Le
vicende che hanno coinvolto il mio
tentativo, che ancora non possiede una risposta, di conoscere se avessi
potuto
intraprendere la via dello scrittore e fregiarmi di una tale qualifica,
si
intreccia con i numerosi sforzi per riuscire a non vanificare gli studi
e le
esperienze fatte.
Le
vicissitudini in
campo lavorativo seguono, sebbene non in maniera pedissequa, le
medesime
disavventure dell’Io letterario.
A
fornire solo un
brevissimo stralcio c’è una missiva indirizzata
alla Preside della Facoltà di
Sociologia dell’Università degli studi di Napoli
Federico II:
Gentile prof.
Enrica Amaturo:
Sono un Laureato
in Sociologia, per chiarezza ed onestà devo informarLa
che collaboro saltuariamente con la prof. G.R. e ho vinto una borsa di
studio
presso la Facoltà di Sociologia per collaborare alla
realizzazione del rapporto
di ricerca “Immigrazione in
Campania”,
ho conseguito inoltre un diploma di perfezionamento in
Psichiatria-Sociale presso la Seconda Università di Napoli.
Le scrivo
perché oramai sono diventate insormontabili le barriere
burocratico-amministrative per favorire le caste privilegiate di coloro
che
posseggono “Mani amiche”.
Mi domando se non
ho già pagato abbastanza il fatto di essere stato uno
studente lavoratore e per questo motivo essermi sentito dire agli esami
che “…Purtroppo,
nonostante sia andato
benissimo, dobbiamo abbassarti il voto poiché non hai
seguito i corsi…”,
o meglio dopo aver compiuto studi e ricerche
sul campo per due anni per la realizzazione della mia tesi ottenere
solo
quattro punti, che hanno ulteriormente influito su
quell’adorata valutazione
finale che oggi m’impedisce di avere almeno un’arma
numerica contro lo
strapotere dei raccomandati e delle poco chiare manovre istituzionali.
Non Le sottraggo
altro tempo e Le mostro subito la mia proposta. Sono
disposto a lavorare gratis ad uno dei progetti che Le invio in
allegato,
qualora Lei li ritenesse di valida attuazione. Le chiedo solo
l’appoggio
nominale della facoltà e il riconoscimento istituzionale del
lavoro.
Sicuro di un Suo
interessamento, Le porgo cordiali saluti.
La
risposta a questa
missiva, giunta chiaramente senza aver concesso il minimo sindacale
interesse
verso i progetti presentati, fu una sorta di spiegazione, intimazione,
fattami
pervenire tramite una docente, spiegazione della quale ancora oggi mi
chiedo il
significato.
Per
contrastare
questa melma istituzionale non avevo le solide prove che invece detengo
per
fronteggiare l’altra faccia della stessa medaglia e dello
stesso sistema.
Amici
della giuria
vi ho mostrato come in un manoscritto, poi divenuto libro, ho
anticipato idee,
situazioni, che sono tangibilmente state usate anni dopo da chi aveva
ricevuto
in visione il manoscritto.
Per
questo motivo o
ci troviamo di fronte ad un veggente, e se così fosse
bisognerebbe darmene atto
e merito, oppure c’è qualcosa di strano e poco
chiaro in questa vicenda.
Dai
soggetti
interessati, Maria De Filippi stessa o solo dalle persone del suo staff
coinvolte, con abile maestria, seguendo la tecnica del pizzica e
spilucca,
spilucca e pizzica, hanno attinto idee, situazioni, per inserirle anno
dopo
anno all’interno della loro macchina da soldi.
Hanno
potuto
compiere questa paziente operazione forti del fatto che
l’autore del canovaccio
dal quale attingevano utile e fruttuoso materiale era uno dei tanti
nessuno,
spiantato e senza alcun alleato, che se avesse voluto ribellarsi
avrebbe dovuto
scontrarsi con uno dei più potenti fruitori di quel sistema
tentacolare di
omertà e collusione all’italiana impossibile da
superare. Se di malafede non si
tratta nasce spontaneo chiedersi come mai nessuno, e ripeto nessuno, si
sia mai
preso la briga di inviare un semplice messaggio con il quale avvertire
il
mittente delle numerose candidature, che avevano ricevuto il materiale,
ma che
non lo ritenevano di loro interesse? L’immotivata
aggressività e suscettibilità
mostrata dalla collaboratrice stretta della Signora De Filippi, poi, ci
suggerisce solo una cosa, dopo aver esaminato i messaggi privi di
qualsivoglia
offesa, volgarità o turpiloquio inviatele, che sentirsi in
torto e non essere
in possesso di mezzi efficaci per contrastare l’accusatore fa
aumentare la
rabbia e la comprovata aggressività sproporzionata del
colpevole. Come vogliamo
giustificare, inoltre, l’omertoso e perpetrato silenzio di
tutti coloro che
hanno orbitato attorno alla vicenda? Non nascondiamoci, quando qualcuno
denuncia qualcosa ed invita tutti coloro ai quali ha sottoposto la
questione a
prendere visione ed analizzare il materiale che prova quanto asserito,
è
quantomeno doveroso, soprattutto se si tratta di organi
d’informazione o di
gruppi che vantano di avere come unico obiettivo quello di smascherare
torti e
malefatte liberi da legacci e costrizioni, farsi carico di raggiungere
colui
che denuncia per analizzare e valutare le prove. Se, infatti, si ignora
la
questione sottoposta, scartandola e bocciandola a priori, senza
compiere alcuno
sforzo per ottenere un contatto diretto con il racconto e con le prove
che lo
supportano, allora ci troviamo di fronte a due semplici soluzioni; una
devastante incapacità professionale oppure una conveniente
malafede.
E’
chiaramente
impossibile che fra tutti coloro che sono stati contattati non ci sia
una sola
persona capace nel fare il suo lavoro, soprattutto mi rivolgo a tutti
quelli
che hanno mostrato un meccanismo fallace e superficiale di
discernimento e
valutazione solo nel caso specifico che ha riguardato “Voglia
di Volare”,
mantenendo un altissimo profilo per quasi il 100% di tutti gli altri
casi
trattati, mi riferisco ovviamente a Striscia la notizia.
Questa
vicenda
focalizza l’attenzione su un aspetto che credo fondamentale,
se esiste qualcuno
che veramente crede insostenibile la situazione nella quale si
è costretti a
vivere e desidera concretamente cambiare le cose, ebbene, questo o
questi
individui hanno il dovere di non fuggire dalla verità, anche
se essa spinge ad
ammettere l’esistenza di situazioni spiacevoli e poco
edificanti.
Questa
storia, amici
della giuria, ci ha mostrato che siamo, almeno in Italia, in una
condizione
nella quale un’oligarchia di furbi ha preso esempio dal
passato, consapevoli
che per esercitare le loro manovre sia necessario fare leva su una
massa
informe, che deve necessariamente restare nell’ignoranza. Un
tempo si impediva
al popolo di leggere, di conoscere, perché
l’erudizione esalta la diversità e
spinge l’uomo ad unirsi per esprimerla liberamente.
Mentre
in epoche
lontane si voleva l’uomo chiuso
nell’oscurità della non conoscenza per
sottrargli anche la dignità, oggi gli abili manipolatori,
attraverso una falsa
libertà e conoscenza, professata e ostentata anche dai
coreografici e pseudo
nozionisti della manovrata comunicazione, offrono alla massa informe la
possibilità di accedere ad una enorme quantità di
piaceri, comodità ed effimere
ed insulse esaltazioni dell’ego.
E’
ovvio e
consequenziale che i mercanti d’ogni sorta appoggino questa
oligarchia, certi
di riuscire a piazzare ogni tipo di merce, da quella materiale a quella
umana.
Per
attuare queste
alchimie è necessario poter contare sulle masse
più numerose e plasmabili, che
dal nascere del cogito umano sono sempre state i giovinastri acerbi e
presuntuosi d’essere ciò che nemmeno conoscono e i
deficitarii fanatici, dei
quali questo paese ne è traboccante.
Quale
migliore
strategia se non far credere agli uni d’essere
l’unica fonte d’energia
affidandogli ogni sorta di possibilità e compito,
manovrandoli nell’ombra per
condurre l’agire ed il pensiero nell’unica via
utile all’oligarchia, mentre
agli altri concedere un poco di spazio, restando nell’attesa
che il resto pensi
a farlo il loro deficere unito allo straripante e patologico delirio.
Coloro
che invece si
sentono schiacciati tra queste due potenze, sebbene riescano a
discernere e
capire ciò che sta accadendo, compiono quanto di
più nefasto e deprecabile
esista nell’agire umano; adattarsi per compiacere il proprio
tornaconto e le
proprie paure, riempiendo unicamente la bocca di pompose e sterili
parole.
E’
per questo motivo
che in ogni angolo della struttura sociale che si è venuta a
creare,
modificandosi e agendo come se fosse una creatura indipendente e
regnante, lo
scontro frontale non sortisce alcun effetto, se non alimentare la
creatura dai
molteplici aspetti ma dall’unico seme.
La
sola via da
percorrere per sovvertire in modo concreto e repentino la situazione
è quella
di operare dal di dentro, è necessario che chi ricopre ruoli
significativi e
detiene un certo tipo di potere, dall’interno di questa
società, sappia reagire
ed agire, attraverso la creazione di fatti concreti che squarcino il
velo di
regresso dietro il quale si nasconde e opera l’oligarchia del
nulla, per
lasciare immediatamente il posto al saper fare. Ciò
consentirebbe di operare
per la realizzazione di una nuova organizzazione sociale volta a
garantire le
necessità naturali della collettività, che
inevitabilmente influenzerebbero
positivamente e stabilmente il singolo, al quale si aprirebbe
l’infinito
orizzonte dell’espressione della propria diversità.
E’
proprio di questo
che si è parlato nelle vicende che hanno caratterizzato
“Voglia di Volare” nel
suo divenire prima parole, poi frasi ed in fine pagine.
La
diversità di cui
parlo è un aspetto dell’Essere di alcune persone
che non si vede e del quale
non si parla. Tale diversità differisce da quelle
più conosciute poiché non
mostra i segni visibili e tangibile del suo divenire.
La
diversità che
intendo è profonda, celata all’occhio, non si
parla di colore diverso,
religione diversa, sesso diverso, aspetto fisico diverso, tratti
concretamente
individuabili, ma di diversità dell’Essere. Questo
è un tratto non
immediatamente riconoscibile, che non consente a chi interagisce con i
pochi
portatori di tale caratteristica di venire immediatamente a conoscenza
del
fatto di trovarsi in un confronto con qualcuno che pensa ed agisce
fuori dagli
schemi preordinati di quei troppo numerosi gruppi sociali, che si
articolano
attorno ad una ingannevole convinzione di libera e consapevole
espressione di
giusti valori.
Tutto
ciò non
consente al primo soggetto di attuare i consolidati comportamenti di
repulsione
e allontanamento repentino del diverso, mettendo in moto meccanismi
ancora più
perversi che sviluppano una immediata reazione di coesione, menzognera,
che si
trasformerà in repulsione e ghettizzazione di quel tassello
che non è possibile
collocare in alcuno schema.
Diverrà
necessario
l’ostracismo verso ciò che non si capisce, che fa
paura, nei confronti di quel
reietto che mostra la solida diversità del suo Essere,
attraverso
l’incondizionata supremazia di quei valori solo teoricamente
e falsamente
ostentati dai gruppi tra loro connessi, ma soprattutto percorrendo la
via del
fare.
Prima
di soffermarci
a riflettere su ciò che abbiamo fatto quando ci siamo
trovati ad essere
inconsapevoli protagonisti di un incontro del genere e come desideriamo
realmente che si esprima il nostro essere, abbiamo la
necessità di fare luce
sul concetto di diverso, di altro da noi. Un concetto che
necessariamente va
compreso partendo dalle linee di individuazione e comprensione
più comunemente
condivisibili, esso si colloca all’interno di
un’area molto vasta, compresa tra
le macro-diversità e la multidimensionalità delle
micro-diversità.
In
questi ultimi
anni abbiamo assistito ad un repentino e forzato mutamento delle
geografie dei
popoli.
Una
tale azione ha
condotto gli individui verso un processo d’interazione
multirazziale con movimenti
che hanno contribuito all’attuazione d’impatti
forti ed improvvisi.
Simili
processi si
sono articolati attraverso flussi d’imposizione massiccia e
non seguendo
movimenti diluiti e di lenta amalgama.
I
gruppi stanno
velocemente trasformando le loro organizzazioni sociali, dando vita a
società
multi-etniche che generano inevitabilmente un nuovo tipo di
problematiche, non
solo comunicative ma che abbracciano tutti i settori del quotidiano.
Questo
nuovo
scenario, che investe l’organizzazione di grandi e piccoli
gruppi, s’inserisce
in un quadro di problematiche già preesistenti.
Siffatte
questioni
sono il frutto del processo osmotico che intercorre tra i singoli
individui, il
sottogruppo e il gruppo al quale appartengono.
Come
in un
immaginario gioco di cerchi concentrici si parte dal più
piccolo dei cerchi ed
attraverso un processo di continuo interscambio ed influenze si passa
ai cerchi
più grandi, quali i sottogruppi e i grandi gruppi etnici,
senza trascurare che
si tratta di dinamiche in continuo movimento e soprattutto non operanti
in
senso unico.
La
chiave di lettura
di queste nuove informazioni, alle quali gli individui non sembrano
essere
prepararti, è situata proprio nella
multidimensionalità soggettiva degli
individui, ancor più in quella che si genera quando essi
entrano in contatto
con altri soggetti a formare organizzazioni sociali complesse.
Sciogliere
i nodi di
questa che all’apparenza può sembrare una
macchinosa matassa è un’operazione
che richiede un’analisi attenta ed accurata.
La
metodologia
d’intervento che ha dimostrato di poter assolvere questo
compito è di certo
quell’antropologica, che sebbene in forma acerba è
contenuta nella natura di
ogni essere pensante, attraverso i suoi strumenti è,
infatti, possibile
penetrare nel profondo di una cultura portando alla luce tutto
ciò che resta
celato ad ogni analisi superficiale o quantomeno legata a soluzioni
meramente
quantitative.
Operando
in modo
attento è possibile giungere alla conoscenza degli aspetti
peculiari, ma anche
d’affinità, che caratterizzano e per certi versi
avvicinano i diversi gruppi
sociali e singoli individui.
Essi
modellano un
popolo e possono creare barriere insormontabili, se sottovalutati o
superficialmente analizzati.
Attraverso
una
metodologia d’intervento attenta alla
multidimensionalità dei gruppi umani è
possibile dimostrare come l’interazione tra gruppi diversi
possa e debba
avvenire attraverso procedure di conoscenza ed allineamento e non
utilizzando
tecniche invasive. Immaginiamo di far riferimento alla figura di cerchi
concentrici in interscambio, citata in precedenza, e procediamo ad
un’analisi
che parta dal più piccolo dei cerchi; in altre parole il
singolo individuo.
L’intento è quello di mostrare la
possibilità di percorrere una strada
differente da quelle mostrate fino ad ora, per affrontare le
problematiche
dell’incontro tra stranieri ed autoctoni, ma anche i rapporti
all’interno degli
stessi gruppi autoctoni dove alcuni sottogruppi rischiano di divenire
stranieri, senza trascurare la componente individuo che offre le sue
peculiarità all’interno di un gruppo, incidente
ancor più se si tratta di un
piccolo gruppo.
In
conformità a
quanto affermato, questo tentativo di chiarire gli aspetti che si
celano
all’interno di una vicenda semplice e lineare,
partirà da ciò che è considerato
il punto d’origine dell’intera questione.
Partiamo
da un
esempio concreto che ci aiuterà meglio ad affrontare il
percorso.
La
maggior parte
degli individui quando affrontano argomenti nei quali si parla di
diversità
cercano di mostrare d’essere scevri da ogni possibile
pensiero o azione fondata
su modelli standardizzati.
Tutto
ciò accade
solo in una fase che possiamo considerare teorica, poiché le
informazioni che
ci giungono dal quotidiano mostrano che le azioni degli individui si
discostano
grandemente da quanto espresso nel momento dell’esternazione
teorica.
Il
nucleo della
questione è collocabile nella convinzione che gli individui
hanno di possedere
una categoria cognitiva nella quale collocare tutto ciò che
viene percepito
come diverso.
In
realtà grandi
moltitudini d’individui non possiedono una categoria
cognitiva aperta con la
quale gestire le numerose forme della diversità.
Ciò
che è diverso è,
appunto, qualcosa di “eso”
vale
a dire che si trova al di fuori, o che proviene da un ambiente esterno
al
soggetto agente.
All’opposto
tutto
ciò che è “endo”
è situato
all’interno, generato in altre parole nel nostro campo del
conoscere.
Tutto
ciò che
appartiene alla sfera “endo”
non genera alcun tipo di problema. Nel momento in cui dovesse sorgerne
uno, la
soluzione sarebbe reperibile al suo stesso interno, poiché
ogni cosa che si
trova in quest’ipotetica sfera delimitata è
collocabile dagli individui in una
determinata categoria. Nell’ambito di questo supposto spazio
ben delineato,
l’oggetto che vi prende posto assume dei caratteri ben
definiti, riconoscibili
e fruibili dal soggetto al quale appartengono le categorie.
I
problemi sorgono
quando gli individui entrano in contatto con qualcosa che appartiene
alla sfera
“eso”.
Ciò
che si trova in
questo campo, che possiamo considerare esterno al soggetto agente, non
trova
una sistemazione immediata nelle categorie esistenti, non viene
riconosciuta
dal soggetto come un elemento appartenente alla sfera
“endo” quindi ricco
d’elementi conosciuti e fruibili.
E’
noto che tutto
ciò che non si conosce, a cui non è possibile
attribuire caratteristiche
riconoscibili genera nella maggior parte dei casi paura, repulsione e
derisione.
La
derisione è una
reazione alla diversità generata da processi
d’ignoranza o semplicemente da
ludici giudizi di valore osservabile facilmente, ad esempio tra
compagni di
scuola, colleghi d’ufficio o semplicemente facendo caso ai
commenti che noi
stessi facciamo quando osserviamo chi ci sta in torno.
La
paura, di contro,
genera meccanismi più complessi, essi danno vita a reazioni
le quali si
realizzano anche in diversi passaggi.
La
paura si genera
proprio quando l’interazione con ciò che
è diverso ci trasmette un input che
non siamo in grado di collocare in nessuna delle categorie presenti.
I
meccanismi messi
in moto dalla paura non sono facilmente riconoscibili al momento
dell’esordio,
ma guidano il soggetto verso azioni evidenti e catalogabili secondo
connotati
ben delineati.
La
repulsione,
invece, è forse la reazione che più
può inficiare la stabilità di un individuo
diverso, essa sopraggiunge dopo che in una prima fase
d’interazione
intersoggettiva sembrava essersi instaurato un rapporto
d’interscambio fondato
sull’intesa e la comprensione reciproca.
Queste
reazioni dimostrano
che non abbiamo alcun tipo di conoscenza circa le informazioni che
riceviamo e
che dobbiamo elaborare.
La
non conoscenza, o
meglio come i latini ci hanno trasmesso; ignoranza, ci pone ad assumere
atteggiamenti ostili, poiché questo qualcosa
d’ignoto, che si presenta
d’improvviso, mette in azione ogni sorta di meccanismo di
difesa, primo fra
tutti l’allontanamento e l’emarginazione
“dell’eso-oggetto”, se non la sua
eliminazione.
Tutto
ciò accade
proprio perché la presunta categoria aperta alle
diversità, nella quale
collocare eso-input e
considerarli fonte di conoscenza, non esiste. Meglio, esiste solo in
una
mendace fase teorica, scevra da contatti ed esperienze dirette.
Alla
luce di quanto
affermato è necessario cominciare a ridefinire alcuni
concetti.
In
questo quadro è
imprescindibile, difatti, l’analisi del concetto di
“diverso”
e di “altro da
noi” che conducono ad uno degli aspetti che
possiamo considerare
all’origine delle problematiche legate alla attuazione di
quei comportamenti
ostili; la mancanza di una adeguata conoscenza da parte degli individui
delle
eso-culture che inficia l’organizzazione di categorie
soggettive adeguate ad
affrontare la diversità.
E’
bene partire
proprio dal concetto di diversità.
Questo
concetto ha
perso il suo significato originario, per acquistarne uno che gli fa
assumere
un’accezione negativa, quasi dispregiativa.
In
una società del
terzo millennio in pieno regresso culturale, sempre più
etnocentrica, nella
quale la ghettizzazione è l’unica risposta a chi
non assume o non si assoggetta
pedissequamente a standardizzazioni abilmente studiate che coinvolgono
troppo
spesso anche la sfera dei valori e dei sentimenti, perfino le parole
sono
spesso snaturate e tendono ad assumere significati differenti rispetto
all’etimologia
originaria.
Diversità,
diverso,
con queste parole s’indica qualcuno o qualcosa che non
presenta le
caratteristiche endomorfe del soggetto agente.
La
definizione
sembrerebbe giusta se la disposizione egocentrica di chi la adopera non aggiungesse una
seconda parte del tutto
implicita, nella quale il diverso non presentando tali caratteristiche
d’eguaglianza non è degno di occupare il gradino
più alto di un’ipotetica
piramide gerarchica e di conseguenza viene spostato in un piano
inferiore.
Questa
definizione
non tiene conto del fatto che un soggetto il quale non annovera tra le
sue
peculiarità culturali o fisiche determinate caratteristiche,
ne possiederà
certamente delle altre, diverse, ma non di minor valore rispetto a
quelle del
soggetto agente.
Sembrerebbe
più
giusto, allo stato attuale delle cose,
fare uso del concetto “Altro
da
noi” quando ci si riferisce a qualcuno che si
colloca in un’eso-sfera che
fa riferimento ad un endo-mondo
differente dal nostro.
L’uso
di questo
concetto ci consente di far riferimento a processi psichici scevri da
barriere
o limitazioni di qualsivoglia natura.
Parlare
di “Altro da noi”
significa presupporre,
già in fase d’elaborazione delle categorie
cognitive, che si affronta
un’interazione di livello paritario con un mondo il quale
presenta una
differente multidimensionalità.
In
questo caso non
si attribuisce all’analisi della diversità nessun
giudizio di valore.
E’
proprio questo
assunto che si trova alla base originaria di taluni vocaboli e
concetti. Essi
sono stati stravolti e modificati nella loro natura dal repentino
imporsi di
una società che rende impliciti giudizi di valore, negativo,
in qualsiasi
interazione con soggetti che mostrano caratteristiche non congruenti
con le
linee guida dettate da culture presunte dominanti.
“L’altro da noi”
rappresenta un
crogiolo ricco d’informazioni e d’insegnamenti dal
quale poter estrarre linfa
vitale che alimenti la nostra conoscenza, nonché la nostra
esperienza quando
abbiamo la possibilità di affrontare dei processi
d’interazione diretta.
L’incontro
con tutto
ciò che si mostra come “Altro
da noi”
non deve avvenire seguendo un movimento che guidi i due poli in un
incontro-scontro frontale.
Il
cammino deve
essere parallelo, di conoscenze ed interscambio, attraverso il quale
diviene
possibile comprendere a pieno le diversità, consentendo in
tal modo alle
incongruenze di assottigliarsi e non divenire mai fonte di scontri
ricchi di un
inarrestabile regresso della civiltà.
Ad
esempio, diverrà
conseguenza logica giudicare un individuo per le azioni che compie e
non il suo
agire legato a quello che un individuo è, o a ciò
che un’artefatta
stigmatizzazione figlia d’analisi quantomeno affrettate
può fargli
rappresentare.
L’impatto
con l’altro da noi,
spesso portatore di
tratti culturali agli antipodi rispetto a quelli delle culture
autoctone, è
avvenuto e continua ad avvenire in una società oramai
soffocata da quei
caratteri d’etnocentrismo e cecità cognitiva che
non consentono di aprire uno
spiraglio, seppur minimo, a quella civiltà del terzo
millennio tanto auspicata
e anelata dagli individui dei secoli precedenti.
Le
spinte invasive,
per portare un esempio che si leghi alle macro-diversità,
che hanno
caratterizzato e continuano a caratterizzare i flussi migratori tengono
lontani
sia i popoli autoctoni, sia quelli stranieri dalla conoscenza di quelle
peculiarità culturali che contraddistinguono un gruppo
etnico.
Diviene
inevitabile,
in questa situazione, che la non conoscenza conduca a non prendere in
considerazione il credo religioso, le credenze, gli usi, i costumi e
quant’altro fa parte della cultura di un popolo, ma anche di
un singolo
individuo. Tutto ciò alimenta mendaci standardizzazioni,
favorendo la nascita
di rigetto e contribuendo al peggioramento dei problemi esistenti o
addirittura
alla creazione di nuove situazioni di difficoltà.
In
tutte le culture
i diversi ambiti della vita della comunità, se non tutti,
sono più o meno
legati a doppio anello con i dogmi dettati dalla religione, con le
credenze o
con figure carismatiche.
La
multidimensionalità delle organizzazioni sociali che tali
aspetti fanno
emergere rendono alcuni gruppi intrisi di taluni caratteri che
imbrigliano
l’articolarsi delle azioni dell’intero gruppo, ma
anche dei singoli individui,
qualora essi vogliano manifestare medesimi valori ma attraverso
espressioni ed
azioni differenti .
Tutto
ciò rende
evidente quanto sia complesso l’incontro tra gruppi etnici e
singoli individui
che spesso sono agli antipodi.
A
rendere la
questione ancora più ardua si aggiunge il fatto che molte
interazioni, oggi,
avvengono in situazioni di confronto non paritario.
Le
differenze
esponenziali di gestione delle risorse hanno condotto alcuni gruppi
etnici a
credere di essere detentori di un’organizzazione culturale e
sociale superiore alle
altre, superiore nel suo complesso anche alle peculiarità
soggettive, tutto
ciò genera cecità cognitiva e
conflitto.
La
situazione
italiana non è scevra da queste problematiche, anzi, le
manovre perpetrate al
fine di non consentire il raggiungimento della maturità
cognitiva e di
conseguenza l’incapacità di realizzare un
progresso della civiltà, soprattutto
da parte di coloro che occupano ruoli con potere decisionale ed
organizzativo,
rendono l’incontro con il diverso una fonte che genera
problematiche in
continua evoluzione.
Sulla
scorta di tali
argomenti, in una questione delicata come quella
dell’interazione tra gruppi
differenti e singoli soggetti con il gruppo di appartenenza, che come
quotidianamente osserviamo troppo spesso avviene con movimenti
d’imposizione,
l’eccessivo lavoro di ricerca di teorie nozionistiche
allontana da quelli che
sono gli aspetti concreti dei problemi ed affida la soluzione di questi
ad
operazioni asettiche, come se gli interventi fossero simili a quelli
che
possono avvenire in un laboratorio.
E’
fondamentale
porre, anche, uno sguardo attento sulla
multidimensionalità dei sottogruppi.
Le
stigmatizzazioni
culturali sono lo strumento attraverso il quale, malauguratamente, oggi
si
cerca di analizzare e risolvere il problema delle diversità
non solo culturali,
ma anche di valutare e considerare i sottogruppi.
L’errore,
dettato
dalla mancanza di conoscenza delle culture e delle società,
ma soprattutto
delle forme complesse di diversità, nasce nel non
considerare che sebbene “Grandi
gruppi” posseggano tratti
culturali identici ed in apparenza aderiscano alla stessa
organizzazione
sociale, esistono, nel loro interno, sottogruppi (quali ad esempio
quelli che
popolano regioni, città, paesi, frazioni di paese, quartieri
fino ad arrivare
ai piccoli gruppi di aggregazione) che pur conservando quei medesimi
tratti, ne
possiedono alcuni peculiari.
Tali
tratti possono
rendere ardua o addirittura nulla l’interazione, la
comunicazione e la
trasmissione di qualsivoglia messaggio. Tutto ciò
può condurre, ed accade
sovente, ad una risposta negativa o addirittura all’antitesi
rispetto a ciò che
si era prospettato al momento della somministrazione di un input
(stimolo).
E’
anche vero e da
non trascurare che non bisogna prendere in esame solo le
macro-differenze che
sussistono tra grandi gruppi, giacché all’interno
di una stessa popolazione
esistono differenze culturali e comportamentali che non consentono la
standardizzazione delle tecniche di comunicazione e
d’informazione.
Proprio
dall’analisi
di queste micro-differenze che caratterizzano i sottogruppi
è necessario
partire per comprendere e gestire le realtà quotidiane, per
allargare, poi,
l’interesse verso le macro-differenze.
Due
stranieri, ad
esempio, che vanno in uno stesso paese, ma in zone differenti quasi
all’antitesi, come può accadere a chi giunge in
una qualunque nazione, ad un
confronto, sosterranno di poter mostrare peculiarità del
gruppo con il quale
sono entrati in contatto che l’altro interlocutore
troverà del tutto nuove e
non veritiere.
Al
fine di non
entrare nello specifico di una precisa situazione per proporre un
esempio
pratico e tangibile, prendiamo in considerazione un qualsiasi gruppo
etnico; i
suoi componenti presenteranno tratti culturali e comportamentali che
nelle
grandi linee li accomunano.
Ogni
gruppo, però,
anche se non di grandi dimensioni, al suo interno presenta delle
differenze non
trascurabili, come ad esempio accade tra le culture del nord, del
centro e del
sud, ma anche tra quelle dell’estremo Est ed Ovest di un
Paese.
Talune
regioni o
paesi, presenteranno alcune città le quali non solo fanno
emergere una cultura
con tratti peculiari mercati, ma al loro interno la
multidimensionalità dei
gruppi presenti fa prevalere linee guida legate a tratti culturali che
non
sempre possono essere accomunate con quelle dell’intero
gruppo cittadino, tanto
meno è possibile avvicinarle a quello nazionale.
Le
multiculturalità
che concentricamente partono dal macrocosmo di un popolo e portano al
suo
stesso microcosmo, dal quale poi si ritorna al primo per un processo
d’interscambio in continua mobilità, ci mostrano
che l’unica via da seguire per
la gestione delle società complesse è quella
della conoscenza, non teorico
nozionistica ma di studio sul campo.
Nel
momento in cui
si affrontano argomenti delicati, come quelli presentati fino ad ora,
deve
essere chiaro e sempre vivo il concetto secondo il quale il riscontro
oggettivo
della presenza di numerose diversità e la successiva analisi
di queste deve
essere scevra da qualsivoglia giudizio di valore.
Il
fatto stesso di
ammettere, ad esempio, le chiare differenze tra il Nord, il Centro ed
il Sud di
un Paese non implica in alcun modo giudizi che includono considerazioni
positive o negative su l’una o sull’altra cultura.
L’esempio
affrontato
in un ottica di macro-gruppi è estendibile anche ai
microsistemi formati dai
piccoli gruppi e dall’interazione dei singoli che possiamo
considerare come il
Nord, il Sud etc.
Nell’articolarsi
dei
discorsi che quotidianamente si affrontano nei numerosi dibattiti circa
l’argomento diversità, in qualsivoglia ambito essi
siano effettuati, vuoi nel
privato, vuoi nelle trasmissioni radio-televisive e vuoi nella
“rete”, quando
si parla di diverso si adopera con ferma convinzione la parola Tolleranza.
I
fruitori del
vocabolo ostentano enfasi d’emotiva e convinta adesione al
valore quasi
metafisico che ad esso viene attribuito.
La
subdola moda di
pedissequa adesione presa in prestito dal regno animale, non consente
agli
individui di soffermarsi a riflettere sul vero valore contenuto nella
parola
tolleranza (sopportazione).
Essi
non comprendono
che proprio l’uso di questo vocabolo mostra i segni evidenti
della mancanza
concreta di quella “categoria aperta” che
consentirebbe di attribuire il giusto
valore agli eso-input.
Nell’etimologia
della parola è racchiuso il tratto tangibile della presenza
di un soggetto
agente posto in una posizione di superiorità,
dall’alto della quale concede ad
un altro soggetto posto ad un gradino inferiore, di continuare ad agire.
Il
versus opposto di
questo significato vuole uno o più individui essere
costretti a sopportare le
angherie di qualcuno che detiene un potere attraverso il quale esercita
una
qualche forma di costrizione.
In
conformità a ciò
è chiaro che si può tollerare il ticchettio
fastidioso di un orologio, le note
stonate prodotte da uno strumento, la sabbia tirata sul viso da un
bambino privo
di un genitore con il minimo grado d’intelletto che gli
consenta di essere una
buona guida, ecc, ma non si può in alcun modo parlare di
tolleranza quando
vogliamo riferirci ad un essere umano, al suo credo religioso, al
colore della
sua pelle, alla sua appartenenza etnica, all’espressione del
suo Io e a
quant’altro non rientri nelle nostre categorie limitate di
endo-input.
Per
comprendere
meglio la complessità del substrato nel quale
“Voglia di Volare” ed il suo
autore sono immersi, e con il quale hanno dovuto scontrarsi
amplificando ancor
più le difficoltà e le complessità di
una vicenda già di per se ostica e priva
di una soluzione certa e favorevole, è necessario
addentrarsi in una
chiarificazione della multidimensionalità presente nella
realtà partenopea,
troppo spesso soggetta ad abusi di standardizzazione e sciacallaggio
perpetrati
dagli speculatori di turno.
Prendiamo,
quindi,
in considerazione un anello più piccolo della nostra
ipotetica figura di cerchi
concentrici ed esaminiamo, sebbene per grandi linee, la situazione
nella città
di Napoli.
Essa
è una città che
vive, al suo interno, grandi spaccature culturali e comportamentali.
Possiamo
considerare
la presenza di due poli. L’uno che spinge la città
verso un’estremizzazione
negativa delle caratteristiche peculiari del popolo napoletano e guida
l’articolarsi dei comportamenti verso
l’ostentazione esasperata di taluni
tratti. L’azione di questi comportamenti fa emergere
l’ignoranza, il desiderio,
che diviene quasi necessità, di compiere azioni nefaste,
fino alla
degenerazione completa che conduce alle diverse forme di
criminalità.
All’estremità
opposta si collocano i soggetti che appartengono alle differenti caste
della
così detta “Napoli bene”. In questi
sottogruppi regnano i dogmi classisti
secondo i quali il sol fatto di gestire un certo potere economico e
politico,
nonché l’essere in possesso di titoli di studio
rende questi individui una
classe che denota un’elite.
Entrambe
questi
poli, sebbene in modi differenti e con mezzi dissimili, sono legati da
un
interscambio d’affari e convenienze, che gravano
sull’intero gruppo
danneggiandolo e impedendo alla sua vera natura di emergere.
Nel
mezzo, tra
questi due estremi, è collocabile quello che in parole
semplici può essere
considerato il “Vero Napoletano”. Questo
sottogruppo è veramente eterogeneo.
Esso non presenta, nel suo interno, estremizzazioni di sorta capaci di
trasformare pregi unici in perniciosi difetti.
Il
problema è insito
nel fatto che quest’ipotetico centro è compresso,
quasi schiacciato, dai due
poli a causa del potere detenuto dall’uno e
dall’altro, sebbene di natura
differente e soprattutto espresso in modi differenti.
Questo
esempio
espresso la semplice analisi di una macro-struttura che sembra non
essere
attinente con la questione trattata in questo contesto, è di
contro la
spiegazione che serve ad amplificare la malafede e la sudditanza
psicologica,
se non diretta, mostrata da tutti quei soggetti appartenenti alla
realtà
Partenopea che hanno preferito un comportamento omertoso ad una
dimostrazione
di costruttiva diversità, che li avrebbe allontanati dagli
standard nefasti
espressi e condivisi sul territorio Italiano.
E’
inconfutabile che
mostrare e concretizzare la propria diversità costruttiva,
cercando di
sovvertire l’oligarchia del nulla e le salde convinzioni
delle masse, oramai
radicate come imprescindibili valori, comporta, per i soggetti agenti,
la
consapevolezza di dover affrontare l’assunzione di
responsabilità e le relative
conseguenze. Bisognerà, che ognuno sia pronto a lottare
attraverso rinunce e
azioni concrete.
A
questo punto nasce
spontanea un’ultima domanda, alla quale però
diviene difficile se non impossibile
attribuire una valida e comprensibile risposta; perché in un
così ben
congeniato sistema, dalle ancorate radici, protetto da avamposti e
baluardi
impenetrabili, nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontare, anche
solo
privatamente, la questione?
In
realtà non si
sarebbe nemmeno trattato di vero coraggio.
Analizzando,
difatti, attentamente il potere detenuto dalla Signora De Filippi, ma
anche da
autori come Antonio Ricci, unito alla indiscussa misura commerciale di
utile
prodotta e alla grande quantità di fedeli seguaci delle
opere della Signora De
Filippi, si constaterebbe che in alcun modo è possibile
scalfire una tanto
maestosa roccaforte.
Finanche
una
pubblica ammissione di quanto perpetrato in quasi dieci anni potrebbe
mai
diminuire la proficua devozione di quelle masse che alimentano la ben
oleata
macchina commerciale della Signora De Filippi.
La
risoluzione più
confacente al vero che si potrebbe ipotizzare vedrebbe, il vegliardo
reietto
Achille ritornare, dopo l’eventuale apparizione pubblica
concessagli,
nell’oblio del più profondo anonimato, senza una
copia venduta e privo di
alcuna futura considerazione, mentre la maestosa corazzata della
Signora De
Filippi, dopo aver reso innocua la quasi invisibile falla,
proseguirebbe la
trionfale navigazione incontrastata, con il suo capitano osannato e
più forte
di quanto non lo fosse in passato.
E’
tempo di lasciare
a voi lettori che siete giunti fino a questo punto ogni ardua sentenza,
prima
di farlo, però, voglio esporre uno dei soliti eventi che ci
giunge da altre
culture con il quale è mio desiderio congedarmi.
In
una piccola
contea con una posizione geografica un poco isolata rispetto al
più vicino
centro urbano, di uno stato degli USA, la comunità era stata
messa in crisi
dalle tecniche di marketing adottate dell’unico market utile
agli abitanti per
il sostentamento delle proprie famiglie.
Il
proprietario
dell’esercizio, approfittando della situazione di isolamento
e del monopolio
commerciale da lui detenuto per i generi di prima necessità,
aveva deciso di
applicare alle merci prezzi anche sei, sette volte superiori agli
standard
massimi degli altri esercizi commerciali ubicati nei lontani centri
urbani.
I
cittadini della
contea dopo aver più volte segnalato a chi di dovere la
situazione insostenibile,
non avendo ricevuto alcun riscontro, oramai vessati da questo sopruso
ma anche
messi in crisi economica, vollero trovare un modo per far valere le
proprie
ragioni. Si riunirono nella chiesa e stabilirono che l’unico
modo per ottenere
giustizia fosse quello di colpire il commerciante nell’unica
cosa che avesse a
cuore; i guadagni. Decisero per tanto di astenersi, tutti,
dall’effettuare
acquisti in quel negozio, fino a quando il proprietario non fosse stato
ridotto
a ragionevoli soluzioni.
L’azione
di questi
cittadini si perpetrò per mesi, non mancarono i sacrifici e
le rinunce, ma
restarono sempre uniti e nessuno pensò al proprio
tornaconto.
In
un primo momento
il negoziante cominciò a far lievitare ancora i prezzi,
certo che le famiglie
sarebbero state costrette, prima o poi, a fare acquisti necessari.
La
sua strategia
puntava molto sulle necessità dei bambini, ma li ci si
trovava in America con
una concezione differente di necessità e condizione di
bambino, non si era
certo in Italia.
Le
famiglie tennero
duro, fino a quando un giorno sulle vetrine del market apparsero dei
cartelli
promozionali, con prezzi ed offerte mai visti prima.