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Autore: UncleObli    27/09/2012    2 recensioni
La solitudine è come un veleno. Si infiltra subdola nelle crepe della vita quotidiana. E cosa accade quando la speranza, così irresistibilmente effimera, svanisce in un battito di ciglia? Questo è ciò che è accaduto al protagonista di questa storia.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Ero solo. E al buio. Ogni luce intorno a me sembrava spenta, e il freddo pavimento sul quale giacevo rannicchiato mi aveva instillato un gelo innaturale nelle membra. Aprii gli occhi. Non ero sull’autobus, e intorno a me non vi era anima viva. Mi guardai intorno, confuso.  Mi trovavo in una stanza abbandonata, decadente, forse un ufficio, in altri tempi. Non vi era alcuna mobilia, eccetto una vecchia scrivania, coperta di polvere. Dall’unica finestra proveniva una pallida luce, innaturale come il resto del luogo. Non era la luce del sole, né della luna, né delle stelle, ma qualcosa di completamente diverso. Rinuncia a definirla, inquieto, e mi voltai, alla ricerca di qualche indizio sulla natura del luogo e su come uscirne. Non c’era alcuna porta, solo un grande specchio, e sulla superficie riflettente spiccavano, terribili, delle macchie vermiglie, tracciate forse per formare qualche oscuro messaggio. Mi avvicinai, barcollante, il mio corpo era rigido, forse per la lunga immobilità e la posizione scomoda.
Da quanto tempo sono qui?  Mi chiesi.  Ma soprattutto come sono entrato? Come posso uscire?
Esaminai attentamente le scritte, vergate frettolosamente e con mano tremante…era sangue? In ogni caso non erano leggibili. Continuai ad osservare lo specchio. Al contrario del resto della mobilia sembrava nuovo…anzi, non dava impressione di far parte dell’arredamento. Come se fosse stato posto lì intenzionalmente, dopo. Ma dopo cosa? Improvvisamente attraverso il riflesso dello specchio, vidi con la coda dell’occhio uno strano movimento e sentii un fruscio di vesti. Spaventato mi voltai improvvisamente. Nella stanza ero solo. Ma sulla scrivania, prima assolutamente vuota, ora giaceva una piccola bambola di ceramica. La mia inquietudine ora rasentava la paura. La bambola, alta non più di 50 centimetri era seduta, con le piccole gambe a penzoloni sul vuoto e mi guardava. I suoi freddi occhi dipinti mi fissavano, implacabili come il destino. Era vestita sobriamente, al contrario delle molte bambole che siamo soliti vedere nei negozi per bambine, con un vestito blu notte strappato in più punti e una cuffia bianca ingiallita dall’età. Non potevo muovermi, anzi non lo volevo fare. La bambola sorrideva, con un espressione serafica e distante, ma tutto pareva un ostentata finzione. Freddo e crudele, si sollevò un vento innaturale, così forte e implacabile da far cadere sul pavimento di marmo la piccola bambola. Andò in frantumi. Poi, come se avesse assolto al suo compito, si placò, repentinamente così come si era levato. Un coccio del pupazzo rimbalzò sino ai miei piedi. Lo calciai via: non tolleravo nemmeno la sua presenza. Alzando lo sguardo, notai con stupore che dove prima non vi era nient’altro che un muro, ora si estendeva un lungo corridoio, così lungo da non poterne scorgere la fine. Restai impietrito, non sapevo cosa fare.  La paura mi assalì. Iniziai a correre, volevo allontanarmi il più possibile da quel luogo. Corsi per molto tempo, forse per ore, o più probabilmente per giorni interi, senza vedere la fine di quel terribile corridoio. Ormai non avrei potuto tornare indietro nemmeno volendo: una porta di legno, annerita, forse dal fumo di un incendio, si era chiusa dietro di me, rendendo obbligato il mio percorso. Un senso di impotenza si fece strada nella mia anima, come un tizzone ardente conficcato nel cuore da un dio scellerato. Poi iniziai a sentire passi alle mie spalle, e parole incomprensibili, versi e strofe di oscure canzoni che sarebbe stato meglio seppellire nell’oblio, mi venivano sussurrate nell’orecchio. Finalmente vidi la fine di quell’interminabile corsa: una porta, prima piccola e distante come una stella irraggiungibile, e poi sempre più vicina. La aprii, frenetico, e la chiusi dietro di me con la chiave che trovai infilata nella serratura. La stanza in cui mi trovavo era molto più grande, e buia. Capii in un soffio dove mi trovavo. Era la fabbrica di giocattoli di mio padre. Ma era irriconoscibile, consumata dal fuoco e dall’incuria, sugli scaffali impilati l’una sull’altra decine e decine di giochi per bambini abbandonati. Mi trovavo dunque nel magazzino. Poi sussultai, e inizia a tremare, incontrollato. Alle mie orecchie giungeva sempre più vicino il suono affilato di metallo che stride, trascinato sul pavimento. Non avevo modo di nascondermi, i passi sembravano ovunque. E finalmente una luce si accese, soffusa,  e scorsi davanti a me una figura familiare, vestita con un impermeabile rosso. Nella mano sinistra stringeva una pesante ascia, di quelle che si usano per tagliare la legna in montagna. Era Sally. Ma non sembrava nemmeno lei. Era molto più bella, tanto per cominciare, e la sua pelle riluceva di un candore infantile, in contrasto con le goccioline di sangue che le imperlavano il viso. Sembrava anche più vecchia. Non mi mossi nemmeno. Non osai respirare. Non osai parlare. Potevo solo attendere che la falce del dio si abbattesse su di me. Lei sorrise.

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