostra destra e invitandolo a seguirmi.

“Ci mangiamo una piadina?”

Alex, ancora alle mie spalle, non risponde e non accenna a muoversi dalla sua posizione: il suo silenzio mi preoccupa e provo a proporre un’alternativa, ma, appena mi giro nella sua direzione, percepisco la tensione sul suo viso che non presagisce nulla di buono.
“Pizza?”

“Med, credo che non sia una buona idea...”
“Credevo di doverci pensare...”
“E invece l’ho fatto io... e alla fine non mi pare sia una buona idea.”

Alla sua affermazione sento il sangue gelarmi nelle vene e l’espressione che si increspa sul suo volto sembra confermare i miei timori; eppure ho bisogno di sapere se sto arbitrariamente intuendo male. Mi serve sentirglielo dire così che io possa capire perché, nel giro di qualche giorno, le cose hanno preso una piega così diversa.
Lui, silenziosamente, sposta l’attenzione sul portone di casa. Ha cambiato idea su di noi. E suppongo si stia chiedendo se sia il caso di risalire nel nostro appartamento o mollarmi qui e andarsene da solo.

“Stiamo ancora parlando della cena?”
Alex si volta velocemente verso di me e, strizzando gli occhi, continua a torturarmi con i suoi silenzi: poi un lungo sospiro, seguito da un Non lo so appena bisbigliato.

Non lo so è meglio di un no: vuol dire che me la posso ancora giocare.
Mi guardo attorno velocemente e poi faccio tre passi per piantonarmi di fronte a lui, sfiorandogli una guancia col dorso della mano: i suoi occhi scuri trovano subito i miei e, vederli così confusi, fa nascere un groppo gelido nel mio ventre.

“Alex, che è successo? Che hai?”
“Med, forse dovremmo lasciar perdere.”
“Per L?”
“Per tante cose... anche per quello. Come faccio a sapere che non ti interessa davvero più?” la sua domanda è talmente sciocca ai miei occhi che vorrei sinceramente dargli della testa di cazzo per essere giunto ad una conclusione tanto assurda, ma mi rendo conto che insultarlo non aiuterebbe la mia causa e, ingenuamente, mi ritrovo a sussurrare:

“Non puoi. Ti devi fidare di quello che dico.”
“Io non so niente di te. Perché dovrei fidarmi?”

Alla faccia. Ottimo inizio, direi.

Provo a impedire al mio cervello di partire con travagliate seghe mentali e mi ostino a costringerlo a non spostare lo sguardo da me: poi, mentre cerco dentro ai suoi occhi, mi ricordo di una frase che il mio professore di italiano ripeteva spesso e, nell’espressione latina, intravedo una misera possibilità di tentare il tutto per tutto.

Do ut des.
“Do che?” chiede perplesso con una buffa espressione sulle labbra.
“Facciamo un gioco. Do ut des.”
“Che cazzo di gioco è?!” ride di me mentre lo stupore continua ad essere evidente suoi lineamenti.


Sto seriamente facendo la figura della scema ma punterò tutto sulla mia sagacia. Quanto mi piace dire che sono sagace anche se non è vero.

Do ut des: tu hai ragione, non sappiamo nulla l’uno dell’altra e, per ora, non abbiamo motivi di fidarci. In fondo tu liquidi ogni mia domanda...”
“E tu vai in giro a baciare i tuoi ex.”
“Alex, stai giocando con il fuoco.” lo ammonisco lasciando andare il suo viso scocciata, appoggiandomi al muro nello stesso punto dove lui prima aspettava me.

“Ok, d’accordo. Sentiamo in che cosa consiste questo gioco...”
“Chiedimi qualcosa e io ti risponderò sinceramente. Poi però sarà il mio turno e tu dovrai fare lo stesso.”
“È un gioco del cazzo. Potresti comunque mentirmi.”

Ora lo prendo a calci: io non sono una persona dolce e non sono una persona paziente e il biondino di fronte a me sta fortemente mettendo alla prova la mia tolleranza.

“Ti avviso che stai sfiorando il mio limite di sopportazione” annuncio, incrociando le braccia dietro la schiena e lanciandogli un’occhiata minacciosa a cui lui risponde con un gesto del capo e una risatina trattenuta.

“Ok, ok... e dove pensi che ci potrebbe questo gioco così geniale?”
“Il sarcasmo è roba mia, Americano. Lascialo ai professionisti.” ribatto stringendo gli occhi in due fessure inquisitorie che lo fanno sorridere.

“L’ultima volta hai detto che dovevamo conoscerci e che volevi essere sicuro che tu mi piacessi...” inizio a spiegare e lui annuisce, avvicinandosi di qualche passo, forse incuriosito “Beh, io non posso farmi conoscere se non so cosa vorresti sapere, e non posso conoscere te se ti ostini a non lasciarmi entrare.”

“Dovrei essere io quello che dovrebbe voler entrare...” sghignazza continuando ad avvicinarsi e la sua battuta demenziale solleva un peso stratosferico dal mio petto.
“Il permesso ti era già stato dato. Sei tu che non hai colto l’occasione.” ribatto ammiccando e facendolo ridere di nuovo.

Non avrei mai pensato di poter apprezzare così tanto la sua molesta risatina.

“D’accordo. Do ut des sia...” annuncia quando è arrivato di fronte a me e, additandomi, chiede:
“Dici che ho frainteso e che non sei andata a letto con l’idiota. E allora cosa è successo?”
“Ero ubriaca...”
“Complimenti!” e la sua intromissione è inzuppata di dissenso, ma io lo ignoro e proseguo nella mia difesa:

“...e lui mi ha seguita fino al corridoio. Quando sono uscita dal bagno mi ha incollata al muro e mi ha baciata. Punto. Ecco cosa è successo...”

“E tu l’hai lasciato fare?” è un quesito appena accennato: il conflitto che si scatena in lui è evidente nella sua postura, nel modo in cui sposta il peso da un piede all’altro.
Vorrebbe credermi e, allo stesso tempo, non riesce a farlo: studia il mio viso con attenzione mentre io continuo a parlare e a giustificare i fatti di quella sera.

“Non ne vado orgogliosa: non sono fiera del fatto che ero alticcia e non sono fiera di non essermi accorta che mi stava per infilare la lingua in bocca. Ma io non ho ricambiato quel cazzo di bacio.”

“Come facevi ad essere così ubriaca da non accorgerti che ti stava per baciare, Med?!”
“Ero distratta, ok?!”
“Da che cosa?” “
Da te!” rispondo alzando la voce e irritata dal suo incalzante interrogatorio: mi indispone principalmente il fatto che si ostini a non credere alla mia buona fede e, in tutta onestà, non volevo proprio sputtanarmi del tutto. Ma ormai l’ho fatto.

È disorientato dalla mia risposta e, per un attimo, sembra arrabbiarsi ancora di più.
“Quindi mi avevi visto?”

Ma chi? Io? Visto lui? Oddio, anche Alex è un demente.

“No, non ti ho visto. Ero distratta da te perché, nel mio stato alterato, il fatto di essere fuori dal bagno e contro un muro... mi ha ricordato la sera in cui ho baciato te.”

Eccoci: sana e pura onestà che si traduce in infinito imbarazzo per una persona che, per carattere, cerca di mostrarsi il meno possibile. Ma la mia rivelazione sembra far scattare qualcosa in lui perché i suoi lineamenti si addolciscono e, dopo qualche istante di esitazione, un sorriso si fa strada sulle sue labbra.

“Stai dicendo una cazzata?”
“No, purtroppo.” bisbiglio, schiarendomi la voce per poi trovare ancora una volta il suo sorriso soddisfatto “Oh! Per lo meno, cerca di mascherare l’entusiasmo!”

La sua risata alle mie proteste si spegne piano piano e il suo viso torna serio quando una delle sue mani si appoggia al muro dietro di me: nei suoi occhi un’ammissione di colpa che non tarda ad arrivare.
“Sono un coglione. Mi dispiace.”

“Per fortuna ne sei consapevole.”

La mia risposta è decorata da un broncio imbarazzato e la cosa sembra divertirlo ancora una volta: inclina il viso verso il mio e, attirando i miei occhi ai suoi, mormora onestamente:
“Sono uno stronzo.”
“E un cretino...” suggerisco accentuando la mia espressione infantile e i suoi occhi sorridono.

“E un cretino.”
“Mi hai fatto rimanere malissimo... e mi hai trattato di merda.”
“Mi dispiace. Scusami.”
“Facile dire scusa, adesso...”
“Che posso fare? Lo so che non avrei dovuto trattarti così... dimmi che posso fare?”

È una richiesta sincera: il rimorso per come si è comportato è palpabile nel colore della sua voce e, quando lo vedo torturarsi un labbro tra i denti, mi viene un’idea impura su come potrebbe farsi perdonare ma, stupidamente, dalla mia bocca esce un’altra domanda:

“Perché hai pensato subito male?”
“Perché non ti conosco e non so cosa pensi e cosa vuoi...”

Sbuffo: possibile che un ragazzo come lui sia così incredibilmente lento ad apprendere e così insicuro? Sposto le mani da dietro la schiena e le porto con un gesto deciso sui lembi del collo della sua giacca aperta, affermando tra i denti:

“Te, stupido brontolone. Non so perché, ma voglio te. Quindi piantala di fare la donnetta isterica: se avessi voluto L, non avrei passato gli ultimi tre giorni a regalare il terzo dito alla tua stanza ogni volta che ci passavo davanti. E non avrei aspettato che tornassi per spiegarti...”

Mentre parlo il mio battito accelera e lui afferra il mio viso tra le mani; poi il suo pollice destro preme contro le mie labbra e la mia salivazione si azzera.

“Ti chiedo scusa. Per tutto, ok?”

Chiedimi scusa per il fatto che mi sto eccitando come una scolaretta in mezzo alla strada, ragazzo dall’occhio comunicativo! Deglutisco a fatica e poi, non fidandomi della mia stessa voce (parliamoci chiaro, potrei ruggire come un leone, in questo momento) annuisco debolmente.

“Tocca a te. Chiedimi qualcosa...”
“Quali sono i problemi di cui parlavi prima?” chiedo senza aspettare che lui finisca di parlare e dalla mia gola esce una vocina acuta, quasi come se avessi respirato da un palloncino pieno di elio.

“Woah. Ok, qualcosa di meno... personale?”
“Non lo decidi tu cosa posso chiedere...” “
Diciamo che di quello non sono ancora pronto a parlare... Non c’è altro che vuoi sapere?”
“Voglio sapere un sacco di cose.”
“Chiedi, allora.”

Mentre Alex attende in silenzio che io scelga il topic della mia domanda, mi ricordo di cosa ha cercato di nascondere fino a che non l’ho scoperto e, scostando una delle sue mani dal mio viso, domando piano:
“Perché non mi hai detto che facevi il cuoco? Perché fai il cuoco, vero?”

Passa qualche secondo prima che lui si decida a rispondere e, nel silenzio rotto solo dal rumore di qualche macchina che sfreccia davanti al nostro palazzo, lui lascia che io mi concentri sulle sue dita e che ci giochi lievemente.

“Sì, faccio il cuoco... È stupido. Non te l’ho detto perché non ero sicuro di rimanere. Ero ancora in prova e... beh, non mi andava di dover dire che mi avevano licenziato se le cose non fossero andate bene.”

“Solo per quello?”
“No, anche perché, e mi rendo conto che sia un’ insicurezza ridicola, quando vi sentivo parlare di università mi sentivo... non lo so... un po’ inferiore.” ammette a fatica e la sua voce è appena più alta di un respiro.

Mentre ascolto le sue parole sento la pelle scaldarsi nonostante le insistenti folate di vento e, scorgere insicurezze anche in una persona come Alex, mi intenerisce incredibilmente: le sue mani hanno abbandonato la mia pelle e, mentre una è tornata a riposare contro il muro alle mie spalle, l’altra si è rifugiata nella tasca del suo giaccone.

Lo sto a sentire in silenzio: non può rendersi conto di quanto io, nella mia indecisione su quale sia il destino giusto per me, invidi la sua posizione. Di quanto anche io vorrei aver scoperto il mio talento; e mentre lo osservo evitare il mio sguardo, non riesco a non interromperlo bruscamente.

“È un pensiero idiota. La metà delle nostre lauree non ci servirà a un bel niente.”

Alza la testa di scatto alla mia affermazione e mi scruta dubbioso: ha un’espressione così buffa e così intrigante allo stesso tempo che, tentando la sorte, affondo le dita nei suoi capelli e sussurro:
“Mia madre è una cuoca. Ha un ristorante.”
“Davvero?”

Io annuisco con un sorriso e, ammiccando, aggiungo: “E io adoro mangiare!”

Allora, finalmente, dopo tanti giorni, lo sento ridere davvero.
Di gusto.
Di cuore. Come ha sempre fatto da quando è prepotentemente entrato nella mia vita.

Le sue labbra si stanno seccando per il vento insistente ma i suoi occhi sono tornati ad avere quella sorta di alone divertito che ci ho sempre visto dentro e, mentre lo sento spegnere la risata, una richiesta fugge alla mia gola:

“Basta aspettare, Alex.”
“Che cosa?”
“Io non voglio aspettare di scoprire altro: voglio scopriti in corso d’opera, ok?”

Un motorino alle sue spalle rallenta, passando vicino a noi, e suona il clacson ripetutamente ma io sono in attesa di scoprire l’effetto che le mie parole avranno su di lui: l’ho rischiata grossa perché, fino a poco fa, ero più che certa che Alex avesse deciso di accantonare l’idea di vedermi in veste diversa da quella di coinquilina.
Io, ora, sto dando per scontato che lui condivida ancora una volta il mio desiderio di... beh, non so di che cosa: ma, qualunque cosa sia, mi auguro includa baci e annessi.

“Se non funziona? Che facciamo dopo?”
“Se non funziona tu ti trovi un’altra casa. Però almeno ci saremo levati lo sfizio di un po’ di piacevole sesso...” ridacchio e Alex si china verso di me per battere piano la sua fronte contro la mia.

“Scema...”
“Corriamo il rischio?” faccio il mio ultimo penoso tentativo.

Visto che ormai mi sono giocata quasi tutte le carte, per enfatizzare la mia richiesta, tiro il suo viso ad un soffio dal mio: quando i nostri nasi sfiorano, lo sento trattenere il respiro.
L’occhio da Pokemon torna a farsi vivo in men che non si dica e, dopo una scrupolosa analisi delle mie orbite, un ghigno superbo si fa strada sui suoi tratti.

“Chiedimelo.”
“Che cosa?”
“Non ti bacio se non me lo chiedi.”
“Baciami, cretino!” mormoro ridendo e lui mi zittisce, premendo con forza le sue labbra contro mie.

Non sapevo di essere capace di sorridere in un bacio ma, con la sua pelle contro la mia, distinguo nettamente gli angoli delle nostre bocche che puntano verso l’alto in sincronia: ed è la cosa più divertente che io riesca a ricordare in questo momento.
La sua lingua scivola pretenziosa contro la mia e mi ritrovo a sospirare come un’imbecille, assolutamente incurante del fatto che siamo in mezzo alla strada e che tutti i nostri condomini potrebbero vederci.

Che me ne frega? Sto pomiciando graziosamente con Alex. Tutto il resto è irrilevante!

Con Alex la mia audacia diviene deliziosamente incontrollabile: mentre lui si concentra sulla piacevole tortura che la sua bocca e i suoi denti stanno infliggendo al mio labbro inferiore, io mi ritrovo a spingere contro le sue spalle per invertire le nostre posizioni: quando la sua schiena si scontra con il muro del palazzo, un suono gutturale si libera nel fondo della sua gola per spegnersi tra le nostre bocche ancora incollate.

Affondo le dita in quei suoi capelli disordinati e, aggrappandomi a lui, mi sollevo sulle punte dei piedi per riuscire a baciarlo da una angolazione più comoda.
Lui sorride contro di me: una sensazione di calore mi si scioglie dentro al petto e, non appena sento le sue mani intrufolarsi dentro il mio cappotto e stringere i lembi del maglione per alzarlo un po’, mi fermo.

Le nostre labbra ancora premute e i miei occhi che guardano dritti dentro ai suoi: restiamo immobili, respirando lentamente l’uno sul viso dell’altro e l’unica cosa che si muove accuratamente sono le sue dita.

Facendo attenzione a non lasciare che il cappotto si apra - e che il resto del quartiere veda che succede sotto la stoffa nera - solleva lentamente l’indumento grigio che protegge la parte superiore del mio corpo e, quando l’ha portato all’altezza della vita, le sue mani scivolano sotto, fino a toccare la mia pelle e a pizzicare il bordo dei leggings.

Azione involontaria: trattengo il fiato conscia del mio corpo ma, stranamente, poco interessata a cosa potrebbe pensare lui e, senza rompere il contatto visivo con le sue iridi, accarezzo le sue labbra con le mie e poi mordo piano contro la sua pelle: e Alex inspira incerto.

Poi tutto rallenta e diventa più sussurrato, più impercettibile, più delicato: una delle sue mani lascia il mio corpo e si appoggia con gentilezza sul mio collo e, con una lieve pressione, mi invita a sollevare il mento. Le sue labbra avvolgono le mie in un bacio molto più leggero degli altri; mi tira piano contro il suo petto e poi mi invita - con una gesto delle spalle - ad assumere la sua posizione contro il muro.

Io eseguo curiosa e riscaldata dal suo bacio, poi gli sussurro provocatoria:
“Tutto qui quello che sai fare?”
Do ut des.” propone lui e io sbuffo, perché non mi sembra proprio il momento.
“Che vuoi sapere?”
“Se sei davvero sicura di questa cosa.”
“Che domanda del cazzo.” ribatto spostando il viso contro il suo collo e lasciando cadere baci leggeri mentre le sue mani si piantano contro il muro ai lati della mia testa.

“Sì, sono sicura.” concludo soffermandomi con insistenza sullo stesso frammento di pelle che al pub lo aveva fatto tremare.

C’è qualcosa di gratificante nello scoprire il punto erogeno di qualcuno e la reazione di Alex ogni volta che la mia lingua accarezza quel centimetro del suo collo, è qualcosa che mi fa venire voglia di strappargli i vestiti, fregandomene del setting in cui ci troviamo.

Succhio contro il suo collo e lui non riesce a trattenere un “Fuck!” appena respirato e i cori da stadio porno che si agitano nella mia mente sono la vittoria più grande.

Gratificazione, in inglese, sussurrata con quella sua vocetta languida ed è pure una parolaccia.

Sono in paradiso.

Le mie mani premono contro il suo petto e decido che mi va di fare una domanda imbarazzante:
Do ut des.

“Dimmi...” sussurra lui sollevando il mio volto per baciare la mia bocca tra una parola e l’altra.
“Hai mai fatto cilecca?” domando e, aprendo gli occhi, Alex si ferma per un secondo prima di rispondere, ridendo piano:
“Uuuh! Hai voglia!”

Non so perché ma la sua sincerità, oltre a costringermi ad unirmi a lui nello sghignazzare, me lo fa desiderare ancora di più: imperfetto.

È imperfetto e io lo voglio.

Mentre rido la situazione ricomincia a scaldarsi e i movimenti e i baci tornano ad essere concitati e incontrollati.

Appoggio le mani sui suoi fianchi, tirandolo contro il mio corpo, faccio collidere i nostri bacini: per un attimo, considero oggettivamente l’idea di farmelo qui in mezzo alla strada.
Un gemito si smorza nel suo petto quando il suo ventre tocca il mio: poi lascia le mie labbra e sussurra contro uno dei miei lobi:

Do ut des.” In risposta io cerco di recuperare il respiro che i suoi baci mi hanno tolto e lui prosegue, mormorando:
Let’s go upstairs...”
“Non è una domanda...” sospiro contro la sua spalla e lui ridacchia.
“Sì, cazzo, portami su!”

Le sue mani stringono con frenesia il mio viso e mi bacia con violenza, con fretta, con forza: io con la mente lo sto già spogliando e, nella mia svergognata testolina, Alex è ormai in mutande ma, con il disappunto di entrambi, qualcosa vibra tra i nostri corpi.

“A meno che tu non abbia un pisello vibrante o una protesi tra le gambe, credo che il tuo telefono stia squillando, Alex.”
 Lui sghignazza alla mia affermazione sciocca e, accarezzandomi la testa, estrae il cellulare dalla tasca dei jeans.

What the fuck?” borbotta tra sé e sé e, spiando sul display, chiedo:
“Chi è Adam?”

Lui fissa lo schermo con un’espressione dubbiosa, poi risponde:
“Mio fratello.”




AN: Buongiorno a tutti e grazie, come sempre, di non esservi addormentati durante la lettura. So che questo capitolo non è ricco di eventi ridicoli come al solito e che ci sono tanti momenti piuttosto tesi, però ho dovuto mettere da parte un po' di risate per fare spazio ai confronti.
Ora: qualcuno (probabilmente) odierà Leo perché non è comprensivo quanto Bet e Jules o perché non asseconda Med: ci tengo a sottolineare che, nella vita reale, sono molte di più le persone che non capiscono di quelle che accettano senza metterci in discussione. E non sarebbe realistico credere che tutti quelli attorno a Med le stanno accanto senza comprendere e senza chiedere spiegazioni. Neppure quando si tratta del proprio migliore amico: a volte, anche la persona che più ti vuole bene, ha bisogno di urlarti contro.

Mentre scrivevo ho pensato ad una serie di momenti topici e di che sentimento avresto potuto provare verso di me. Vado con ordine:

Odio
Odio
"È pazza e anche io voglio fare colazione con i plum cake"
Odio. Leo è stronzo.
Oh... (qui non mi esprimo perché non posso dare per scontato che tutti reagiscano alla discussione tra Med e Leo allo stesso modo)
Odio
Doppio odio
Oh, Alex si spoglia! Accenno di affetto
Mmmhh... Alex ha smesso di spogliarsi ed è ancora stronzo: Odio al cubo.
Odisssssssssimo
Ora la uccido
LIMONE!
Schiaffeggiamo questo Adam.

Molto bene: sappiate che io vi amo, invece. Il mio più enorme, sentito e sincero grazie va ad ogni singola persona che ancora sta leggendo questa storia; a chi l'ha aggiunta nelle varie categorie di EFP, a chi mi lascia fenomenali recensioni (che hanno l'effetto di farmi scordare i libri e mettermi a scrivere capitoli come questo); a tutte le ragazze che animano la pagina FB di TuttoTondo e che mi fanno sorridere: l'affetto che mostrate per questa storia rendono la scrittura una cosa incredibilmente piacevole e gratificante.
Un grazie davvero a tutte le nuove arrivate che, con il loro entusiasmo, hanno contribuito a farmi mettere il turbo nella stesura di questo capitolo e a chi, ogni volta che ho un momento di sconforto, trova le parole giuste per farmi rivalutare la situazione.
Ora, so che vi starete chiedendo: "Ma le risposte alle nostre recensioni?! Avevi detto che sarebbero arrivate!"
C'avete infinitamente ragione e ribadisco che arriveranno: settembre è stato un mese complicato e il tempo per la storia davvero poco. Le ragazze del gruppo sanno che gli esami hanno ridotto al minimo i minuti che potevo dedicare a qualcosa che non fossero i libri: ecco, mi sono trovata a dover scegliere tra concentrarmi sul nuovo capitolo e rispondere ai vostri bellissimi commenti. Purtroppo la musa è instabile e, per evitare di lasciarvi mesi in attesa di un seguito, ho optato per regalare le mie pause studio al nuovo capitolo.
Ma, dalla settimana prossima dovrei tornare vagamente libera e, prometto su Alex e Med che, prima di mettermi a scrivere altri chaptersssss, risponderò ad ognuno di voi. Vi prego, siate clementi: l'imprevisto sessione è davvero una seccatura.

Ora la smetto di dire stupidaggini e, prima di salutarvi, rinnovo il mio grazie più profondo alla nostra amata Beta SoFreakingBecky che si è pippata tutta questa pappardella in stato di coma, dopo una serata fuori e che ho appena scoperto aver passato ore notturne a correggere 15.000 parole ... che ha resistito, non si sa come e che, anche se ha la memoria di un toporagno, ama questa storia anche più di me. Grazie, Leti: io, senza i tuoi atti di bullismo, sarei abbandonata al mio destino.

Ricordo, a chi volesse unirsi a noi, che su FB c'è la pagina Di TuttoTondo in TuttoTondo per spoilerssss, curiosità, domande, rivolte, insulti alla sottoscritta e, in realtà, un sacco di altre cose che con TuttoTondo potrebbe non avere nulla a che fare.
Se avete voglia di farmi sapere il livello di odio che avete raggiunto in questo capitolo, io sarei felicissima di leggerlo hahahahahah.

Baci e grazie ancora.
   
 
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