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Autore: londonici    24/09/2012    1 recensioni
Hayley, sedicenne di Beverly Hills, sembra la tipica ragazza che mette il broncio giusto per essere diversa. Una grande passione per i Paramore e un gruppo di amici eccezionali la aiuteranno a superare i primi "piccoli" problemi della sua vita. Ma poi si aggiunge Hitch, un rapper diciannovenne di fama mondiale, e tutto cambierà all'improvviso...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Alla fine non avevo chiuso occhio. Non un solo minuto.

E mi ero ricordata di non avere più un cellulare.

E la mia giornata si presentava come un inferno. Di nuovo.

Jenna, alla bellezza delle ore sei e mezza – e ripeto SEI e MEZZA – si era affacciata sulla porta di camera mia (lo so, non avrebbe dovuto darmi così fastidio visto che non stavo dormendo, ma d'altra parte era pur sempre una voce acuta e squillante che interrompeva il mio flusso di coscienza). Mi aveva trovata sdraiata al contrario, con la schiena parallela al cuscino e le gambe che penzolavano dal lato del letto; la testa ciondolava dal lato opposto, con i capelli che arrivavano per terra. La guardavo confusa, visto che lei era sottosopra e io a pancia in su.

«Ti va il sangue alla testa. Alzati, tesoro», aveva cercato di sussurrare, ma aveva gridato per le mie orecchie.

«Sei già sveglia?».

«Indovina», feci scortese. «Che c'è?», continuai sdraiandomi sulla pancia e scrutandola. Avevo un brutto presentimento, e la sua espressione colpevole me lo confermò: le si formava sempre una rughetta in mezzo alle sopracciglia quando stava per dire qualcosa che – con ogni probabilità – avrebbe potuto farmi infuriare.

«Niente», rispose, evadendo con lo sguardo.

«Jenna», la esortai. «Per favore, non farmi faticare per niente. Che cosa c'è?».

«Niente tesoro, non è nulla di brutto», disse a denti stretti, forzando un sorriso che tutto mi sembrava tranne che rassicurante.

«Ma qualcosa c'è, allora. Altrimenti cosa saresti venuta a dirmi?», tentai di mantenere la calma.

«Io? Niente, niente». La fissai a fondo, quasi strozzandola con lo sguardo. Stava per esplodere, lo sapevo. Non avrebbe retto il gioco ancora a lungo. Infatti.

«E va bene. Ma non credo che tu debba prenderla male, in fondo l'ultima volta non è stato poi così brutto... Lo so che adesso il fatto che tu abbia un ragazzo potrebbe imbarazzarti e farti saltare qualche rotella, ma...». Rieccola: l'intrusione di una persona che aveva già espresso un giudizio su di me senza davvero sapere cosa stessi pensando io.

«Jenna!», gridai facendola spaventare.

«Calma, calma...», rispose un po' a disagio. Poi prese fiato, con gli occhi spalancati e attenti a ogni mia minima reazione. «Ti ricordi Frank?».

 

Non sapevo come, ma alla fine ero stata incastrata. Sabato sera fuori a cena con Jenna. Con mia madre, accidenti.

E non era tutto.

Quel simpaticone di Frank, oltre ad aver pianificato una serata devastante per me e suo nipote, aveva anche proposto di andare a cena fuori tutti e quattro. Insieme. INSIEME.

Non bastava casa sua, a quanto pareva; bisognava anche farsi vedere in pubblico, come se non bastasse.

Mentre decidevo cosa mettermi di fronte all'armadio, parlavo al cellulare con Jess.

Lo so, lo so: quale cellulare? Quello che Jenna aveva barattato con me in cambio della fatidica serata con tanto di sorrisetti incorporati. Odiavo quel genere di cose, davvero, soprattutto se coinvolgevano giovani rapper pseudo psicanalisti rabbiosi. Chissà cosa aveva promesso Frank ad Adam per convincerlo. (Secondo me niente, Adam non è tizio che si fa corrompere).

«Con quello lì», ripeté freddo e contrariato Jess dall'altra parte del telefono.

«Già. Non senti la felicità nella mia voce?», feci sarcastica. In quel momento Jenna passò nel corridoio e, dalla porta aperta di camera mia, mi lanciò un'occhiataccia di rimprovero. Risposi con una scrollata di spalle. Poteva convincermi per quella serata, certo: ma quella parte della giornata non era ancora arrivata. Non aveva comprato tutte le ventiquattro ore.

«Vuoi che venga per caso a cenare nello stesso locale e ti incroci? Sempre per caso, sia chiaro».

«Se sapessi dove andiamo accetterei volentieri l'invito della sorte».

«E così adesso sarei diventato la sorte, eh?», disse mentre sorrideva. «Bel soprannome. La sorte», ripeté facendo la voce grossa, e io non potei trattenere una risata.

«Okay, okay. Sorte o no, adesso devo andarmi a vestire».

«Allora facciamo la videochiamata, perfetto», consigliò immediatamente.

«Bel tentativo, cara la mia sorte!».

«Non è andato in porto?», chiese fingendosi implorante.

«Assolutamente no». Era incredibile, quel ragazzo. Bastava solo parlare con lui e tutti quei pensieri che mi avevano tormentata la notte sparivano.

Però, quando la conversazione terminò, mi sentii già più stanca, come se la nottata in bianco iniziasse ad avvisarmi della difficoltà dell'impresa imminente.

Sbuffai più o meno trenta volte al secondo, sempre nei paraggi di Jenna. Doveva capire quanto un cellulare non bastasse a comprarmi.

Aspettammo che Frank e l'inquisitore passassero a prenderci, sedute sul divano e in silenzio. Giocavo con l'orlo del vestitino nero che mi ero messa, abbinandoci dei tacchi rosso scuro (che andavano a braccetto con i miei capelli sciolti di proposito: non volevo prepararmi troppo per un'uscita del genere). Quando suonarono alla porta, Jenna schizzò in piedi come un'adolescente impaziente e io la fulminai, disapprovando il suo atteggiamento. Anche lei si fermò davanti alla porta e mi puntò l'indice addosso, pronunciando un veramente poco minaccioso “mi raccomando, hai promesso”. Sbuffai per l'ultima volta e mi alzai, tentando di non trascinarmi troppo.

Con mia enorme sorpresa, sulla soglia si materializzò solo Frank. Per un attimo mi sentii sollevata... ma anche delusa. Cosa avrei fatto tutta la sera da sola?

«Buonasera, signorine. Ci accomodiamo nella limousine? Adam è già lì che aspetta», ci informò con tono perfettamente cortese e amichevole. Stranamente, non mi suonava affatto falso o forzato. Peccato, volevo che lo sembrasse.

Mi accomodai sui sedili posteriori, lasciando Jenna e il suo caro amico a discorrere davanti a noi.

Adam guardava dall'altra parte, fuori dal finestrino impenetrabile dall'esterno. Aveva una maglietta di mille colori sgargianti, uno più vivace dell'altro, e un gilet nero aperto, con dei jeans scoloriti a zone che incorniciavano il tutto. La sua posizione mi faceva capire la sua ostilità: con il pugno della mano sinistra si reggeva il mento e non mi degnava di uno sguardo. Quando la portiera si chiuse con uno scatto, fui costretta a salutarlo.

«Ciao», iniziai in soggezione. Si voltò per un attimo a guardarmi distratto, mi squadrò per benino e poi si rigirò verso il finestrino.

«D'accordo...», dissi a bassa voce mentre gli davo le spalle anch'io per fissare il paesaggio fuori. Mi accingevo ad erigere il muro del silenzio e dell'indifferenza. Dio, come avrei voluto che Jess fosse stato al posto suo.

E, senza che me lo aspettassi, lo sentii ridere istericamente. Stupita, mi voltai a guardarlo, un po' infastidita.

«Ti diverti? Beh, io no. Per niente», lo ammonii a bassa voce.

«Hai detto “d'accordo”. Ti prego, spiegami che cosa ti aggrada così tanto, perché io non ci vedo nulla di bello in questa serata».

Non gli risposi nemmeno e tornai ai paesaggi sfuocati che sfrecciavano vicino a me. Ma poi mi sfuggì dai denti un “che stronzo” che lui captò.

«L'unica stronza qui sei tu», sibilò senza guardarmi. La scena era alquanto comica: parlavamo a bassa voce per non essere sentiti ed eravamo girati una a destra e l'altro a sinistra. Sembrava addirittura che non ci stessimo facendo guerra. In realtà, l'avevamo dichiarata apertamente il giorno prima.

«Vaffanculo, Hitch».

«Molto matura».

«Sarai maturo tu, che fingi che io non ci sia nemmeno».

«Parla la ragazza che non dice al suo ragazzo che parla con me perché ha paura. Senti, per coerenza e non per altro, smettila di fare la vittima. Ti ho già detto che non me ne frega».

«Fantastico. Problema risolto», tentai di zittirlo. E per un po' funzionò.

«No che non è risolto, mocciosa!», sbottò all'improvviso girandosi a guardarmi. Frank lo sentì e fece una faccia strana, ma poi tornò alla sua conversazione con Jenna. Adam era furioso.

«Mocciosa? Mocciosa?!». Tentai di non gridare e mantenere la calma. Bell'impresa.

«Già. Mocciosa. Come fai a dire di aver risolto il problema quando sai benissimo che questa è la cazzata più grande che potessi mai sparare?». Mi fissava esasperato, io persi le staffe.

«Senti un po', cocco, hai detto tu che non te ne frega dei miei problemi. Perciò, stanne fuori. E se ti dico che non ho problemi, allora fidati e fatti i cazzi tuoi! Tu non sei nessuno per me! E adesso smettila di farmi sentire in colpa per qualcosa che non ho fatto», sibilai senza alzare la voce.

Strinse i denti e ingoiò i litri di bile che gli avevo fatto salire.

«Tu non glielo hai detto, vero?».

«Cosa? Ma ti senti?! Parli come se avessi commesso un crimine e tu volessi che io lo confessassi. Smettila. Non ho fatto niente. Non ho detto niente», mi tradii alla fine.

«Come vuoi. Non mi riguarda», concluse furioso contraendo le mascelle.

«Lo so che non ti riguarda. Continui a ripeterlo e poi ti immischi sempre».

«Hayley. Smettila. Per la tua incolumità, smettila». Iniziava a farmi davvero paura. Quella frase, poi... Che bisogno c'era di scaldarsi così tanto?

«Se mi dicessi cosa dovrei smettere di fare, magari potrei anche accontentarti».

Sbuffò dal naso e digrignò i denti.

«Non nominare mai più il tuo ragazzo quando parli con me, okay? Non fare la mocciosa. Se eviti quello, possiamo anche tentare di conversare civilmente. Ma non di te». Mi squadrò. «Tanto meno di lui».

Restai sbigottita. Non volevo credermi egocentrica, ma sembrava che fosse geloso di Jess. Il che non aveva il più assoluto senso, secondo la mia logica. Mi ricordai di chiudere la bocca solo dopo qualche minuto. Dovevo avere qualche problema nel comprendere le situazioni, perché continuavo a fraintendere.

Quando arrivammo al ristorante, ero completamente assente con la testa. Jenna sorrideva ed era euforica e anche Frank sembrava allegro e spensierato. Io e Adam avevamo tutt'altre facce.

Il tavolo che avevamo riservato era super lussuoso, perciò vi risparmio i dettagli. Mi sedetti di fronte a Jenna e, porca vacca, alla mia sinistra Adam si sistemò trascinandosi. Vidi chiaramente Frank rimproverarlo con gli occhi, seduto di fronte a lui.

Ascoltai senza interesse i discorsi che iniziavano sempre e solo gli adulti, mentre con la mente facevo l'elenco di tutti quei luoghi in cui avrei preferito trovarmi.

Beh, credevo che ce ne fossero di più.

Lasciai la serata trascorrere lentamente, annuendo e sorridendo al momento giusto e risvegliandomi dal coma profondo quando Jenna mi dava i calci sotto il tavolo. Adam, invece, non si degnava nemmeno di fingere. Beato lui.

Dopo cena mi vidi costretta a rifiutare categoricamente l'invito di Frank e Jenna ad andare a passeggio per Rodeo Drive, e Adam si trovò con le spalle al muro: anche lui doveva rifiutare per principio.

Così, in pochi minuti ci liberammo delle guardie del corpo e ci ritrovammo di nuovo soli. Nell'imbarazzo più totale e senza sapere cosa dirci, salimmo sulla limousine che Frank aveva chiamato per noi.

«Vuoi tornare a casa subito?», mi chiese inespressivo Adam.

«Non vedo cos'altro dovrei fare», risposi cinica. E (stranamente) lo feci incazzare.

«Certo. Ovviamente. Conversare con me di cose che non riguardano solo te e il tuo caro amichetto ingellato è estremamente pesante».

«Già! Lo è! Non sai quanta fatica mi sia costata questa serata. E la colpa è tua, perché sei tu che continui a fare il duro e la vittima. Poi cosa fai? Dai la colpa a me. Sai una cosa? Non ci sto, mi hai rotto per davvero», dissi aprendo lo sportello e tentando di scendere dalla limousine; il suo braccio strinse una morsa d'acciaio attorno al mio e mi bloccò.

«Dove vai?», chiese alzando gli occhi al cielo.

«A casa. Da sola. A piedi».

«Mi sembra di averla già sentita una storia simile, ricordi?».

«Vedo che hai una buona memoria. E vedo anche che le cose non sono affatto cambiate: continui a darmi sui nervi. Perciò, se permetti...», dissi strattonando il mio braccio per liberarmi di lui. Ma l'effetto che ottenni fu il contrario. Mi ritrovai molto più vicina a lui di quanto non lo fossi prima. Inoltre, il braccio mi pulsava e mi faceva male. Come se non bastasse, lui non mollava la presa.

«Ho afferrato, grazie, ora potresti farmi tornare il sangue in circolo, per favore? Mi fai male». Non appena dissi la parola “male” fece uno scatto all'indietro e mi lasciò.

«Scusa. Se vuoi andare a casa, ti ci accompagno io». Sospirai e mi arresi. Dovevo sotterrare l'ascia di guerra.

«D'accordo. Come ti pare. Ma devi togliermi una curiosità», feci intimorita dalla sua espressione impenetrabile. «Di cosa... Di cosa dovremmo parlare io e te? Non abbiamo nulla in comune», lo sfidai.

«Abbiamo molte più cose in comune di quanto tu possa credere. Solo che tu non me le chiedi perché hai paura. Come al solito».

«Io non ho paura», piagnucolai.

«Va bene. Allora chiedimi tutto quello che vuoi, ti risponderò senza troppi giri di parole».

Deglutii e ci pensai su. Ce n'erano di cose che avrei voluto sapere su di lui... Era la giusta occasione per saperne di più.

«Facciamo così: domande e risposte concise, okay?». Annuì e si voltò a guardarmi serio.

Risi della domanda che mi venne in mente per prima. «Sei mai stato arrestato?».

Sgranò gli occhi ma non si stupì più di tanto. «Sì. Una notte. Frank ha pagato la cauzione e mi ha fatto uscire». Gli occhi mi uscirono dalle orbite.

Non mi aspettavo mica un sì! Io glielo avevo chiesto perché, andiamo, tutti i rapper di solito hanno condotte un po' stravaganti, ma non pensavo di certo che anche lui avesse fatto qualcosa di simile.

«Scherzi?», feci a bocca aperta.

«No. Tu me l'hai chiesto, io ti ho risposto».

«Ma... Ma cosa hai fatto?».

«Un po' di risse e qualche giro poco raccomandabile, tutto qui». Corrugai la fronte e lui capì che volevo saperne di più. «Uno spaccio finito male, con la polizia eccetera».

«Spaccio?», ribadii con la mascella per terra.

«Sei così innocentina, Hayley. Cosa ti aspettavi, il modello perfetto idolo delle teen ager? Non sono mica Zac Efron».

«Tu spacciavi?». Non me lo aspettavo proprio. «E quando?».

«Non spacciavo, Hayley. Avevo sedici anni e volevo provare. Avevo... la tua età, giusto?».

Annuii tentando di nascondere la mia opinione.

«Ne sei uscito da solo?».

Inspirò e fissò il finestrino dietro di me per un istante prima di rispondermi. «Sì».

«Perché?», feci come se provassi pietà. Cosa aveva potuto spingere un sedicenne – di Detroit – a mollare la droga una volta provata? Era senza dubbio parecchio difficile.

«Mio fratello è morto di overdose l'anno dopo, e io non volevo fare la sua stessa fine».

Le sue parole mi trafissero il cervello. Per un attimo pensai a me stessa nei suoi panni e mi venne la pelle d'oca. Se ne accorse.

«Gesù, non... io non...», dissi in imbarazzo e faticando per trovare le parole giuste.

«Hayley, ti prego. Non avere pietà come tutti gli altri. Adesso non trattarmi come se fossi un portatore di handicap, altrimenti non ti dico più niente. Continua pure a fare la stronzetta, a me sta bene così. Anzi, preferisco così».

«Dammi almeno due secondi per digerire la notizia», dissi a bassa voce.

«Come ti pare. Allora mentre tu digerisci questa notizia, io ti dico qualcosa dei miei genitori».

«No, no, aspetta. Qualcosa mi dice che dovrei digerire bene anche loro».

«Quel qualcosa ti dice bene».

Deglutii e lo fissai. Non potevo evitare di provare pietà e pena.

«Come... fai?», chiesi vincendo il premio per la banalità.

Si strinse nelle spalle ed evase con lo sguardo. «Dopo un certo numero di fallimenti, sono due i casi: o ti rassegni e vai avanti, o tocchi il fondo e risali imparando dai tuoi errori».

«E tu quali dei due casi hai scelto?».

«Non ho scelto. È andata così. Ho toccato il fondo e sono risalito. E non commetto più gli stessi errori», disse con voce così bassa e profonda da sembrarmi quella della morte.

«Tu... Tu sei sicuro di questo?», gli chiesi seria, un po' spaventata dal suo passato che l'aveva inghiottito più e più volte, a quanto pareva.

«Certo. Sono uno che non torna indietro, se non per casi estremamente eccezionali. Hayley, non ti voglio spaventare con il mio passato, questo lo sai, vero?».

«Certo che lo so, è solo che non riesco a capacitarmene. Come è possibile cambiare così tanto?», chiesi più a me stessa che a lui.

«Basta prendere delle belle batoste, e il lupo non solo perde il pelo, ma anche tutti i vizi che ha. Quasi quasi diventa un agnellino», fece sdrammatizzando.

«E...». Indugiavo un po' su quella domanda che mi premeva sulla lingua e che il cervello mi bloccava. «I tuoi genitori?», chiesi infine.

«Mio padre ha abbandonato mia madre subito dopo averla messa incinta, lei si è suicidata dopo qualche mese dalla morte di mio fratello. Era depressa».

Mi sentii mancare. Non era possibile che mi stesse dicendo la sua vita con tale freddezza e indifferenza. Era disumano, era... incredibile che potesse mantenere la calma così perfettamente.

«Santo cielo...», sussurrai mentre mi appoggiavo allo schienale di pelle fredda come il suo sguardo inquisitore. Ero incredibilmente esausta.

Fu in quel momento che mi accorsi che la limousine si era fermata: eravamo a casa, ma nessuno dei due si schiodava da lì. Non volevo più tornare, sentivo il bisogno di fare, di dire qualcosa per fargli capire cosa provassi io. Cosa avrei provato io al posto suo se avessi avuto la sfortuna e la devastazione come angeli custodi.

All'improvviso, tutte le frasi che aveva detto in precedenza, ogni singola parola, tutto assunse una sfumatura diversa, triste e infinitamente ingiusta.

E io mi sentii così stupida, così insulsa, così viziata e superficiale da voler sparire per potermi prendere a calci da sola. Per poter sbattere la testa da qualche parte.

«Hayley, stai tranquilla», mi rassicurò lui. «È tutta acqua passata».

«No, Adam, no. Questo è ciò che ti ha fatto diventare ciò che sei, e tu lo hai detto a me. Perché? Cosa... cosa volevi farmi capire con questo?».

«Quanto abbiamo in comune. Ecco cosa volevo farti capire. Io lo so che tu, rispetto a tutte le altre ragazze di Beverly Hills, hai qualcosa dentro che ti logora tanto quanto succede a me». Distolse lo sguardo, come se stesse omettendo una parte di verità.

Lo guardai e vidi in lui ciò che non avrei dovuto vedere, se solo fossi stata dotata di un minimo di buon senso.

«Adam», tentai di interromperlo.

«Ho capito che tu in fondo agisci come me, lo so che vivi diversamente. Per questo quando parli come una mocciosa viziata mi fai arrabbiare».

«Adam», ci riprovai.

«Perché non era giusto che tu mi odiassi senza sapere; ma la verità era che tu sapevi di non voler sapere niente di me, e ti comportavi come una qualsiasi. Ma tu non sei una qualsiasi. Tu, Hayley, tu...».

Non sapevo più come fermarlo. Doveva zittirsi, era arrivato il momento di liberarsi di quello stramaledetto peso. Ma me lo stava impedendo con il suo fiume di parole in piena. Ed ero stanca, così stanca... Letteralmente e metaforicamente.

«Adam».

«Hai un potenziale che gli altri non hanno. Hayley, tu...».

«Adam, sono nata dallo stupro di mia madre».

E, all'improvviso, tutto quel peso che mi premeva sul petto da sedici anni si dissolse, svanì per iniziare a diventare un'altra oppressione, meno importante e più sostenibile. Quasi piacevole.

 

   
 
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