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Autore: Ariadne_Bigsby    24/09/2012    1 recensioni
{OTTAVO CAPITOLO AGGIORNATO}
(ATTENZIONE, LA STORIA CONTIENE SPOILER)
Una Fan Fiction basata sul monologo di John Blake a Wayne Manor: l'infanzia "arrabbiata" di John, la perdita dei genitori, la scoperta dell'identità di Batman, la sua idea di giustizia e la sua crescita, da me immaginate ed elaborate in questa storia che ingloba luoghi e personaggi del film.
“John Blake hai detto? Ma, è il tuo cognome o quello della tua famiglia adottiva?”
“E’ il mio..”rispose Blake a voce bassa.
“Beh, è strano! Qui c’è un John Cain e un John Maislee, ma nessun John Blake.”
Blake si morse di nuovo il labbro e, senza volerlo, assunse un’aria colpevole che non passò ignorata da Shannon.
“Allora…non vuoi dirmi chi sei?” gli chiese in tono gentile. Quante volte aveva avuto a che fare con bambini del genere, che si rifiutavano di usare il loro cognome, usando quello della famiglia adottiva, quasi a voler rinnegare le loro origini?
“Robin. Mi chiamo Robin Blake..” cedette alle fine il bambino, abbassando gli occhi.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Batman aka Bruce Wayne, James Gordon, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: Spoiler!
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kjlulululou

 

 

Quarto capitolo on-air. Allora, piccola spiegazione: in realtà era nei miei piani scrivere un capitolo intero sulla vita di Robin con i genitori adottivi, la descrizione del rapporto che non c’è e di come sia stato elegantemente scaricato lasciato all’orfanotrofio, ma sarebbe venuto fuori un capitolo di una lunghezza abnorme, mentre io preferisco fare capitoli più brevi (anche per prolungarmi il piacere di scrivere e non finire in fretta la storia). Quindi qui è descritto l’incontro con i genitori adottivi e…una “sorpresina” finale che è un tassello per aiutare il lettore a capire come diamine abbia fatto John Blake a capire chi era Batman .

In realtà è che ci provo molto gusto a lasciare i capitoli “in sospeso”, dopo avere utilizzato questo espediente nel secondo capitolo ho deciso di ripetere ^^

Mi è stata posta questa domanda, riguardo al capitolo precedente “Ma il poliziotto, è Gordon?” In realtà non avevo neanche contemplato l’idea, visto che nel film non viene mai esplicitata una cosa simile. Però la cosa mi ha intrigato e ho scelto per il nostro poliziotto, un nome che può voler dire tutto o non voler dire nulla. A voi l’intepretazione!

Bando alle ciance, via con la foto e con il capitolo!

Photobucket

Discover.

La berlina grigia si muoveva agilmente nel traffico natalizio di Gotham. I palazzi erano ricoperti di lucine colorate a forma di vischio o di tanti piccoli Babbo Natale.

I negozianti ne avevano approfittato per fare sfoggio di tutto il loro senso del kitsch, affiancando luci a intermittenza color ciano con altre lucine a forma di agrifoglio o di palline dell’albero di Natale, tutte rigorosamente di un colore diverso dall’altro e con altre amenità del genere.

 

Il guidatore non aveva fretta e rallentò in prossimità delle strisce, per far passare una comitiva di allegri bambini.

 

“Allora Blake..” disse girandosi verso il sedile del passeggero “emozionato?”

 

Robin Blake si strinse nelle spalle e continuò a cincischiare con i laccetti del giubbotto rosso “Credo di sì,” rispose in tono incolore.

 

“Come “credo”? Non sei contento che ti abbiamo trovato una nuova famiglia in così poco tempo?” si animò l’assistente sociale, ripartendo.

 

“Una nuova famiglia..” pensò Robin “ come se le famiglie fossero come un vestito vecchio che butti via”

 

“Immagini di sì. Sì, sono contento.” Rispose Robin sforzandosi di fare qualcosa che somigliasse a un sorriso, e non a una smorfia.

 

Si era allenato parecchio, nelle settimane di degenza all’ospedale (dove avevano insistito per tenerlo sotto osservazione) a fare sorrisini falsi, davanti allo specchio. Era stufo di sentirsi rimbrottare sul fatto che fosse sempre serio, neanche fosse un bambino viziato che vuole tornare a Disneyland dopo esserci stato una settimana e non un bambino che aveva appena perso il padre in modo violento.

 

L’assistente sociale, Dominic Browning preferì non continuare la conversazione e Robin lo ringraziò mentalmente.

 

Era un caso speciale, quel ragazzino: orfano, la madre morta in un incidente gravissimo quando lui aveva 4 anni, il padre ammazzato sotto i suoi occhi poche settimane prima, per debiti di gioco.

 

C’era da stupirsi che non avesse avuto un crollo nervoso e non avesse sviluppato strani tic o cose del genere ma quel ragazzino taciturno era rimasto stranamente calmo.

 

Dominic Browning, nelle ultime settimane, si era letto dozzine di pagine di fascicoli su di lui: era stato trovato da un poliziotto, un tale James, mentre vagava in stato di shock fra la Second e la Main Street, intorno a mezzanotte. Aveva raccontato che lui ed il padre erano stati aggrediti in un vicolo, e poi aveva perso i sensi. Dopo averlo portato in braccio dentro la sua macchina, il poliziotto aveva avvertito la centrale.

 

Il ragazzino era stato portato subito all’ospedale per accertamenti e medicazioni. Mentre era ancora privo di sensi, la polizia identificava il cadavere rinvenuto in Sycamore Street, come quello di John Blake, padre di Robin John Blake, 10 anni.

 

Il giorno dopo Dominic era già stato contattato ed era già al lavoro per trovare una sistemazione a quel bambino sfortunato, che si lasciava maneggiare da medici e dottori senza protestare.

 

“La cosa migliore che possiamo fare per lui..” aveva detto al poliziotto che lo aveva soccorso “è di non farlo passare da un orfanotrofio. Meglio se lo lasciamo un po’ in osservazione e lo diamo subito ad una famiglia. Ha già visto abbastanza cose brutte, per avere solo 10 anni. Una famiglia amorevole gli farà dimenticare tutto.”

 

Il poliziotto aveva dei seri dubbi sul fatto che il ragazzino riuscisse a “dimenticare tutto” ma, mentre gli gettava un’ultima occhiata dai vetri della stanzetta dove riposava, glielo augurò con tutto il cuore.

 

Dominic Browning si era dunque prodigato per cercare una famiglia adottiva, ma non era una faccenda da poco: il bambino aveva già 10 anni, era piuttosto grandicello e ben poche famiglie erano disposte ad accogliere bambini di quell’età, visto che il loro carattere a quel punto non era quasi più plasmabile.

 

Tuttavia, la sua perseveranza aveva dato buoni frutti. I Gray sembravano il prototipo della famiglia perfetta: un appartamento in centro, entrambi con un lavoro stabile e ben retribuito, nessun bisogno di sacrifici inutili…mancava solo un bambino.

 

“Eccoci arrivati Robin!”

 

Dominic mise la freccia a destra e parcheggiò davanti ad un alto condominio dai mattoni rossi.

 

Robin alzò lo sguardo: era un palazzo veramente imponente, chissà come doveva essere vivere all’ultimo piano, con Gotham sotto i propri piedi, le persone come tante piccole formichine affaccendate.

 

“Andiamo, Robin?” lo esortò Dominic, che era già sceso ed aveva già afferrato il bagaglio contenente le poche cose del bambino.Tutto quello che gli poteva tornare utile o che poteva usare era stipato in quell’unica valigia nera, ricoperta di adesivi scoloriti.

 

Robin aveva infatti “ereditato” quello che era rimasto nell’appartamento e l’appartamento stesso,del quale avrebbe potuto usufruire al compimento dei 18 anni. Ma fortunatamente, con una famiglia del genere alle spalle, non avrebbe avuto bisogno di un simile appartamento pieno di ragnatele e di ricordi.

 

L’appartamento era ”appena” al settimo piano, ma era fra i più eleganti dello stabile

 

“Considerati fortunato!” esclamò Dominic in tono allegro, mentre l’ascensore saliva.

 

Robin lo guardò come se fosse impazzito: fortunato? Ma per quale dannata ragione tutti si ostinavano a comportarsi come se fossero in una pubblicità di cereali, dove tutto va bene ed il sole splende sempre?

 

La donna che aprì la porta con un sorriso smagliante stampato in faccia era giovane e carina, con lunghi capelli castani e gli occhi neri.

 

“Ma ciao! Tu devi essere il piccolo Robin!” trillò tutta felice, mentre si piegava verso di lui e gli toccava la punta del naso col dito indice “ma lo sai che sei proprio ca-ri-no?”

 

Robin fece uno sforzo immane per non guardarla male, ma non poté trattenersi dal sollevare un sopracciglio con aria perplessa: quella sottospecie di robot era la sua mamma affidataria?

 

“Vieni piccolo, ti accompagno nella tua stanza! Devo sbrigare alcune piccole pratiche col gentilissimo signor Browning, spero tu non me ne voglia se ti lascio solo per qualche minuto! “ continuò la donna tirandolo letteralmente dentro casa per un braccio e scortandolo verso la sua stanza.

 

Non appena la porta si chiuse alle sue spalle, Robin iniziò a studiare la stanza con attenzione.

 

Era completamente diversa dalla sua vecchia stanza, che era piccola, con pareti bianche e una specie di parquet tutto graffiato.

 

Lì invece le pareti erano colorate di azzurro e sotto i suoi piedi c’era della soffice moquette bianca. Il letto sembrava morbido e accogliente.

 

C’era una finestra, lunga dal soffitto fino al pavimento che si affacciava su Wentmore Road, illuminata a festa e dalle luce delle macchine: erano le 5 del pomeriggio, l’ora di punta per Gotham e anche il vagone della monorotaia sopraelevata, che sfrecciava a poca distanza da loro, era pieno zeppo di gente

 

Dopo qualche minuto di contemplazione del ben poco interessante panorama (una schiera di grattacieli tutti uguali, austeri e cupi) sentì la porta aprirsi.

 

La donna che lo aveva fatto entrare era tornata, accompagnata stavolta dal marito, un uomo alto con capelli neri, molto corti. Lo stavano guardando con un sorriso a 32 denti stampato in volto.

 

“Robin..”cominciò l’uomo avvicinandosi “sappiamo già tutto di te, ma tu non sai ancora nulla di noi! Noi siamo i tuoi nuovi genitori “ Robin ebbe un fremito. “Io sono James Gray e lei è mia moglie, Stephanie. Siamo così felici che tu sia qui..questa casa è molto silenziosa e triste senza bambini..speriamo con tutto il cuore che tu qui possa stare bene e che tu possa trovare la felicità che ti è mancata!”

 

Robin, in cuor suo, sapeva che probabilmente quei due ci tenevano seriamente al suo benessere. Tuttavia, non riusciva proprio a scacciare quella sensazione di disagio che provava da quando era entrato in casa.

 

Non aveva dubbi sul fatto che quei due erano probabilmente la cosa migliore che gli potesse capitare, era già tanto che non fosse stato spedito subito in un orfanotrofio, ma sentiva che c’era qualcosa di terribilmente storto in tutto ciò.

 

Il pomeriggio passò con una lentezza esasperante: i suoi nuovi genitori gli fecero fare il giro della casa, e Robin non poté fare a meno di notare quanto fosse accogliente, spaziosa e calda.

 

Quando suo padre era vivo (Robin sentì come un groppo alla gola, al pensiero) aveva spesso vagheggiato su una casa come quella, ma nel suo sogno c’erano i suoi veri genitori. Per quanto sfocato fosse il ricordo di sua madre, Robin si immaginava una specie di figura eterea, vestita di bianco che lui riconosceva come sua mamma mentre abbracciava suo padre, che rideva sereno.

 

Per quanto affettuosi fossero i signori Gray, lui non riusciva proprio a placare quel senso di inadeguatezza che gli stava addosso come un fantasma.

 

La sera fu il momento peggiore: i Grey avevano invitato tutti i parenti a conoscere “il loro bambino” (come lo presentavano in tono orgoglioso a zie, nonni e conoscenti).

 

La sala da pranzo gli sembrava stipata di gente che lo guardava e che lo trascinava da una parte all’altra, come se fosse una specie di animaletto da compagnia. Robin si sforzò di essere affabile e carino: non era assolutamente abituato ai convenevoli e dopo mezz’ora gli dolevano i muscoli della bocca, per tutti i sorrisini tirati che si sentiva in dovere di fare.

 

A giudicare dall’aria preoccupata con cui lo guardavano, I padroni di casa sembravano aver intuito che il buonumore di Robin era tutta facciata e che la sua mente era altrove.

 

I Grey non erano persone cattive, ma erano giovani ed inesperti. Per loro, che non avevano la minima idea di quali forze si stessero agitando nell’animo di Robin, il suo comportamento era causato solo dalla sua mancanza di disciplina, dovuta al suo passato turbolento e senza punti di riferimento.

 

Non amavano pensare che il loro figlio adottivo aveva visto uccidere suo padre davanti au suoi occhi e che era sfuggito per un soffio alla morte. Nella loro inesperienza, quelli erano ricordi da soffocare, non da elaborare per riuscire a venirne a capo.

 

Finita la cena e riaccompagnati gli ospiti alla porta, la signora Gray prese in disparte Robin e lo portò davanti all’ingresso della sua camera.

 

“Robin..” gli disse in tono premuroso “c’è qualcosa che non va?”

 

Robin fissò un attimo il volto della donna, i suoi capelli castani ed i suoi occhi scuri.

 

“No.” Mentì “non c’è proprio nulla che non va.”

 

Stephanie sospirò e si inginocchiò davanti a lui, posandogli le mani sulle guance.

 

“Robin, non darmela a bere. So che c’è qualcosa che non va, ma..” sospirò di nuovo, guardò il pavimento e poi tornò a guardare il bambino “io so esattamente come ti senti Robin. Voglio aiutarti.”

 

Robin la guardò incredulo. Cosa ne sapeva quella donna così diversa da lui di come si sentiva? Per tutte quelle settimane passate in ospedale, Robin non aveva ,mai conosciuto un attimo di pace.

 

Il ricordo di quanto era accaduto infestava i suoi incubi: sentiva la voce di Roger che gli bisbigliava all’orecchio, sentiva suo padre urlargli “Robin, scappa!”, ma nei suoi sogni non riusciva mai a scappare.

 

Sentiva la rabbia, tanta rabbia per quello che gli era stato fatto, per il fatto che gli assassini di suo padre erano a piede libero e che, probabilmente, non avrebbero mai pagato per tutto il male che avevano arrecato a lui e a chissà quante altre persone.

 

Si era svegliato spesso la notte, soffocando le urla nel cuscino, incapace di capire perché tutto quello che era successo fosse capitato proprio a lui.

 

Anche sua madre era morta ingiustamente: la vittima innocente di un incidente causato dall’avidità di 4 uomini, che avevano travolto e spezzato quello che si era messo sul loro cammino.

 

E quanto avevano pagato? Di sicuro meno di quanto avesse perso lui.

 

Ed ora, quella donna, quella sconosciuta che di sicuro, non aveva mai conosciuto lo squallore in cui era vissuto lui, veniva a dirgli che capiva esattamente quello che provava?

“Robin..”continuò la donna dopo avergli dato un bacio sulla guancia “sono la tua mamma adesso, i tuoi problemi sono anche i miei.”

 

Era troppo per Robin, che si divincolò dalla stretta di lei.

 

“No, questo no. Non te lo permetto.” Mormorò in tono gelido.

 

Lei lo guardò affranta, ma si ricompose subito “ E’ evidente che sei molto stanco Robin e che il cambio di casa ti abbia sconvolto! Ti lascio andare a dormire.” Gli disse in fretta, aprendo la porta della sua stanza “domani faremo i biscotti, va bene? Buonanotte.”

 

La porta si chiuse dietro di lui e Robin tirò un sospiro di sollievo, pur essendo sempre tremante dalla rabbia repressa.

 

“Forse dormire mi farà stare meglio..” pensò mentre si metteva il pigiama,tirandolo fuori dalla valigia.

 

Si sentiva pieno come un uovo, a cena aveva mangiato a sazietà, dando probabilmente l’idea di essere un bambino che non aveva mai visto tanto cibo in vita sua. In realtà aveva ben presente i pasti offerti da Gotham General Hospital e quel tacchino con le patatine gli era sembrato una specie di apparizione divina.

 

Si buttò sotto le coperte, ma realizzò dopo pochi secondi di avere lasciato le tende aperte: la luce dei grattacieli illuminava troppo la stanza e gli dava fastidio. Sbuffando si diresse verso la finestra e fece per tirare le tende, ma si bloccò.

 

I grattacieli di Gotham, così cupi e poco interessanti di giorno, erano tutti illuminati: molte delle luci erano quelle di appartamenti, ma c’erano anche delle solitarie luci di qualche ufficio. Tuttavia non furono queste a catturare l’attenzione di Robin.

 

Lontano dal condominio dive si trovava, spiccava su tutti un grattacielo, più moderno ed elegante rispetto agli altri. Di giorno Robin non lo aveva degnato di uno sguardo visto che gli era sembrato un grattacielo come tanti altri, ma di notte veniva accesa un’enorme insegna luminosa con il nome della compagnia.

 

Robin sentì un brivido lungo la schiena quando lesse il nome illuminato.

 

Era la Wayne Enterprises.

 

 

Anche questa “fatica” è compiuta! Ringrazio calorosamente chi ha letto e chi ha recensito!

Il capitolo non è un granché ma, ripeto, è stato necessario staccarlo dal resto (che non è ancora finito, by the way) perché la lunghezza sarebbe stata eccessiva J

Ci vediamo al prossimo capitolo! Stay Tuned u.u

Inutile ricordare che le recensioni sono molto gradite! Besos!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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