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Autore: AntheaMalec    01/10/2012    9 recensioni
John trattenne il respiro, cercando di non provocare nessun rumore e complimentandosi con se stesso per l’ottimo risultato. John, guardandolo così indifeso, con la fievole luce che proveniva dalla finestra a illuminarlo, pensò che il loro rapporto poteva paragonarsi a un elastico. Erano stati legati ancora prima di conoscersi, ancora prima che John fosse stato sparato e Sherlock avesse bisogno di un coinquilino con cui condividere l’affitto, legati da un elastico che li aveva allontanati e allontanati solo per, alla fine, farli scontrare e intrecciare.
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Okay, probabilmente non sarò presente per un po’ di giorni a causa del trasloco imminente, ormai, quindi ho voluto pubblicare questa ultima fanfiction come “dono” per voi, sperando che nessuno si dimentichi di me *piange* So che questa trama è un trita e ritrita di solite cose, ma il fluff mi ha colpito come un boccino in testa e allora non ho potuto fare a meno di sorridere, imprecare e incominciare a scrivere.
Grazie a tutti quelli che lasceranno un commento: vi amo perché siete la mia famiglia.


 

 
Let you rest your head on me if that's what you need



 
 
Some nights, I stay up cashing in my bad luck 
Some nights, I call it a draw 
Some nights, I wish that my lips could build a castle 
Some nights, I wish they'd just fall off 
But I still wake up, I still see your ghost 
Oh Lord, I'm still not sure what I stand for oh 
What do I stand for? What do I stand for? 
Most nights, I don't know anymore...
 
Fun



 
Correvano. Stavano correndo da un tempo interminabile e John cominciava a sentire quello strano intorpidimento che posticipava la corsa avventata in giro per Londra. Riusciva a vedere sfocatamente la figura di Sherlock, metri più avanti, continuare il suo itinerario, senza preoccuparsi del fatto che John, a causa della sua modesta altezza, rimanesse irrimediabilmente indietro. Provò ad articolare il nome di Sherlock, ma gli riuscì solo un rantolo basso mentre il sentiva il cuore esplodergli rumorosamente nelle orecchie. Continuava a tenere gli occhi fissi sul retro del cappotto scuro del suo compagno, non riuscendo a guardare altro se non lui, così irraggiungibile nonostante tutti gli sforzi. Il rumore di uno sparo lo fece sobbalzare, facendogli spezzare il fiato aritmico e facendolo inciampare nei suoi stessi piedi. John sbattè forte la testa contro al marciapiede, i battiti del cuore che cedevano il posto al fischio sinistro della botta. Sherlock, Sherlock, Sherlock, riusciva solo a pensare, raccogliendo le poche forze rimaste e rimettendosi in piedi, pronto a correre da Sherlock, a guarirlo con tutte le sue forze, perché Sherlock era tutto, Sherlock non poteva farsi del male, no, no, no. Grattò i palmi contro il cemento duro e freddo, percependo tutt’intorno a lui un silenzio che non gli piaceva per niente. Quella strada, tutt’un tratto, sembrava aver perso di ogni contorno e importanza, lasciando solo una sfumatura di nero indefinita davanti agli occhi John, occhi che scrutavano l’ombra della notte alla ricerca della sua persona.
“Sherlock?” Provò a urlare, facendo perno sulle ginocchia e riuscendo, finalmente, a rimettersi in piedi senza crollare. Fece alcuni passi avanti, come se una forza gravitazionale lo stesse trasportando da Sherlock, e lo trovò disteso a terra, gli occhi chiari fissi contro il cielo e sangue, sangue, troppo sangue per un solo colpo di pistola.
“Sherlock, Sherlock che cosa…” Gli prese la testa e gliela appoggiò sulla sua gamba, cercando di ricacciare indietro le lacrime che gli offuscavano maggiormente la vista. Provò a trovare e tamponare la ferita, ma sembrava sanguinare da qualunque parte del corpo e le sue mani si imbrattavano sempre di più di quel liquido rossastro.
“Chi è stato? Sherlock, parlami, non…chiudere gli occhi!” John strattonò il cappotto di Sherlock per sincerarsi delle reali condizioni dell’altro. Un piccolo sorriso andò a infrangere la pallida maschera che aveva indossato Sherlock per quella tetra occasione, fermando la corsa impazzita delle mani di John sul proprio petto.
“Non fa niente.” Mormorò, piano. John non riuscì più a trattenere le lacrime che, impertinenti, ruppero i saldi cardini della propria anima da soldato. Come poteva lasciarsi morire? Come poteva farlo di nuovo?
“No, no, io posso salvarti, questa volta posso farlo, non devi preoccuparti, Sherlock, io…” John gli passò una mano tra i capelli aggrovigliati, sforzandosi di trovare una soluzione qualunque per ciò che stava accadendo. No, non di nuovo, Dio, ti prego, non di nuovo. Alzò lo sguardo per intercettare qualche passante a cui potesse chiedere aiuto, ma l’oscurità li avvolgeva come una seconda pelle, rendendo impossibile la vista. Ritornò a prestare attenzione al corpo di Sherlock, notando solo in quell’istante il buco grande quanto un pugno che gli aveva centrato il cuore. Un singhiozzo lo scosse, la mano, che prima era stata dedicata alle coccole, ora cercava di strappare un pezzo di stoffa dalla sua camicia, senza riuscirci.
“Sherlock, non puoi lasciarmi! L’hai già fatto una volta, ricordi? Non ancora, ti prego, Sherlock…non ora che sei ritornato da me.” John tirò su col naso, stringendolo un po’ di più a sé. Era egoista, lo ammetteva, non riusciva a pensare che proprio ora che l’aveva perdonato, glielo portassero nuovamente via. Il suo Sherlock, il suo amore.
“Non lasciarmi da solo…”
“Starai bene, John. E’ tutto okay, sei stato senza di me per tutto questo tempo, puoi farlo di nuovo. Hai…hai Mary, ora.” Mary? Chi era Mary? John aggrottò le sopracciglia, confuso, continuando a spostare lo sguardo da Sherlock alla strada, disperato.
“Che cosa stai dicendo? Non c’è nessuna Mary, Sherlock, ci sei sempre stato solo tu! Promettimi che non morirai, promettimelo.” Mise la mano sulla ferita, pressando in modo tale da fermare il sangue, senza riuscirci –per favore, Dio, per favore, non a me, non ancora.
“Starai bene, l’hai detto anche tu, dopo che ci siamo rincontrati. Mi hai lasciato da solo per altri due mesi. Ti costruirai una famiglia e ti dimenticherai di me, parole tue.” John abbassò la testa, sconfitto. Non era quello che voleva, non lo aveva mai voluto. Aveva parlato in preda alla rabbia, in quei giorni, non era sua intenzione vederlo morire fra le sue braccia una seconda volta. Gli voleva bene, Cristo, gli voleva un bene dell’anima, nonostante fosse un odioso geniaccio per tutto il tempo. John gli strinse un braccio e accostò la propria fronte con quella di Sherlock, facendo cadere alcune lacrime sulle palpebre socchiuse dell’altro.
“No, sei un idiota, non capisci. Voglio stare con te. Sì, sì, voglio stare solo con te, Sherlock!” Sherlock continuava a scuotere la testa, sempre con l’ombra di un sorriso triste sul volto.
“Mi hai lasciato andare.” John non riusciva più a controllarsi, essendo consapevole che quella stretta era troppo oppressiva per Sherlock, già in fin di vita, e che il piangergli addosso come un bambino non gli sarebbe servito a farlo restare con lui.
“No, non ti lascio andare. Prova ad alzarti, posiamo chiamare soccorso, vieni.” Lo afferrò per le spalle, tirando in un ultimo, disperato tentativo, ma il peso del corpo di Sherlock sembrava insostenibile, tanto che non riuscì a muoverlo di un millimetro.
“Forza, Sherlock! Alzati!”
“E’ arrivato il momento, John, non c’è più niente che tu possa fare.”
“No…” Provò a dire John, sentendo la sua anima sgretolarsi insieme a Sherlock.
“Fa male, ma è così. Non restare qui con me se…se non vuoi farlo.”
“Sì che voglio, Sherlock, cosa dici?”
“Mi amerai per il resto della mia vita, John? Dimmelo ora, dimmi che mi hai perdonato.”
“Ti ho perdonato, ti perdono per tutto ciò che hai fatto, ti perdono per avermi lasciato solo e ti perdono per esserti finto forte ma…ma non posso perdonarti anche questo, non posso perdonarti di morire per davvero. Io voglio amarti per tutto il resto della mia vita, Sherlock, per favore.” Sherlock chiuse definitivamente gli occhi, lasciando la frase di John senza una risposta. Mugolò, disperato, scuotendo il corpo senza vita e tenendolo fra le braccia, come un bambino. “
Ti amo, ti amo, ti amo, ma non lasciarmi…” Mormorò, prima di strizzare gli occhi e lasciarsi perdere nell’oblio.
 
John sgranò gli occhi, ritornando nel mondo reale. Sì passò una mano sul petto, cercando di fermare il battito impetuoso del suo cuore e darsi un tono civile. Ricordava quando si svegliava in quel modo, dopo il congedo della guerra e dopo il congedo da assistente dell’unico consulente investigativo, e odiava mostrarsi così debole alle mura silenziose della sua stanza. Riconnetté il cervello e lanciò uno sguardo alla sveglia, notando l’orario indecente, ancora completamente notte. Era andato a letto presto dopo una furiosa litigata con Sherlock, proprio il giorno in cui John aveva deciso di ritornare a convivere con lui, donandogli un’altra chance.
Non c’era proprio riuscito, John, a restare con la bocca chiusa di fronte agli accaduti precedenti –mi hai lasciato mesi da solo e non hai neanche il coraggio di spendere una buona parola per rassicurarmi, come dovrei sentirmi a riguardo? E lui non aveva risposto, come sempre–, quindi aveva ben deciso di salire le scale e chiudersi nella sua stanza, ancora piena di scatoloni appena riportati.
Protetto dal buio, si chiese se fosse stato giusto puntargli il dito contro per l’ennesima volta, nonostante avesse accettato di ritornare ad essere il suo coinquilino. Beh, lui non era stato di certo comprensivo quando aveva pensato di buttarsi dal tetto di un ospedale fingendosi morto per sette, dannati mesi, quindi non doveva sentirsi in colpa di niente.  Ma. Ma c’era qualcosa che gli rodeva nello stomaco, in quel momento. Qualcosa che lo fece alzare dal letto, poggiando le piante dei piedi sul pavimento gelato, e scendere le scale, accostandosi alla porta chiusa della camera di Sherlock. Abbassò lentamente la maniglia, sentendosi sempre più idiota per quella pazzia che stava commettendo. E se Sherlock fosse stato sveglio? Che scusa avrebbe potuto inventare per giustificare la sua presenza in camera sua? Avrebbero rincominciato a litigare? La verità, nuda e cruda, era che, semplicemente, John era stanco. Stanco di litigare con Sherlock ogni qualvolta lo incrociava sul suo cammino, da dopo la caduta, stanco di guardarlo negli occhi e non sapergli dire cosa diavolo provasse realmente nei suoi confronti. Stanco. Spinse piano la porta con due dita, cercando di scorgere la figura di Sherlock da qualche parte nella stanza e trovandola rannicchiata nel letto, con la testa girata verso la porta, verso di lui.
 John trattenne il respiro, cercando di non provocare nessun rumore e complimentandosi con se stesso per l’ottimo risultato. John, guardandolo così indifeso, con la fievole luce che proveniva dalla finestra a illuminarlo, pensò che il loro rapporto poteva paragonarsi a un elastico. Erano stati legati ancora prima di conoscersi, ancora prima che John fosse stato sparato e Sherlock avesse bisogno di un coinquilino con cui condividere l’affitto, legati da un elastico che li aveva allontanati e allontanati solo per, alla fine, farli scontrare e intrecciare. Era successo quello strano processo anche dopo la finta morte di Sherlock. John aveva fatto finta che quell’elastico non fosse mai esistito, aveva cercato di allontanarsi dal polo opposto con tutte le sue forze, ma niente poteva dividere ciò che era legato in quel modo. Aveva sperato, in quei mesi di solitudine, che quell’elastico, quel legame, si spezzasse, finalmente, teso fino allo stremo, ma era successo tutto il contrario: con un rumore violentissimo aveva fatto ritornare Sherlock tra le sue braccia e John si era sentito arrabbiato, deluso, ferito, tradito e abbandonato. Poi la rabbia era sparita, lentamente e progressivamente, e ciò che aveva lasciato in John non era altro che un grande deserto fatto di affetto e felicità, perché Sherlock era vivo, vivo, e lui non poteva semplicemente lasciarlo, non ne era in grado.
Anche nella solitudine e nella furia più nera, John aveva sempre avuto un posto nel cuore riservato solo ed esclusivamente per Sherlock. Una parte che, per un certo periodo di tempo, era stata vuota del suo protagonista e John aveva dovuto riempirla solo di fiori, commemorazione e sentimenti repressi. Una parte che non era mai stata scalfita dalle malelingue della gente, ma che era rimasta fedele al suo padrone, quello vero. C’era ancora in lui quella nota stonata che lo riportava al tradimento subìto riguardante la sua morte, ma la rabbia era solo una parte della medaglia che piano piano si smaterializzava e cedeva il posto al sollievo. Sollievo nel poterlo rivedere e toccare e sentirlo respirare e sparare contro il muro del loro appartamento, come era sempre stato in passato e come aveva immaginato il suo intero futuro.
Sospirò piano, continuando a fissare Sherlock che pareva addormentato –cosa quanto mai rara, quindi ancora più speciale.
“John, il tuo modo di fissarmi è noioso e ambiguo. Puoi entrare nella stanza, non mordo.” Come non detto.
“Stavo andando a letto, sono solo passato per andare in bagno.” Borbottò John, incrociando le dita che credesse a quella bugia paradossale.
“Oh, quindi hai passato mezz’ora davanti alla mia porta perché avevi bisogno del bagno?” John avrebbe voluto soffocarlo con il cuscino, chiudergli la porta in faccia e lasciarlo a marcire lì dentro per sempre e al diavolo che fossero appena ritornati insieme –come coinquilini, ovviamente. John digrignò i denti, irritato, incrociando le braccia al petto. Fece per andarsene quando una nuova ondata di rancore lo sopraffece, facendolo ritornare al punto di partenza.
“Comunque, potresti anche avere un po’ di tatto in più visto ciò che mi hai fatto passare, Sherlock!”
“Ciò che avevo da dirti l’ho già detto, John. Non aspettarti preghiere inutili, lo sai come sono fatto.” Sherlock si girò dalla parte opposta, nascondendo il viso e lasciando agli occhi di John solamente la schiena piegata, dovuta alla posizione fetale. John sentì le mani pizzicare e una gran voglia di accendere la luce e incominciare a picchiarlo assediò il suo cervello. Strinse il legno della porta, cercando di controllarsi.
“Il fatto che tu sia così non giustifica tutte le tue azioni, Sherlock. Non giustifica proprio un bel niente, in realtà.” Sherlock emise un grugnito indistinto, non premurandosi nemmeno di parlargli faccia a faccia o quantomeno di avere la decenza di rispondergli a parole. La pazienza di John stava già per distruggersi in milioni di frammenti, se lo sentiva.
“Potresti girarti? Sto parlando con te, se non te ne sei accorto!”
“Non ho voglia di litigare di nuovo.” John lasciò perdere la presa sul legno della porta per emettere un sospiro sconfitto. Semplicemente si stava arrendendo, arrendendo al fatto che era Sherlock e che, pur essendo ancora incavolato a morte con lui, c’era quella voglia immensa di abbracciarlo e stringerlo che l’aveva ottenebrato fin dal primo momento in cui l’aveva rivisto. C’era quella voglia di abbassare le armi, di mettere da parte tutte quelle parole mai dette, trattenute e usate per ferire, e di usare solo gli sguardi e i fatti, quelli che valevano per mille parole. John aveva provato a gestire il problema Sherlock, in quei mesi, come se fosse una specie di bomba a orologeria, pronta a esplodergli in faccia se l’avesse fatta riavvicinare troppo a lui; poi l’aveva rivisto davanti al suo monolocale, sotto la pioggia, e ancora davanti al suo ambulatorio, alla fermata della metro, davanti al supermercato e ovunque si trovasse. I primi tempi l’aveva trovato irritante, una presa di egoismo che, davvero, non poteva permettersi di fare, alla fine l’aveva, invece, catalogato come affettuoso, un gesto che da Sherlock poteva significare solo interessamento –forse, non ne era ancora molto sicuro.
Fece qualche passo dentro la stanza buia, sperando di non andare a sbattere contro nulla che potesse procurargli dolore o, eventualmente, una di quelle epiche figure da idiota che lo contraddistinguevano agli occhi di Sherlock. Tenne gli occhi fissi sull’angolo del materasso, non volendo incontrare lo sguardo, sicuramente interrogativo, di Sherlock.
“Non voglio litigare neanche io, vorrei solo che…la smettessi di far finta che tutto questo non riguardi te.” Disse, sedendosi sul bordo del letto, pronto ad affrontare il viso di Sherlock, ancora nascosto nel buio rassicurante della notte. “Lo so benissimo cos’ho fatto come so benissimo le mie motivazioni a riguardo.” Mantieni la calma, John, mantieni la calma, si disse, cercando di modulare il tono di voce per creare una conversazione pacifica.
“E hai pensato a come, magari, avessi potuto sentirmi io, a riguardo?” Proruppe, fallendo nel tentativo di non risultare acido e scontroso. Aspettò la risposta di Sherlock, giocherellando di tanto in tanto con un lembo di coperta che Sherlock si era tirato fino alle spalle, nascondendolo completamente alla sua vista.
“Sherlock?”
“Ti ho detto che non ho voglia di litigare.” John gemette, esasperato.
“Non stiamo litigando, Sherlock. Girati e parliamo come due persone adulte.” Sherlock, come risposta, si rannicchiò ancora di più, grugnendo. John aveva imparato ad essere calmo, in quei mesi di convivenza con Sherlock, e ancora di più quando Sherlock non c’era stato e aveva dovuto fare i conti con l’irritazione di ogni singola cosa o persona si trovasse davanti a lui. Ora, quindi, Sherlock non si poteva certo permettere di fare il bambino, voltandogli letteralmente le spalle e arginando la questione, decidendo ancora lui cosa poter fare o non fare. Quel permesso, ora, John non glielo concedeva più.
“Stammi a sentire, Sherlock, o ti giri e discutiamo tranquillamente o posso riprendere tutte le mie cose e tornarmene nel mio monolocale. Sai che lo farò.” John sentì una morsa di vittoria afferrargli lo stomaco quando, con uno sbuffo, Sherlock si mise a sedere sul letto, dandogli la possibilità di vedere i suoi occhi chiari che risplendevano nel buio.
“Io comprendo le tue motivazioni, so che l’hai fatto per proteggere le persone a cui vuoi bene…” Incominciò John, non arrestandosi alla smorfia di sufficienza che si era impressa sul volto di Sherlock dopo le ultime parole. “…però tu potresti anche capire me. Ho passato mesi interi aspettando che un miracolo accadesse e ti facesse ritornare in vita mentre tu giravi in chissà quale città alla ricerca di chissà quali criminali. Non è stato facile, per niente, e non lo è neanche ora, nonostante sia ritornato ad abitare qui.” Sherlock rimase in silenzio, non distogliendo un momento gli occhi dal dottore. John sapeva che Sherlock lo stava ascoltando attentamente anche se la sua espressione continuava a rimanere imperturbabile. Sapeva che Sherlock non era così alieno ai sentimenti come voleva tanto credere, come sapeva bene che li provava tutti, quei sentimenti, in modo nascosto, magari reprimendoli e odiandoli, ma erano pur sempre lì e John poteva percepirli. Non poteva arrabbiarsi con lui per quel motivo, perché c’era quella parte nascosta di lui che era lì e gli urlava silenziosamente, rendendolo sordo e abbassando le sue difese.
“Quindi ora ti chiedo: perché sei ritornato da me dopo tutto questo tempo?” Sherlock distolse lo sguardo, la bocca costantemente serrata che rendeva il suo volto più severo del solito. John non aveva alcuna intenzione di dargliela vinta, al diavolo l’ora tarda e il fatto che il giorno dopo avrebbe dovuto fare il doppio turno a causa dell’assenza di Sarah dall’ambulatorio. Al diavolo tutto, Sherlock era lì con lui e John voleva qualcosa di concreto a cui aggrapparsi per non cadere.
“Perché sei ritornato da me dopo tutto questo tempo?” Riprovò, restando immobile a fissarlo, in una muta supplica.
“Era ovvio che sarei ritornato a casa, John. Il piano che avevo programmato non era a tempo indeterminato, era solo un fattore temporale e poi avrei ripreso possesso della mia vita.” Stava svicolando, John lo aveva capito benissimo. Il modo in cui stringeva il lenzuolo nel pugno, lo sguardo che si perdeva fuori dalla finestra senza mai incontrare la sua figura, erano tutti chiari segni del fatto che fosse nervoso –per la prima volta in difficoltà.
“Sì, ma perché sei ritornato da me? Potevi semplicemente ritornare dalla signora Hudson e continuare a risolvere casi con Lestrade.”
“Eri il mio coinquilino, mi sembrava…doveroso, da parte mia, metterti al corrente dei fatti.” John non riuscì a reprimere un mezzo sorriso a quella vista. Umano.
“E così hai deciso di seguirmi tutti i giorni fino a darti retta? Non mi sembra solo un gesto tra coinquilini, Sherlock.” Sherlock ritornò a guardarlo fisso negli occhi, ritornando uno scalino più in alto di tutti.
“Non ho idea di cosa tu voglia sentirti dire, John, e qualunque cosa sia, non credo faccia per me.”
“Io sono sicuro che tu sappia dove io voglia arrivare.” Disse John, maledicendosi per la piega severa che aveva preso la sua voce. Si morse l’interno guancia, avvicinando, esitante, la propria mano a quella di Sherlock, poggiata sul suo ginocchio. Sherlock sgranò gli occhi, ritraendo istintivamente la mano, facendola cadere mollemente sul lenzuolo, vicino a lui.
John riscoprì una nuova parte di lui che non aveva mai visto nei mesi precedenti alla caduta; non aveva mai avuto l’istinto di toccarlo, prima, o meglio, l’aveva avuto ma era stato così solido nelle proprie convinzioni sessuali da reprimere ogni impulso e rinchiuderlo a chiave in uno sgabuzzino, per non farlo uscire mai più. Non gli era mai sembrato tipo da abbracci, Sherlock, o da coccole sul divano, nonostante il più delle volte si comportasse da bambino e si spiaccicasse su di lui, prendendo tutto il posto sul sofà. Eppure ora, vedendolo con il capo reclinato in avanti e i riccioli scuri a coprirgli la visuale del suo volto, John non resistette all’impulso di toccare ancora quella pelle che aveva solamente sfiorato. Rompere i suoi argini per disegnare nuovi schemi. Riprovò nuovamente ad allungare la mano, passando dalle unghie, alle nocche, al palmo, con una lentezza estrema, come se dovesse addomesticare un animale selvatico.
“John…” Mormorò Sherlock, alzando di poco la testa per poterlo osservare.
“Per favore, Sherlock.” John lo guardò ancora, sentendo il cuore riempirsi di un sentimento strano ed enorme, che non accennava a farlo respirare, ma solo annaspare in cerca di aria e affetto. Si sbilanciò un poco, puntellando i palmi vicino ai fianchi di Sherlock e le ginocchia contro il materasso duro, fino a trovarsi viso contro viso, ad una distanza vicinissima. John alzò le braccia e si lasciò trasportare dalla situazione, abbracciandolo stretto e premendo le mani contro la schiena di Sherlock, coperta solo dalla maglia leggera del pigiama.
“Mi sei mancato, Dio, mi sei mancato dannatamente.” Sherlock restava immobile in quella presa, forse troppo sorpreso o scioccato o disgustato, John non lo sapeva e, in realtà, non voleva nemmeno saperlo, perché in quel momento andava tutto bene. Era lì la prova che Sherlock aveva sconfitto la morte ed era ritornato da lui. Era lì la prova che erano riusciti a mettere da parte tutto e a ricominciare, semplicemente con la perseveranza e testardaggine di Sherlock e l’infinita pazienza e bontà di John. Sherlock mosse piano le braccia, andando a stringere il maglione di John all’altezza del petto, in una presa debole ma presente. Umano.
“Non credere che mi sia dimenticato la mia domanda, Sherlock. Sto ancora aspettando la tua risposta.” Proruppe John, dopo un silenzio infinito, con ancora la testa che sfregava dolcemente contro la spalla di Sherlock.
“Non credo l’avrai mai, John.” John sorrise, a dispetto di tutto. Da quella posizione poté vedere la sveglia poggiata sul comodino che segnava a caratteri cubitali le tre e mezza del mattino. Avevano decisamente esagerato. Lasciò lentamente la presa dal corpo di Sherlock, assaporando gli ultimi rimasugli di calore che quel contatto gli aveva provocato. Si alzò e fece il giro del letto, andando a disporsi nella parte libera del materasso matrimoniale che Sherlock aveva preteso appena avevano deciso di abitare in quell’appartamento –ovvero subito.
“John, cosa stai facendo?” Domandò Sherlock, ancora fermo nella posizione precedente. John  si tirò le coperte fino alla testa, tirando appena per far spostare Sherlock, ostacolante di quell’impresa.
“Beh, dormo, mi sembra ovvio. Abbiamo già fatto abbastanza tardi e sto morendo di sonno, non sono più abituato a restare sveglio quarantotto ore di fila.” Borbottò svogliatamente, rimanendo vigile per constatare la vera reazione che Sherlock avrebbe avuto alla sua mossa.
“Non hai più paura che la gente possa parlare?” Chiese, mettendosi anche lui sotto le coperte e depositando una mano sotto al cuscino, con il viso rivolto verso John.
“Ormai non ha più importanza.” Constatò, scrollando appena le spalle. Sherlock sorrise e John con lui, avvicinandosi un po’ di più al suo corpo e sentendosi emozionato come un bambino alle giostre.
“Buonanotte, Sherlock.”
“Buonanotte, John.” Sherlock chiuse gli occhi e John restò a guardarlo per minuti interi, immerso nell’ombra come se fosse una piacevole coperta nel quale nascondersi e trovarsi. L’istinto di allungare il collo e baciarlo sulle labbra gli venne naturale, così come posare una mano sulla sua guancia e solcare con le dita ogni linea e ombra che quella notte aveva da offrire al volto di Sherlock.
Sherlock premette le labbra contro quelle di John, un bacio a labbra chiuse e cuore aperti che fece rabbrividire il medico come se fosse il più ardito dei gesti –e forse un po’ lo era, ma andava bene così. John si staccò, ponendo fine al momento stato idilliaco e riprendendo posto sul suo cuscino, avvicinando la mano a quella di Sherlock, sotto al cuscino, stringendola piano.
Chiuse gli occhi, con un sorriso soddisfatto sul volto, sentendo, finalmente, che tutti i pezzi del puzzle stavano tornando al loro posto, insieme ad altri nuovi e pieni di sorprese, come era sempre stata la sua vita al fianco del detective.
C’erano persone legate da un elastico: non importava quanto tempo cercassi di spezzarlo o di allontanarti dall’altro polo, esso continuava a riportarti al punto di partenza, facendoti ricordare ogni singola volta che c’è sempre un’altra parte al quale siamo legati, anche senza volerlo, anche se combattiamo con tutte le nostre forze.
John aveva provato a combattere il ricordo di Sherlock con tutte le sue forze, dopo la sua finta morte, e al suo ritorno aveva incominciato a combattere lui stesso, non capendo che, in fondo, non si può mai combattere ciò che si ama davvero.
   
 
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