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Autore: CowgirlSara    01/10/2012    8 recensioni
Ogni mattina mi sveglio e aggiungo un giorno ad un conto che potrebbe diventare infinito.
Non so perché lo faccio, sembra uno di quegli stupidi e inutili conti dei giorni che mancano alla fine della scuola. Ma la scuola non finirà prima solo perché tracci un segno su un’altra casella del calendario. Tu non tornerai e un giorno mi dovrò rassegnare a smettere di contare.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'The Great Divide'
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Ordinary life of a doctor
Orbene, eccomi qua. Come mi ero ripromessa, ho affrontato il POV di John sulla grande lontananza, non so cosa ne è uscito ma era una necessità per il “Gruppo di Autoaiuto Post-Reichenbach”, affrontiamo insieme la cosa day-by-day XD Aderite numerosi, tè e pasticcini sono ben graditi.
Spero di essere riuscita a immedesimarmi abbastanza, perché decisamente la sociopatia di Sherlock mi è più consona (forse perché siamo entrambi Capricorni). Il lutto però, purtroppo, lo conosco e so che la rabbia e la frustrazione ne sono una componente importante. Ditemi voi cosa ne pensate.

I personaggi appartengono ai loro legittimi autori, che dovrebbero finanziare il “GAPR” - detto tra noi. Io non ci guadagno niente se non scervellamenti inquantificabili. I versi vengono dalla stupenda “This depression” di Bruce Springsteen, che fin dal primo ascolto mi ha fatto pensare alla condizione di John – grazie di esistere zio Bruce, God bless you.
Vi lascio alla lettura, statemi bene.
Sara

- Ordinary Life of a Doctor -


I haven't always been strong, but never felt so weak
All of my prayers, gone for nothing
I've been without love, but never forsaken
Now the morning sun, the morning sun is breaking


Oggi è venerdì. Un altro venerdì per cui quelli dell’ufficio di fronte ringraziano Dio esponendo un cartello al vetro della finestra. Per me è solo finita un’altra settimana.

Vado avanti un giorno alla volta, come quelli dell’anonima alcolisti. Forse mi daranno la medaglietta dei due anni di sobrietà... Sarcasmo? Un po’, sì. Aiuta a far passare i giorni. Sempre meglio che diventare davvero alcolista, o cominciare a drogarmi, oppure buttarmi sotto il treno delle 7,15 della Bakerloo Line.

Non che ci abbia pensato davvero. Ho visto troppa morte, per non apprezzare la vita.

M’incammino verso casa. Londra ha quell’odore forte e grigio di quando sta per piovere. Il vento mi sferza a raffiche erratiche, uggiose, trasportando le foglie dell’ennesimo autunno.

Un altro autunno senza di te.

Mi chiedo se smetterò mai di pensarti, se mi metterò l’animo in pace. Dovrebbero davvero fare un gruppo per disintossicarsi da Sherlock Holmes.

Mi ci è voluto un po’, all’inizio, prima di dirmi: ok, ce la faccio, posso tornare nel mondo.

Sì, va bene, ogni tanto la gamba mi disturba di nuovo. È come se mi conficcassero degli spilloni nell’anca e nel ginocchio. Ma ho deciso che riprendere il bastone non era un’opzione.

Tu avresti disapprovato. Mi avresti guardato impassibile, sollevando un sopracciglio e giudicandomi col tuo silenzio.

Perché mi ricordo così bene le tue espressioni? Non credo sia naturale, dopo tutto questo tempo.

Sono tornato al lavoro dopo qualche settimana. Ho fatto doppi turni, guardie, tutto ciò che c’era da fare. È tutto quello che m’è rimasto.

Una vita normale.

Un lavoro duro. Bollette da pagare. Traslochi. Qualche amico che chiama ogni tanto. La spesa. Il traffico. Le Olimpiadi. La pioggia. La crisi. Una birra al pub. Lo sciopero della metro. Un saluto a Mrs. Hudson. La visita dalla terapeuta. Il cibo da asporto. Litigare con Harry…

Certo, tutto tranquillo.

Niente più ladri, assassini, mafiosi, serial killer o consulenti criminali.

Niente più adrenalina.

Niente più Sherlock…

È quando il mio cervello arriva a questo punto che mi devo fermare e prendere un respiro più profondo.

Vivo. Perché è così, si va avanti.

Ho perso mio padre che ero un ragazzo e ce l’ho fatta. Ho perso mia madre e non mi sono fermato, sono partito per la guerra. Ho perso te e combatto la mia battaglia più grande.

Ogni mattina mi sveglio e aggiungo un giorno ad un conto che potrebbe diventare infinito.

Non so perché lo faccio, sembra uno di quegli stupidi e inutili conti dei giorni che mancano alla fine della scuola. Ma la scuola non finirà prima solo perché tracci un segno su un’altra casella del calendario. Tu non tornerai e un giorno mi dovrò rassegnare a smettere di contare.

Il tempo scorre inevitabile e io aspetto qualcosa che non succede.

Ogni tanto vado al cimitero. Non spesso, mi fa incazzare. La tua tomba è sempre in ordine, probabilmente Mycroft paga qualcuno per mantenerla. Non ho più visto tuo fratello dal funerale, non saprei cosa dirgli. Ho pensato di odiarlo, per un po’, ma poi mi è parso inutile anche quello. Quando, però, una macchina nera e lucida mi passa accanto, ho ancora i brividi.

Non vivo più a Baker Street. La scusa è che non potevo più permettermelo. Ci sono stato l’ultima volta per prendere la mia roba ed è stato… Sarebbe stato meglio se mi avessero sparato di nuovo.

C’eri tu, dappertutto. In ogni angolo, in ogni piega, in ogni molecola d’aria. Ed erano passati più di tre mesi dal tuo funerale. Il profumo del tuo fantasma mi ha mozzato il respiro e le gambe.

Non potevo permettermi di stare così male, proprio nel momento in cui ricominciavo a vivere.

Ora sto in un appartamento carino, luminoso, economico, che non puzza di chimico, di bruciaticcio, di cadavere decomposto. Non profuma di sapone e camice ben stirate.

Un posto che non è Baker Street e non ha il tuo odore.

Adeguarsi per sopravvivere, dicono.

Io mi sono adeguato e sono sopravvissuto. Ho cambiato casa, orari, abitudini. Sono invischiato in una vita che non mi sembra la mia.

È una noia mortale.

Santo Dio, quanto mi manca sentirti dire: noioso!

Dicono che una delle cose peggiori del lutto sia cominciare a dimenticare la voce delle persone che non ci sono più. Io potrei giurare di sentire ancora la tua, ogni tanto.

La voce era una delle cose che più ti caratterizzavano. Così profonda, cavernosa, calda, espressiva, avvolgente, ipnotica quasi. Avrei potuto ascoltarti per una vita intera.

E invece ho potuto farlo solo per poco più di un anno. L’esistenza è ingiusta.

Sono fermo ad un semaforo rosso ed un autobus mi passa davanti. La pioggia comincia a cadere subito piuttosto forte. Oh, Londra, almeno potresti avvertire… Sbuffo e m’infilo nella Tube.

Ho incontrato Greg, qualche giorno fa, per caso. C’era una scena del crimine sulla strada che percorrevo per andare a comprarmi un paio di scarpe. Lestrade è stato cordiale, amichevole, stasera andiamo a bere una birra insieme, era da un po’ che non lo facevamo.

C’erano anche Donovan e Anderson. Non hanno avuto nemmeno il coraggio di guardarmi, quei due ipocriti. Chissà se ci hanno goduto a vedere la pozza del tuo sangue sul marciapiede.

Che schifo mi fanno tutti quanti. Tutti quelli che hanno dubitato di te.

Sei sparito presto dai giornali. Troppe principesse in topless e divi dei reality che cambiano sesso, a quanto pare, per occuparsi ancora di un mediocre truffatore. Meglio così, non ci tenevo a vederti ancora coperto di fango, dopo che ti hanno preso anche la vita.

Eri una persona così speciale che – e perdonami l’immodestia – per apprezzarti bisognava essere un po’ speciali a nostra volta.

Sono fiero di poter dire: ero amico di Sherlock Holmes.

Sono orgoglioso di dichiarare: io ho visto la sua umanità e voi no, non sapete cosa vi siete persi.

Ti ho voluto bene, Sherlock. A te ed ai tuoi difetti.

Sarà per questo che ora mi sogno la tua figura nera contro il cielo chiaro e la tua voce spezzata in un telefono che mi mente piangendo lacrime vere.

Dio, ti odio! Mi hai ricoperto di bugie a cui sapevi benissimo non avrei creduto mai. E non posso nemmeno riempirti di pugni per questo.

Sono ancora così arrabbiato con te e mi chiedo se mi passerà mai.

Perché non mi hai fatto salire a trascinarti giù da quel fottuto cornicione? Ti avrei afferrato per quel cazzo di bavero e ti avrei tirato giù con tutta la mia forza. Ti avrei chiesto perché, perché, perché, stupido idiota, vuoi buttarti da un tetto e spezzarmi il cuore.

E poi ti avrei abbracciato. Perché nessuno lo ha mai fatto, vero Sherlock? E me ne sarei fregato delle tue proteste, perché ti volevo bene ed ero spaventato.

Che pensieri sciocchi ma, soprattutto, senza utilità.

Quasi mi sembra di sentirti, con la tua brutale praticità, affermare che è tempo perso pensare a cosa non si è fatto, perché per l’appunto non lo abbiamo fatto e indietro non si torna.

Non ho fatto e detto troppe cose con te e ora è tardi per tutto.

Continuo a ripetermi che ho una nuova vita, adesso, che dovrei smetterla di far inchiodare il cervello ogni volta che penso a te, che questo ricordo dovrebbe cominciare a fare meno male. Sono quasi due anni e mezzo, in fondo.

Non è così male, la vita che faccio. Molti me la invidierebbero, coi tempi che corrono.

Ho un lavoro, una casa decente, qualche amico, ho anche… una fidanzata.

Sì, beh, è capitato.

Si chiama Mary – oh, so che lo troveresti noioso! Me l’ha presentata Sarah, una sera al pub, circa un anno fa. Fa la commessa in un grande magazzino a Hammersmith. È carina e dolce, tranquilla. E io ne avevo bisogno. Ci siamo andati piano all’inizio, ma ora è… bello.

Mary è morbida, accogliente, ha un carattere ottimista e pratico.

Non ha angoli, spigoli o aculei che ti fanno sanguinare le dita.

Ha gli occhi scuri e placidi, Mary, così tranquillizzanti.

Non due lame di pugnale trasparenti, inquietanti e belle da morire, che ti attraversano l’anima lasciando ferite che non si chiuderanno mai più.

Mi domando perché mi sono lasciato ferire così tanto da te. Come ho potuto farti penetrare così a fondo nella parte indifesa del mio cuore. Io, che non mi fidavo di nessuno.

Quando credo di aver raggiunto un po’ di conforto, un po’ di pace, tu – arrogante come sempre – torni da qualche sogno lontano e t’imponi nella mia mente.

Neanche Mary basta più, in quei giorni.

Lei si domanda, sai, perché possiedo una vestaglia di seta azzurra che non metto mai e che, comunque, mi andrebbe lunga.

È l’unica cosa tua che ho preso da Baker Street.

Per fortuna lei non c’è, quando, in quelle sere in cui fa brutto tempo nel mio cuore, mi stringo al petto quell’indumento che, orami, non può certo più profumare di te e piango come un bambino abbandonato dalla mamma. Quanto sono patetico.

Riesci ancora a farmi piangere, sì. Contento?

Perché ricordo le tue lacrime, mentre mi mentivi – quanta rabbia, le tue bugie – e mi hanno fatto ancora più male dei tuoi capelli inzuppati di sangue, dei tuoi occhi rivolti ad un cielo ingrato, della tua mano stranamente fredda stretta nell’ultimo contatto con la mia…

Vorrei soltanto riuscire ad accettare la tua morte. Come ho accettato quella dei miei genitori. Come ho superato quelle dei compagni in guerra, dei feriti sotto le mie mani di chirurgo.

E invece no, tu continui a tormentarmi.

E io so qual è il motivo.

È perché tu sei – sì, al presente – Sherlock Holmes.

Io non posso credere che qualcuno sia riuscito a spingerti ad un gesto simile soltanto minacciando la tua reputazione, anche se era Jim Moriarty. Non senza che tu avessi un piano di riserva.

Sì, certo, la sua mente era geniale quasi quanto la tua, ma c’è qualcosa dentro di me che insiste nell’affermare che tu dovevi aver previsto tutto.

Una flebile, impaurita, scintilla di speranza, che teme anche solo di farsi vedere.

È quella che mi ha chiesto d’implorati di non essere morto, di smetterla di farmi così male.

So che è assurdo, perché ho visto il tuo corpo sfracellato. Eri tu. Ero sconvolto e confuso, avevo sbattuto la testa, ma eri tu. Morto su un marciapiede.

Eppure, in dei momenti, ancora non ci credo.

Non puoi essere stato tanto debole e idiota.

Non puoi essere stato così cattivo con me, perché lo sapevi che ti volevo bene.

Lo sapevi, oltre quella cortina di ghiaccio, impenetrabile e inespressiva, dietro la quale ti sei sempre rifugiato, come una sfinge scolpita nella neve che nasconde un cuore di fragilissimo cristallo.

E non importa quello che hai sempre detto dei sentimenti. Io so che hai sofferto. Perché, Cristo, l’ho sentita io la tua voce rotta dalla commozione. L’ho avuto io il tuo addio.

Non sembravi per niente uno che ha voglia di andarsene.

E so di aver sfiorato il tuo cuore, in qualche modo.

Ma devo confessarti che ne avrei bisogno ora, perché non sono mai arrivato così in basso.

Avrei bisogno del tuo cuore, ma sta marcendo sotto sei piedi di terra. È inconcepibile.

Non mi affretto, tra la folla dell’ora di punta. La gente invece corre verso il convoglio in arrivo. Un turista mi urta con lo zaino e biascica un “Sorry” dall’accento strambo. È alto e magro, come te, ma onestamente non ti ci avrei mai visto coi bermuda.

Gesù, quanto avremmo riso per una cosa del genere!

Oh, se l’amore si misurasse in risate, quanto ci saremmo amati, noi due!

Ho usato proprio quella parola e quel verbo? Amare?

Sì, l’ho fatto.

Perché, in tutta onestà, non saprei proprio come altro chiamare quello che ho provato per te.

Quanto lontano ci aveva visto, Irene Adler? Quanto poco lontano ho guardato io, preso dalle mie paure e pregiudizi?

Quello che c’era tra noi prescindeva qualsiasi definizione restrittiva. Tu sei sempre stato oltre ogni definizione, per questo non si può catalogare il sentimento che ci univa. Il groviglio inestricabile di sentimenti direi, è più giusto.

È già buio, quando esco dalla metropolitana. I pub sono pieni, solo un altro venerdì sera, in una città lucida della pioggia che ha già finito di cadere. Londra è indifferente e accogliente, come sempre, come una vecchia signora che non ti negherà mai una tazza di tè o un bicchierino di cherry, ma scordati che ti faccia una confidenza.

Tra poco sarò a casa. Accenderò il bollitore e nel frattempo mi farò una doccia. Sono stanco. È dura fare una vita ordinaria. L’abitudine mi uccide.

Mi stancavo meno a starti dietro mentre correvi tra i vicoli, saltando da un tetto all’altro – incosciente che non eri altro. Ma mi bastava guardarti un attimo negli occhi, per sapere che non avrei voluto fare altro, mai.

Ora cosa guardo, quando torno a casa? Un ordine militare e un po’ asettico dentro un bilocale stretto, che non potrebbe mai contenere la tua energia come facevano le pareti dilatate di Baker Street.

Questa è solitudine. È la depressione che fingo di non avere. È la speranza che muore ogni giorno, come le mie preghiere finite nel niente. È qualcosa a cui nemmeno le telefonate confortanti di Mary possono rimediare.

Domattina mi sveglierò. Potrebbe esserci Mary, calda e profumata, accanto a me. O forse solo la tua vestaglia bagnata dalle mie lacrime. Ma mi sveglierò e conterò un altro giorno.

Novecentotre giorni senza di te.

E avrei bisogno del tuo cuore, perché non l’ho mai sentito battere. Non ho mai posato la mia mano sul tuo petto e sentito il riverbero del tuo battito sul mio palmo. Almeno avrei saputo che eri vero.

Vorrei svegliarmi domani e vedere il mattino spezzare questo brutto sogno. Vorrei sentire il tuo cuore e il tuo violino. Vorrei la tua voce che mi ordina di fare il tè. Vorrei i tuoi occhi che mi ringraziano.

E sapere che per qualcuno, i miracoli esistono.

This is my confession
I need your heart
In this depression
I need your heart

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Hm, continuo a pensare che quella col POV di Sherlock sia uscita più incisiva, però magari mi sbaglio. Volevo rendere l’idea di quanto frustrante potesse essere la vita di John senza Sherlock ed il suo modo di negare il più possibile il dolore. Se funziona potete dirlo solo voi lettori.
Volevo anche che Londra comparisse come una specie di personaggio. È una città che amo molto, non mi stanca mai e mi sorprende sempre. Credo che anche i personaggi la amino, mi sembrava giusto darle un po’ di spazio.

Attendo i vostri commenti, impegnatevi vi prego!
Baci
Sara

   
 
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