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Autore: Blackvirgo    27/09/2012    7 recensioni
Salvatore Gentile non era abituato a essere confuso. La sua vita era sempre corsa su binari netti, perfettamente suddivisa fra il bianco e il nero: fra perdenti e vincitori, fra giusto e sbagliato, fra importante e inutile. E fino a quel momento ciò che non era il calcio, per lui, era sempre stato inutile. Sì, c’erano gli amici, i compagni di squadra. C’erano state delle storie di lunghezza variabile tra il tempo di una scopata e quattro mesi di mazzate nelle palle, ma non c’era mai stato un pensiero così fisso e fastidioso da diventare ossessivo.
[Altri avvisi: italian!ship, linguaggio a tratti scurrile. Niente di drammatico, ma di sicuro non hanno studiato a Oxford!]
Genere: Commedia, Romantico, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Anteros'
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Come nebbia

Salvatore si svegliò con la sensazione di cadere sempre più velocemente nel nulla assoluto, senza nessun appiglio e con la certezza che, prima o poi, avrebbe raggiunto una superficie che aspettava solo il glorioso attimo in cui si sarebbe sfracellato. Si sedette di scatto sul letto con il cuore a mille e la sensazione che l’aria avesse perso la strada per entrare nei suoi polmoni. Si guardò attorno, spaesato: era nella solita stanza di albergo in una via impronunciabile di Tokyo, Giappone. Va tutto bene, biascicò a denti stretti, continuando a ispezionare la stanza. Quando vide il letto di Gino vuoto ebbe un moto di panico: sentì il cuore saltare un battito ed ebbe l’impressione che passasse un tempo infinito prima di sentire il successivo. Idiota, si disse prendendosi la testa tra le mani e costringendo il respiro a riprendere un ritmo regolare. Tra qualche giorno finirà tutto. Ma non riuscì a trovare né sollievo né rammarico nella certezza del ritorno a casa.
Salvatore appoggiò i piedi al pavimento e si voltò verso la portafinestra accuratamente accostata. Le tende si muovevano appena, a tratti increspate dall’aria fredda della notte; un’automobile solitaria passò nella strada e i suoi fari illuminarono per un attimo la stanza di un cupo bagliore. Gino doveva essere là fuori. Che diavolo starà facendo?, si chiese con un moto di preoccupazione. E di rabbia perché non avrebbe dovuto essere preoccupato, perché Gino era perfettamente in grado di cavarsela da solo e se non aveva chiesto il suo aiuto allora voleva dire che non ne aveva bisogno. O che non lo voleva. Magari stava di nuovo scambiando messaggi con qualcuno... Salvatore inspirò profondamente e buttò fuori tutto il fiato sperando, invano, che il malumore lo seguisse: ormai non avrebbe neppure saputo dire se era davvero con Gino che ce l’aveva oppure con se stesso. Si voltò verso il comodino di Gino e intravide la sagoma dell’abat-jour spenta, quella del libro che stava leggendo e sopra... allungò la mano per sincerarsene: sì, era proprio il suo cellulare. Era solo.
Posso esserci anche se non mi cerca, pensò Salvatore. Non mi manderà via. Non ha il mio stesso stupido orgoglio.
Non era certo la prima volta che perdevano una partita importante, ma non aveva mai visto Gino così sconfitto. La scena nello spogliatoio di quel pomeriggio, dopo la partita, gli tornò in mente con prepotenza: ora aveva la possibilità di dirgli ciò che non aveva detto – hai fatto una gran partita, capitano, sia in campo che fuori –,  di agire invece che limitarsi a fulminare con lo sguardo i compagni che avevano fatto quello che lui avrebbe dovuto fare. Proprio come quel pomeriggio, continuava a provare la stessa voglia di condividere quel peso che pareva schiacciarlo, di vedere sul suo volto un sorriso che arrivasse a illuminargli gli occhi. Si morse l’interno della guancia: lui non aveva mai dato importanza a cose come queste, liquidando sempre situazioni simili con un’alzata di spalle e l’immancabile saranno cazzi suoi. Ma quando si trattava di lui erano anche affari propri.
Sapeva di non essere mai stato gran che bravo con le parole, ma avrebbe trovato il modo di farsi capire, a costo di essere brusco, irruente, perfino aggressivo. Di una cosa era certo: non riusciva più a sopportare quel silenzio che era calato fra loro, denso e soffocante come la nebbia in una fredda e umida giornata d’inverno. Si strinse la radice del naso tra il pollice e l’indice e serrò forte le palpebre: doveva farlo. Doveva uscire e parlargli perché erano mesi che quel chiodo fisso di nome Gino e di cognome Hernandez non gli dava pace e, fino a quel momento, la situazione non aveva fatto che peggiorare. Non lo faccio per lui, mentì. Pensare di farlo solo per se stesso forse gli avrebbe dato un po’ più di coraggio.
Si alzò in piedi e si sgranchì il collo e le spalle per poi dirigersi deciso verso il balcone.
 
“Se vuoi suicidarti fai prima a buttarti di sotto. L’assideramento, a queste temperature, richiederebbe una lunga e sofferta agonia.”
Gino sobbalzò. “Non volevo svegliarti,” mormorò. Voltò lo sguardo verso Salvatore, per sincerarsi che fosse reale e non frutto di un’allucinazione, quindi riportò le braccia sulla balaustra e l’attenzione sulle luci della città.
“Non l’hai fatto.” Salvatore si avvicinò. Un brivido gli partì dalla nuca e gli corse lungo la schiena, fino a perdersi chissà dove. Non dovevano essere più di dieci gradi lì fuori. “Che ci fai ancora in piedi alle quattro del mattino? Provi a buscarti una polmonite?”
“Non riuscivo a dormire. E avevo bisogno di aria.” Quella sensazione di claustrofobia che si impossessava di lui ogni volta che si sentiva inquieto non gli dava tregua. Si era voltato e rivoltato nel letto per ore, senza sosta, provando a dormire e fallendo miseramente nell’impresa: troppi pensieri avevano fatto della sua testa il loro personale campo di battaglia, troppe situazioni gli erano scappate di mano e ora gli parevano irrisolvibili e al di fuori della sua portata. Si sentiva irrazionalmente in colpa di tutto quello che era andato storto. Com’è che gli aveva detto il mister? Stupido ragazzo! Aveva avuto ragione: sapeva di non avere nulla da rimproverarsi per il World Youth. E non aveva nulla da rimproverarsi neppure per Salvo, ma avrebbe voluto dirgli mi dispiace perché erano fuori dal torneo, perché lo aveva evitato perché il suo giudizio era diventato così importante da fargli paura e fino a quel giorno non se ne era neppure reso conto pienamente, perché non riusciva a togliersi dalla testa quello che avevano detto Luca e Serena e, soprattutto, perché avevano dannatamente ragione. Perché aveva desiderato avvicinarsi a lui abbastanza da essergli amico e invece... “Mi dispiace averti svegliato,” ripeté, soprapensiero. Stava tremando: il freddo e l’umidità dovevano essergli entrati dentro a tradimento. Come lui.
“Torna a letto prima di congelarti completamente.”
Aveva sentito Gino voltarsi e rivoltarsi nel letto senza trovare né pace né sonno. Quella scintilla di serenità che gli aveva visto sul volto illuminato dal display del cellulare sembrava non esserci mai stata.
Gino non aveva dato segno di aver inteso le sue parole, tanto che Salvatore si chiese se le avesse udite. Il capitano non mostrava nessuna voglia di rientrare. Aveva la pelle delle braccia increspata dal freddo, le nocche delle dita arrossate e gli occhi lucidi, ma  non si era spostato di un millimetro. Era stupito e contento che Salvatore fosse venuto a cercarlo e, allo stesso tempo, contrariato: non era ancora pronto per parlargli. Doveva riappropriarsi del suo equilibrio prima di poter sostenere il suo sguardo deluso.
“Tu non mi stai ascoltando.” Salvatore gli appoggiò le mani sulle spalle, possessivo.
Gino sussultò a quel contatto: le mani di Gentile erano calde attraverso la stoffa leggera della maglietta. Si irrigidì: Salvatore avrebbe potuto fraintendere. O capire come stavano le cose, che sarebbe stato anche peggio.
“Che c’è, Hernandez?” sbottò Gentile, spazientito. “Non è da te comportarti così.”
Gino voltò appena la testa per intercettare il suo sguardo. Si stupì nel trovarlo più preoccupato che deluso. “Così come?”
“Stare zitto. Isolarti. Congelarti inutilmente.” La stretta sulle spalle del portiere si fece più vigorosa.
Gino inspirò profondamente. Salvatore aveva perfettamente ragione, ma in quel momento era l’unica cosa che riuscisse a fare. Fingere – o anche solo dissimulare – non era mai stato nelle sue corde, soprattutto quando i pensieri erano troppi e troppo aggrovigliati. “È solo una serata storta,” si schermì, nella speranza di non suscitare nuove domande. In fin dei conti Gentile era sempre stato la riservatezza fatta persona, perché mai era così interessato a lui proprio ora?
“Lo so che non mi consideri un amico, Hernandez,” citò Salvatore. “Ma se vuoi possiamo parlarne.”
Di nuovo, Gino cercò i suoi occhi. Non vi trovò sarcasmo, così come non ce n’era stato nella sua voce.
“Credevo che le lamentele ti infastidissero.”
“Per te potrei fare un’eccezione.”
Probabilmente Gentile sarebbe stato un ottimo confidente se non fosse stato la causa di gran parte dei suoi turbamenti. Gino sorrise, suo malgrado, e sentì i muscoli del collo e della schiena rilassarsi così all’improvviso da avvertire una vertigine e trovarsi a poggiare la testa alla spalla di Gentile senza sapere come ci fosse arrivato. Durò solo un attimo e Gino si irrigidì di nuovo. Era sleale che proprio ora Salvatore diventasse così premuroso, quasi affettuoso nei suoi confronti. Sarebbe stato più facile mettersi l’anima in pace se il difensore fosse stato scostante come suo solito, persino sgarbato. Per la prima volta nella sua vita Gino avrebbe voluto un pretesto per litigare. Avvicinarsi ancora a Salvatore sarebbe stato deleterio: ne sarebbe uscito a pezzettini. Ma neppure litigare era nel suo stile. Forse sarebbe stato meglio semplicemente parlarne.
“Perché?” gli chiese Gino semplicemente, roteando gli occhi all’indietro. Lo vide contrarre la mandibola e fissare lo sguardo lontano in quell’espressione che aveva imparato a riconoscere come la faticosa ricerca delle parole giuste da dire. Ma il silenzio si protrasse a lungo e Gino chiuse gli occhi, assaporando il tepore del suo corpo. Si sentì addosso improvvisamente tutta la stanchezza fisica e mentale di quella giornata e, per la prima volta, sentì anche il sonno, la voglia di addormentarsi e di lasciarsela alle spalle. La voglia di addormentarsi sulle sue spalle.
“Pensi che non sia capace di essere un buon amico?”
Gino spalancò gli occhi, riportato improvvisamente alla realtà dalla sua voce. “Non credevo che ti interessasse essere mio amico,” rispose, con un tantino di brutalità in più del previsto.
“Perché?” Salvatore corrugò la fronte. “Perché sei frocio?”
Gino si tese a un tratto, non aspettandosi una frecciata del genere. Dopotutto avrebbero litigato anche senza un pretesto. Diede uno strattone per liberarsi della presa del difensore, ma le mani di Salvatore si spostarono veloci sul suo torace, tenendolo bloccato.
“Sensibile sull’argomento?” gli soffiò Salvatore sul collo.
“Dipende come viene trattato.” C’era una nota dura nella voce di Gino che a Salvatore non piacque per niente.
“Pensi che io non potrei trattarlo a modo?”
“Non è che finora ti sei distinto in delicatezza.” Gino diede un altro strattone, ma Salvatore non mollò la presa. Non era uscito a congelarsi per litigare con lui, non l’avrebbe lasciato andare via più stizzito di prima. Si morse la lingua, arrabbiato con se stesso. Non l’aveva detto per offenderlo, era solo che... era inutile girarci intorno: aveva talmente tanta paura di ammettere a se stesso che Gino gli piaceva che trattarlo male era diventato un’abitudine, una sorta di esorcismo contro i suoi stessi sentimenti. Un esorcismo che era ora di lasciarsi alle spalle. Quanta consapevolezza porta una notte insonne!
“Non credevo fossi così suscettibile.”
Gino lasciò andare un lungo sospiro. Piegò il capo in avanti e si guardò le mani che stringevano la balaustra. Aveva disgustosamente voglia di urlare. Ma non gli avrebbe fornito il pretesto per farsi dare della checca isterica. “Salvo, te lo chiedo per favore: smettila di infierire. Se ti è così intollerabile, dillo. Puoi cambiare stanza oppure lo posso fare io, non è un problema. Puoi smettere di parlarmi quando non è strettamente necessario, lo farò anch’io se vuoi. Non sopporto essere giudicato da te per questo. Ora meno che mai.”
Idiota!, si disse Salvatore. La voce calda e pacata di Gino lo fece sentire terribilmente in colpa. Appoggiò la fronte lì dove il suo collo si staccava dalle spalle. La sua pelle era fresca, il suo odore sapeva dell’umido della notte.
“No.” Non voleva perderlo.
Gino sospirò: nonostante tutto ci aveva sperato che Salvatore capisse. “Va bene, va bene lo stesso. Lasciami andare e...”
“No.” La sua voce era poco più di un soffio sulla pelle. “Non voglio che tu cambi stanza e non voglio che tu smetta di parlarmi. Non succederà più.”
Le braccia di Salvatore cingevano mollemente il suo addome, ora. Sarebbe bastato molto meno di uno strattone per liberarsi, solo che Gino aveva perso ogni voglia di allontanarsi da lui. Voleva solo capirlo e, magari, farsi capire.
“Ti dà fastidio?”
“Cosa?” chiese Salvatore, perso.
“Che io sia omosessuale.” La voce gli tremò appena. Gli succedeva tutte le volte che si metteva abbastanza in gioco con qualcuno. Come quando si era confidato con Shingo. Per non parlare di quando ne aveva parlato per la prima volta con Luca: in quell’occasione c’erano state anche un paio di lacrime, ma allora era solo un ragazzino e a ripensarci si faceva tenerezza da solo.
Salvatore se lo tirò addosso. Lo sentì di nuovo teso come una corda di violino. Dipendeva tutto da quella risposta, lo sapeva bene. Un semplice no non sarebbe bastato: sapeva che se non fosse stato sincero, Gino se ne sarebbe accorto. E un dannato monosillabo era troppo secco per nascondere il turbamento che Gino gli creava e che non era ancora disposto a confessare fino in fondo. “Mi dà fastidio quando non sei te stesso,” gli rispose serio. “Che c’è che non va, Hernandez? È da quando è finita la partita che sei strano.”
“Abbiamo perso.” Gino si sciolse lentamente dalle sue braccia e si voltò per fronteggiarlo. Si appoggiò di nuovo con le mani alla balaustra a cercare quell’equilibrio che gli mancava dentro. “Adesso siamo davvero fuori.”
“Non mi sembra che tu ti sia risparmiato in campo, capitano,” scandì Salvatore lentamente. Non lo chiamava mai così. “Non hai nulla di cui rimproverarti.”
Gino sorrise: non si era aspettato che Salvatore gli rivoltasse contro le sue stesse parole. “Fa male lo stesso.”
Gentile annuì.
“Avrei dovuto insistere di più per giocare il secondo tempo.”
“E farti spezzare del tutto le braccia? Non dire cazzate, Hernandez!”
“È che nel secondo tempo mi sono sembrati persi. Alessio non riusciva a farsi ascoltare, Marco non riusciva a mettere insieme un’azione offensiva: era in anticipo o in ritardo, non riusciva a prendere il tempo giusto né con i difensori né con gli attaccanti. Christian ha dovuto correre il doppio del solito per coprire i buchi della difesa e...”
“A Christian era rimasto abbastanza fiato per sparare cazzate, quindi per lui non c’è da preoccuparsi. Alessio è un bravissimo ragazzo, ma vive nella tua ombra e quando tocca a lui fare da capitano, invece di tirar fuori le palle, sparisce e gioca peggio. E Marco ha avuto più difficoltà del solito a fare il regista.”
“Contavano su di noi.”
“No.” La voce di Salvatore era bassa e quieta. Non c’era traccia di ironia o di sarcasmo. “Contavano troppo su di noi.”
Gino si masticò il labbro e annuì. Gli era mancato quel giorno in campo, Salvo, gli era mancata la sicurezza che gli dava, la rara capacità di intendersi con un’occhiata, con un gesto, con un cenno del capo. Complicità che, per la prima volta, li aveva accompagnati fuori dal terreno di gioco.
“Tu, invece, non potevi fare di più,” rimarcò Salvatore, prendendogli una mano e accarezzandone distrattamente la pelle liscia con lo sguardo e con le dita. La pelle liscia. All’improvviso corrugò la fronte: “Perché ti sei tolto le fasciature?”
“Mi erano di impiccio,” si difese Gino a bassa voce.
“Non ti facevo così indisciplinato, Hernandez,” lo riprese Salvatore, cercando di suonare spiritoso.
Gino sorrise senza allegria. Sciogliersi le fasciature era stato un po’ come negare di averne bisogno. “Sono sempre stato refrattario ai periodi di convalescenza.”
“Male,” lo squadrò serio Salvatore. “Non potrai tornare a giocare se non guarisci.”
“Non giocherò comunque la partita contro il Giappone.”
Gentile gli passò due dita sotto il mento. Gli fece sollevare il viso e lo scrutò con occhi indagatori. “Ti disturba così tanto non giocare contro Aoi?”
Gino si costrinse a non distogliere lo sguardo. Aveva gli occhi di un colore particolare, il difensore, un grigio azzurro che cambiava tonalità con la luce e, forse, si disse il portiere, anche con l’umore. E in quel momento apparivano particolarmente cupi. “Mi disturba che tu non possa giocare.”
Salvatore corrugò la fronte, pensieroso. Accarezzò la guancia di Gino con il pollice. Arrivò fino all’angolo della mandibola per poi ridiscendere lungo la sua linea e fermarsi appena sotto le sua labbra.
“Io?” chiese stupito.
“Ti avevo chiesto di avere fiducia, ricordi? Che mi sarei... che ci saremmo impegnati tutti per farti giocare di nuovo in questo torneo? Non ce l’abbiamo fatta.” Gino piegò appena la testa di lato, lo sguardo che fuggì dal suo perdendosi nelle ombre del balcone.
Era per questo?, si chiese Salvatore. No, non può essere per questo, sorrise dentro di sé. Non poteva tenerci così tanto a quella promessa. Se contro l’Uruguay la frustrazione era stata causata dalla sconfitta, contro il Messico invece erano stati proprio quei compagni che avrebbero dovuto lottare al suo posto per il suo stesso obiettivo e che non erano stati capaci di farlo a deluderlo. Tranne Gino, ma Gino era un altro discorso. Lo costrinse ad alzare il viso, delicatamente. “Ma tu la promessa l’hai mantenuta, capitano,” gli sussurrò con una dolcezza che non sapeva neppure di avere.
Gino sorrise, guardandolo di sottecchi. Si morse il labbro inferiore, ormai dolente per quanto se lo era torturato coi denti, incapace di credere alle proprie orecchie, incapace di convincersi che anche con Salvatore le cose potessero essere semplici. “Temo che dovrai aspettare il campionato per misurarti nuovamente con Shingo.”
Gentile strinse i denti: ecco di nuovo quella nota di dolcezza nella voce di Gino, la stessa che aveva negli occhi quando lo guardava. Ed era solo per lui, per Shingo Aoi.
“Che ha tanto di speciale per te quella scimmia?” sbottò.
“È un amico,” rispose Gino semplicemente. “E per te?”
Salvatore si morse la lingua: inveire non sarebbe stata una buona idea. Pensa, ordinò a se stesso. Dopo tutto quello che è successo, non puoi semplicemente dire “non lo so”. Inspirò profondamente e trattenne l’aria, lo sguardo fissato su un punto indistinto, cieco a tutto fuorché ai propri pensieri.
La sconfitta subita al mondiale giovanile di Parigi ad opera di una nazione senza una minima tradizione calcistica come il Giappone, Salvatore l’aveva presa come una questione personale. Né lui né Aoi avevano giocato quella partita, ma trovarselo come avversario in campionato era stato, per Gentile, un dono della Giustizia Divina. O delle Erinni, si corresse ora, conscio di aver cercato solo vendetta. L’esuberanza e l’esibizionismo del centrocampista nipponico avevano acuito quell’antipatia che aveva provato a pelle nei suoi confronti ancora prima di incontrarlo in campo. Lo aveva battuto – umiliato persino – ogni volta, per dimostrargli che mai sarebbe stato all’altezza del calcio che giocava lui, ma Aoi non si era mai arreso e ogni volta aveva rilanciato la sfida al prossimo incontro.
Salvatore riportò lo sguardo su Gino: era ora di dare un nome al fuoco che alimentava la sua acrimonia contro il giovane giapponese, ma il suo orgoglio non si decideva a collaborare. Lo aveva infastidito vedere come ogni volta, accanto a Aoi, c’era Gino pronto a mettere una mano sulla spalla al compagno di squadra, a fargli una battuta e a strappargli un sorriso. Sembrava dirgli non mollare, perché la prossima volta sarai tu a vincere. E ogni volta che qualcuno insultava Aoi, Gino si metteva di mezzo con la stessa determinazione con cui difendeva la propria porta: l’aveva fatto coi suoi compagni di squadra e l’aveva fatto con lui. Era un pensiero disturbante, che si chiuse come una morsa attorno al suo stomaco. Ma Gino aveva difeso anche lui dalle stupide battute dei loro compagni di squadra il giorno dopo quella dannata Cerimonia di inaugurazione. E c’era stato anche per lui con una mano sulla spalla, un abbraccio e un sorriso quando si era ritrovato battuto. Persino umiliato, aggiunse, buttando fuori tutta l’aria che aveva trattenuto. Aveva sempre pensato che tra Hernandez e Aoi ci fosse un rapporto speciale e aveva creduto e temuto che fosse ben al di là della semplice amicizia... ma Gino non mentiva mai, si rincuorò.
Salvatore spiegò le dita fino ad avvolgere la guancia di Gino. “È una stupida scimmia che merita una lezione,” sorrise, senza il solito sarcasmo.
Il portiere socchiuse gli occhi, godendosi il tocco di quella carezza, lasciando pesare il viso sulla sua mano aperta. Le sue labbra si piegarono in un sorriso appena accennato che, lentamente, gli illuminò tutto il viso. “E tu cosa sei allora?” chiese al difensore, irriverente. Persino i suoi occhi azzurri sorridevano ora.
Salvatore deglutì, sentendosi avvampare. Un violento brivido gli diede di nuovo la nitida percezione della notte, dell’umidità e del freddo che li avvolgeva, del calore delle proprie mani e della pelle fresca di Gino. Si avvicinò lentamente al suo viso, osservando la serenità dipinta sui suoi lineamenti. Gli pareva di respirare meglio ora, come quando si viene investiti dal sole dopo aver guidato a lungo nella nebbia. Si costrinse a fermarsi prima di arrivare a sfiorare il suo naso con il proprio: non poteva – non voleva – rovinare quel momento con un gesto avventato. Fece scivolare la mano sulla sua nuca e guidò il suo volto nell’incavo tra la propria spalla e il collo, per togliersi ogni tentazione.
Gino lo assecondò senza opporre nessuna resistenza. Quel nodo gordiano composto dai suoi muscoli in un punto indefinito tra le spalle e la nuca, frutto di tutte le tensioni che accumulate durante quell’estenuante giornata, si era finalmente sciolto. Sentiva la testa piacevolmente leggera e le palpebre pesanti: ora sarebbe riuscito ad addormentarsi. Il suo cuscino non sarebbe stato comodo come la spalla di Salvo, ma va bene così, si disse, godendosi il momento. Gli cinse la vita con un braccio e voltò la testa sfiorandogli il collo prima con la punta del naso, poi con il respiro. Si chiese se Salvatore stesse provando quelle stesse sensazioni che lui aveva provato la prima notte, quando lo aveva infilato sotto le coperte: il desiderio di stendersi senza lasciarlo andare, di scaldarlo e di lasciarsi baciare, di addormentarsi e di svegliarsi abbracciati. Sto già dormendo, concluse Gino senza smettere di sorridere.
Salvatore gli passò un braccio attorno alle spalle, l’altra mano immobile tra i suoi capelli. Dove mi farai andare a finire, eh, Hernandez? Anche Gino doveva sentire il suo cuore che gli martellava impazzito nel petto. E non era solo il cuore a essere impazzito, anche il cervello doveva essere andato in acqua. Certi pensieri – non mi bastano le sue labbra, è il suo sorriso che voglio – potevano nascere solo da un cortocircuito. Vuoi davvero sapere chi sono io? Salvatore chiuse gli occhi e accarezzò lentamente i suoi capelli. Anche il suo orgoglio dovette capitolare. “Uno che la lezione l’ha già ricevuta.”
***
 
Note dell’autrice:
Chiedo umilmente perdono a tutti quelli – Releuse in particolare – che seguono questa storia che, di punto in bianco, ho smesso di aggiornare.  Purtroppo la RL mi ha chiesto, in questi mesi, un tributo in tempo e energia che non mi ha lasciato tempo per dedicarmi ad altro. Non posso promettere nulla sulla regolarità dei prossimi aggiornamenti, ma tranquilli: leggerete il finale. La cosa buffa è che la storia è praticamente tutta scritta, solo che mi sono ritrovata senza il tempo di rivedere i capitoli... peccato che le mie revisioni, di solito, siano più impegnative della stesura! XD
Al solito, un ringraziamento ad Ale che evita che pubblichi terribili strafalcioni o incongruenze stridenti e una strizzolata a Releuse e Melantò per i loro bellissimi commenti.
E un abbraccio a tutti i lettori!
Grazie dell’attenzione,
Blackvirgo aka F.
   
 
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