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Autore: achiauthor    02/10/2012    0 recensioni
Spesso quando si cerca di scrivere una storia che non ha legami con la realtà si ha sempre il timore di riportare vicende che siano eccessivamente fantasiose. Molto spesso, però, la realtà smentisce ogni convinzione, proponendo fatti che si mostrano di gran lunga superiori alla fantasia.
Le pagine che seguono sono nulla più che un racconto di vicende reali, narrate seguendo la linea temporale degli avvenimenti.
La volontà di eseguire la stesura di un libro inchiesta, su una vicenda peculiare che però abbraccia numerosi ambiti del vivere il quotidiano in Italia, si concretizza attraverso la pubblicazione dei nomi di personaggi famosi e delle azioni a loro collegate, senza censura o limitazioni di sorta.
Genere: Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Le vicende che hanno coinvolto il mio tentativo, che ancora non possiede una risposta, di conoscere se avessi potuto intraprendere la via dello scrittore e fregiarmi di una tale qualifica, si intreccia con i numerosi sforzi per riuscire a non vanificare gli studi e le esperienze fatte.

Le vicissitudini in campo lavorativo seguono, sebbene non in maniera pedissequa, le medesime disavventure dell’Io letterario.

A fornire solo un brevissimo stralcio c’è una missiva indirizzata alla Preside della Facoltà di Sociologia dell’Università degli studi di Napoli Federico II:

 

Gentile prof. Enrica Amaturo:

Sono un Laureato in Sociologia, per chiarezza ed onestà devo informarLa che collaboro saltuariamente con la prof. G.R. e ho vinto una borsa di studio presso la Facoltà di Sociologia per collaborare alla realizzazione del rapporto di ricerca “Immigrazione in Campania”, ho conseguito inoltre un diploma di perfezionamento in Psichiatria-Sociale presso la Seconda Università di Napoli.

Le scrivo perché oramai sono diventate insormontabili le barriere burocratico-amministrative per favorire le caste privilegiate di coloro che posseggono “Mani amiche”.

Mi domando se non ho già pagato abbastanza il fatto di essere stato uno studente lavoratore e per questo motivo essermi sentito dire agli esami che “…Purtroppo, nonostante sia andato benissimo, dobbiamo abbassarti il voto poiché non hai seguito i corsi…”,  o meglio dopo aver compiuto studi e ricerche sul campo per due anni per la realizzazione della mia tesi ottenere solo quattro punti, che hanno ulteriormente influito su quell’adorata valutazione finale che oggi m’impedisce di avere almeno un’arma numerica contro lo strapotere dei raccomandati e delle poco chiare manovre istituzionali.

Non Le sottraggo altro tempo e Le mostro subito la mia proposta. Sono disposto a lavorare gratis ad uno dei progetti che Le invio in allegato, qualora Lei li ritenesse di valida attuazione. Le chiedo solo l’appoggio nominale della facoltà e il riconoscimento istituzionale del lavoro.

Sicuro di un Suo interessamento, Le porgo cordiali saluti.

La risposta a questa missiva, giunta chiaramente senza aver concesso il minimo sindacale interesse verso i progetti presentati, fu una sorta di spiegazione, intimazione, fattami pervenire tramite una docente, spiegazione della quale ancora oggi mi chiedo il significato.

 

Per contrastare questa melma istituzionale non avevo le solide prove che invece detengo per fronteggiare l’altra faccia della stessa medaglia e dello stesso sistema.

Amici della giuria vi ho mostrato come in un manoscritto, poi divenuto libro, ho anticipato idee, situazioni, che sono tangibilmente state usate anni dopo da chi aveva ricevuto in visione il manoscritto.

Per questo motivo o ci troviamo di fronte ad un veggente, e se così fosse bisognerebbe darmene atto e merito, oppure c’è qualcosa di strano e poco chiaro in questa vicenda.

Dai soggetti interessati, Maria De Filippi stessa o solo dalle persone del suo staff coinvolte, con abile maestria, seguendo la tecnica del pizzica e spilucca, spilucca e pizzica, hanno attinto idee, situazioni, per inserirle anno dopo anno all’interno della loro macchina da soldi.

Hanno potuto compiere questa paziente operazione forti del fatto che l’autore del canovaccio dal quale attingevano utile e fruttuoso materiale era uno dei tanti nessuno, spiantato e senza alcun alleato, che se avesse voluto ribellarsi avrebbe dovuto scontrarsi con uno dei più potenti fruitori di quel sistema tentacolare di omertà e collusione all’italiana impossibile da superare. Se di malafede non si tratta nasce spontaneo chiedersi come mai nessuno, e ripeto nessuno, si sia mai preso la briga di inviare un semplice messaggio con il quale avvertire il mittente delle numerose candidature, che avevano ricevuto il materiale, ma che non lo ritenevano di loro interesse? L’immotivata aggressività e suscettibilità mostrata dalla collaboratrice stretta della Signora De Filippi, poi, ci suggerisce solo una cosa, dopo aver esaminato i messaggi privi di qualsivoglia offesa, volgarità o turpiloquio inviatele, che sentirsi in torto e non essere in possesso di mezzi efficaci per contrastare l’accusatore fa aumentare la rabbia e la comprovata aggressività sproporzionata del colpevole. Come vogliamo giustificare, inoltre, l’omertoso e perpetrato silenzio di tutti coloro che hanno orbitato attorno alla vicenda? Non nascondiamoci, quando qualcuno denuncia qualcosa ed invita tutti coloro ai quali ha sottoposto la questione a prendere visione ed analizzare il materiale che prova quanto asserito, è quantomeno doveroso, soprattutto se si tratta di organi d’informazione o di gruppi che vantano di avere come unico obiettivo quello di smascherare torti e malefatte liberi da legacci e costrizioni, farsi carico di raggiungere colui che denuncia per analizzare e valutare le prove. Se, infatti, si ignora la questione sottoposta, scartandola e bocciandola a priori, senza compiere alcuno sforzo per ottenere un contatto diretto con il racconto e con le prove che lo supportano, allora ci troviamo di fronte a due semplici soluzioni; una devastante incapacità professionale oppure una conveniente malafede.

E’ chiaramente impossibile che fra tutti coloro che sono stati contattati non ci sia una sola persona capace nel fare il suo lavoro, soprattutto mi rivolgo a tutti quelli che hanno mostrato un meccanismo fallace e superficiale di discernimento e valutazione solo nel caso specifico che ha riguardato “Voglia di Volare”, mantenendo un altissimo profilo per quasi il 100% di tutti gli altri casi trattati, mi riferisco ovviamente a Striscia la notizia.     

Questa vicenda focalizza l’attenzione su un aspetto che credo fondamentale, se esiste qualcuno che veramente crede insostenibile la situazione nella quale si è costretti a vivere e desidera concretamente cambiare le cose, ebbene, questo o questi individui hanno il dovere di non fuggire dalla verità, anche se essa spinge ad ammettere l’esistenza di situazioni spiacevoli e poco edificanti.

Questa storia, amici della giuria, ci ha mostrato che siamo, almeno in Italia, in una condizione nella quale un’oligarchia di furbi ha preso esempio dal passato, consapevoli che per esercitare le loro manovre sia necessario fare leva su una massa informe, che deve necessariamente restare nell’ignoranza. Un tempo si impediva al popolo di leggere, di conoscere, perché l’erudizione esalta la diversità e spinge l’uomo ad unirsi per esprimerla liberamente.

Mentre in epoche lontane si voleva l’uomo chiuso nell’oscurità della non conoscenza per sottrargli anche la dignità, oggi gli abili manipolatori, attraverso una falsa libertà e conoscenza, professata e ostentata anche dai coreografici e pseudo nozionisti della manovrata comunicazione, offrono alla massa informe la possibilità di accedere ad una enorme quantità di piaceri, comodità ed effimere ed insulse esaltazioni dell’ego.

E’ ovvio e consequenziale che i mercanti d’ogni sorta appoggino questa oligarchia, certi di riuscire a piazzare ogni tipo di merce, da quella materiale a quella umana.

Per attuare queste alchimie è necessario poter contare sulle masse più numerose e plasmabili, che dal nascere del cogito umano sono sempre state i giovinastri acerbi e presuntuosi d’essere ciò che nemmeno conoscono e i deficitarii fanatici, dei quali questo paese ne è traboccante.

Quale migliore strategia se non far credere agli uni d’essere l’unica fonte d’energia affidandogli ogni sorta di possibilità e compito, manovrandoli nell’ombra per condurre l’agire ed il pensiero nell’unica via utile all’oligarchia, mentre agli altri concedere un poco di spazio, restando nell’attesa che il resto pensi a farlo il loro deficere unito allo straripante e patologico delirio. 

Coloro che invece si sentono schiacciati tra queste due potenze, sebbene riescano a discernere e capire ciò che sta accadendo, compiono quanto di più nefasto e deprecabile esista nell’agire umano; adattarsi per compiacere il proprio tornaconto e le proprie paure, riempiendo unicamente la bocca di pompose e sterili parole.

E’ per questo motivo che in ogni angolo della struttura sociale che si è venuta a creare, modificandosi e agendo come se fosse una creatura indipendente e regnante, lo scontro frontale non sortisce alcun effetto, se non alimentare la creatura dai molteplici aspetti ma dall’unico seme.

La sola via da percorrere per sovvertire in modo concreto e repentino la situazione è quella di operare dal di dentro, è necessario che chi ricopre ruoli significativi e detiene un certo tipo di potere, dall’interno di questa società, sappia reagire ed agire, attraverso la creazione di fatti concreti che squarcino il velo di regresso dietro il quale si nasconde e opera l’oligarchia del nulla, per lasciare immediatamente il posto al saper fare. Ciò consentirebbe di operare per la realizzazione di una nuova organizzazione sociale volta a garantire le necessità naturali della collettività, che inevitabilmente influenzerebbero positivamente e stabilmente il singolo, al quale si aprirebbe l’infinito orizzonte dell’espressione della propria diversità. 

E’ proprio di questo che si è parlato nelle vicende che hanno caratterizzato “Voglia di Volare” nel suo divenire prima parole, poi frasi ed in fine pagine.

La diversità di cui parlo è un aspetto dell’Essere di alcune persone che non si vede e del quale non si parla. Tale diversità differisce da quelle più conosciute poiché non mostra i segni visibili e tangibile del suo divenire.

La diversità che intendo è profonda, celata all’occhio, non si parla di colore diverso, religione diversa, sesso diverso, aspetto fisico diverso, tratti concretamente individuabili, ma di diversità dell’Essere. Questo è un tratto non immediatamente riconoscibile, che non consente a chi interagisce con i pochi portatori di tale caratteristica di venire immediatamente a conoscenza del fatto di trovarsi in un confronto con qualcuno che pensa ed agisce fuori dagli schemi preordinati di quei troppo numerosi gruppi sociali, che si articolano attorno ad una ingannevole convinzione di libera e consapevole espressione di giusti valori.

Tutto ciò non consente al primo soggetto di attuare i consolidati comportamenti di repulsione e allontanamento repentino del diverso, mettendo in moto meccanismi ancora più perversi che sviluppano una immediata reazione di coesione, menzognera, che si trasformerà in repulsione e ghettizzazione di quel tassello che non è possibile collocare in alcuno schema.

Diverrà necessario l’ostracismo verso ciò che non si capisce, che fa paura, nei confronti di quel reietto che mostra la solida diversità del suo Essere, attraverso l’incondizionata supremazia di quei valori solo teoricamente e falsamente ostentati dai gruppi tra loro connessi, ma soprattutto percorrendo la via del fare.

Prima di soffermarci a riflettere su ciò che abbiamo fatto quando ci siamo trovati ad essere inconsapevoli protagonisti di un incontro del genere e come desideriamo realmente che si esprima il nostro essere, abbiamo la necessità di fare luce sul concetto di diverso, di altro da noi. Un concetto che necessariamente va compreso partendo dalle linee di individuazione e comprensione più comunemente condivisibili, esso si colloca all’interno di un’area molto vasta, compresa tra le macro-diversità e la multidimensionalità delle micro-diversità.  

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad un repentino e forzato mutamento delle geografie dei popoli.

Una tale azione ha condotto gli individui verso un processo d’interazione multirazziale con movimenti che hanno contribuito all’attuazione d’impatti forti ed improvvisi.

Simili processi si sono articolati attraverso flussi d’imposizione massiccia e non seguendo movimenti diluiti e di lenta amalgama.

I gruppi stanno velocemente trasformando le loro organizzazioni sociali, dando vita a società multi-etniche che generano inevitabilmente un nuovo tipo di problematiche, non solo comunicative ma che abbracciano tutti i settori del quotidiano.

Questo nuovo scenario, che investe l’organizzazione di grandi e piccoli gruppi, s’inserisce in un quadro di problematiche già preesistenti.

Siffatte questioni sono il frutto del processo osmotico che intercorre tra i singoli individui, il sottogruppo e il gruppo al quale appartengono.

Come in un immaginario gioco di cerchi concentrici si parte dal più piccolo dei cerchi ed attraverso un processo di continuo interscambio ed influenze si passa ai cerchi più grandi, quali i sottogruppi e i grandi gruppi etnici, senza trascurare che si tratta di dinamiche in continuo movimento e soprattutto non operanti in senso unico.

La chiave di lettura di queste nuove informazioni, alle quali gli individui non sembrano essere prepararti, è situata proprio nella multidimensionalità soggettiva degli individui, ancor più in quella che si genera quando essi entrano in contatto con altri soggetti a formare organizzazioni sociali complesse.

Sciogliere i nodi di questa che all’apparenza può sembrare una macchinosa matassa è un’operazione che richiede un’analisi attenta ed accurata.

La metodologia d’intervento che ha dimostrato di poter assolvere questo compito è di certo quell’antropologica, che sebbene in forma acerba è contenuta nella natura di ogni essere pensante, attraverso i suoi strumenti è, infatti, possibile penetrare nel profondo di una cultura portando alla luce tutto ciò che resta celato ad ogni analisi superficiale o quantomeno legata a soluzioni meramente quantitative.

Operando in modo attento è possibile giungere alla conoscenza degli aspetti peculiari, ma anche d’affinità, che caratterizzano e per certi versi avvicinano i diversi gruppi sociali e singoli individui.

Essi modellano un popolo e possono creare barriere insormontabili, se sottovalutati o superficialmente analizzati.

Attraverso una metodologia d’intervento attenta alla multidimensionalità dei gruppi umani è possibile dimostrare come l’interazione tra gruppi diversi possa e debba avvenire attraverso procedure di conoscenza ed allineamento e non utilizzando tecniche invasive. Immaginiamo di far riferimento alla figura di cerchi concentrici in interscambio, citata in precedenza, e procediamo ad un’analisi che parta dal più piccolo dei cerchi; in altre parole il singolo individuo. L’intento è quello di mostrare la possibilità di percorrere una strada differente da quelle mostrate fino ad ora, per affrontare le problematiche dell’incontro tra stranieri ed autoctoni, ma anche i rapporti all’interno degli stessi gruppi autoctoni dove alcuni sottogruppi rischiano di divenire stranieri, senza trascurare la componente individuo che offre le sue peculiarità all’interno di un gruppo, incidente ancor più se si tratta di un piccolo gruppo.

In conformità a quanto affermato, questo tentativo di chiarire gli aspetti che si celano all’interno di una vicenda semplice e lineare, partirà da ciò che è considerato il punto d’origine dell’intera questione.

Partiamo da un esempio concreto che ci aiuterà meglio ad affrontare il percorso.

La maggior parte degli individui quando affrontano argomenti nei quali si parla di diversità cercano di mostrare d’essere scevri da ogni possibile pensiero o azione fondata su modelli standardizzati.

Tutto ciò accade solo in una fase che possiamo considerare teorica, poiché le informazioni che ci giungono dal quotidiano mostrano che le azioni degli individui si discostano grandemente da quanto espresso nel momento dell’esternazione teorica.

Il nucleo della questione è collocabile nella convinzione che gli individui hanno di possedere una categoria cognitiva nella quale collocare tutto ciò che viene percepito come diverso.

In realtà grandi moltitudini d’individui non possiedono una categoria cognitiva aperta con la quale gestire le numerose forme della diversità.

Ciò che è diverso è, appunto, qualcosa di “eso” vale a dire che si trova al di fuori, o che proviene da un ambiente esterno al soggetto agente.

All’opposto tutto ciò che è “endo” è situato all’interno, generato in altre parole nel nostro campo del conoscere.

Tutto ciò che appartiene alla sfera “endo” non genera alcun tipo di problema. Nel momento in cui dovesse sorgerne uno, la soluzione sarebbe reperibile al suo stesso interno, poiché ogni cosa che si trova in quest’ipotetica sfera delimitata è collocabile dagli individui in una determinata categoria. Nell’ambito di questo supposto spazio ben delineato, l’oggetto che vi prende posto assume dei caratteri ben definiti, riconoscibili e fruibili dal soggetto al quale appartengono le categorie.

I problemi sorgono quando gli individui entrano in contatto con qualcosa che appartiene alla sfera “eso”.

Ciò che si trova in questo campo, che possiamo considerare esterno al soggetto agente, non trova una sistemazione immediata nelle categorie esistenti, non viene riconosciuta dal soggetto come un elemento appartenente alla sfera “endo” quindi ricco d’elementi conosciuti e fruibili.

E’ noto che tutto ciò che non si conosce, a cui non è possibile attribuire caratteristiche riconoscibili genera nella maggior parte dei casi paura, repulsione e derisione.

La derisione è una reazione alla diversità generata da processi d’ignoranza o semplicemente da ludici giudizi di valore osservabile facilmente, ad esempio tra compagni di scuola, colleghi d’ufficio o semplicemente facendo caso ai commenti che noi stessi facciamo quando osserviamo chi ci sta in torno.

La paura, di contro, genera meccanismi più complessi, essi danno vita a reazioni le quali si realizzano anche in diversi passaggi.

La paura si genera proprio quando l’interazione con ciò che è diverso ci trasmette un input che non siamo in grado di collocare in nessuna delle categorie presenti.

I meccanismi messi in moto dalla paura non sono facilmente riconoscibili al momento dell’esordio, ma guidano il soggetto verso azioni evidenti e catalogabili secondo connotati ben delineati.

La repulsione, invece, è forse la reazione che più può inficiare la stabilità di un individuo diverso, essa sopraggiunge dopo che in una prima fase d’interazione intersoggettiva sembrava essersi instaurato un rapporto d’interscambio fondato sull’intesa e la comprensione reciproca.

Queste reazioni dimostrano che non abbiamo alcun tipo di conoscenza circa le informazioni che riceviamo e che dobbiamo elaborare.

La non conoscenza, o meglio come i latini ci hanno trasmesso; ignoranza, ci pone ad assumere atteggiamenti ostili, poiché questo qualcosa d’ignoto, che si presenta d’improvviso, mette in azione ogni sorta di meccanismo di difesa, primo fra tutti l’allontanamento e l’emarginazione “dell’eso-oggetto”, se non la sua eliminazione.

Tutto ciò accade proprio perché la presunta categoria aperta alle diversità, nella quale collocare eso-input e considerarli fonte di conoscenza, non esiste. Meglio, esiste solo in una mendace fase teorica, scevra da contatti ed esperienze dirette.

Alla luce di quanto affermato è necessario cominciare a ridefinire alcuni concetti.

In questo quadro è imprescindibile, difatti, l’analisi del concetto di “diverso” e di “altro da noi” che conducono ad uno degli aspetti che possiamo considerare all’origine delle problematiche legate alla attuazione di quei comportamenti ostili; la mancanza di una adeguata conoscenza da parte degli individui delle eso-culture che inficia l’organizzazione di categorie soggettive adeguate ad affrontare la diversità.   

E’ bene partire proprio dal concetto di diversità.

Questo concetto ha perso il suo significato originario, per acquistarne uno che gli fa assumere un’accezione negativa, quasi dispregiativa.

In una società del terzo millennio in pieno regresso culturale, sempre più etnocentrica, nella quale la ghettizzazione è l’unica risposta a chi non assume o non si assoggetta pedissequamente a standardizzazioni abilmente studiate che coinvolgono troppo spesso anche la sfera dei valori e dei sentimenti, perfino le parole sono spesso snaturate e tendono ad assumere significati differenti rispetto all’etimologia originaria.

Diversità, diverso, con queste parole s’indica qualcuno o qualcosa che non presenta le caratteristiche endomorfe del soggetto agente.

La definizione sembrerebbe giusta se la disposizione egocentrica di chi la adopera  non aggiungesse una seconda parte del tutto implicita, nella quale il diverso non presentando tali caratteristiche d’eguaglianza non è degno di occupare il gradino più alto di un’ipotetica piramide gerarchica e di conseguenza viene spostato in un piano inferiore.

Questa definizione non tiene conto del fatto che un soggetto il quale non annovera tra le sue peculiarità culturali o fisiche determinate caratteristiche, ne possiederà certamente delle altre, diverse, ma non di minor valore rispetto a quelle del soggetto agente.

Sembrerebbe più giusto, allo stato attuale delle cose,  fare uso del concetto “Altro da noi” quando ci si riferisce a qualcuno che si colloca in un’eso-sfera che fa riferimento ad un endo-mondo differente dal nostro.

L’uso di questo concetto ci consente di far riferimento a processi psichici scevri da barriere o limitazioni di qualsivoglia natura.

Parlare di “Altro da noi” significa presupporre, già in fase d’elaborazione delle categorie cognitive, che si affronta un’interazione di livello paritario con un mondo il quale presenta una differente multidimensionalità.

In questo caso non si attribuisce all’analisi della diversità nessun giudizio di valore.

E’ proprio questo assunto che si trova alla base originaria di taluni vocaboli e concetti. Essi sono stati stravolti e modificati nella loro natura dal repentino imporsi di una società che rende impliciti giudizi di valore, negativo, in qualsiasi interazione con soggetti che mostrano caratteristiche non congruenti con le linee guida dettate da culture presunte dominanti.

L’altro da noi” rappresenta un crogiolo ricco d’informazioni e d’insegnamenti dal quale poter estrarre linfa vitale che alimenti la nostra conoscenza, nonché la nostra esperienza quando abbiamo la possibilità di affrontare dei processi d’interazione diretta.

L’incontro con tutto ciò che si mostra come “Altro da noi” non deve avvenire seguendo un movimento che guidi i due poli in un incontro-scontro frontale.

Il cammino deve essere parallelo, di conoscenze ed interscambio, attraverso il quale diviene possibile comprendere a pieno le diversità, consentendo in tal modo alle incongruenze di assottigliarsi e non divenire mai fonte di scontri ricchi di un inarrestabile regresso della civiltà.

Ad esempio, diverrà conseguenza logica giudicare un individuo per le azioni che compie e non il suo agire legato a quello che un individuo è, o a ciò che un’artefatta stigmatizzazione figlia d’analisi quantomeno affrettate può fargli rappresentare.

L’impatto con l’altro da noi, spesso portatore di tratti culturali agli antipodi rispetto a quelli delle culture autoctone, è avvenuto e continua ad avvenire in una società oramai soffocata da quei caratteri d’etnocentrismo e cecità cognitiva che non consentono di aprire uno spiraglio, seppur minimo, a quella civiltà del terzo millennio tanto auspicata e anelata dagli individui dei secoli precedenti.

Le spinte invasive, per portare un esempio che si leghi alle macro-diversità, che hanno caratterizzato e continuano a caratterizzare i flussi migratori tengono lontani sia i popoli autoctoni, sia quelli stranieri dalla conoscenza di quelle peculiarità culturali che contraddistinguono un gruppo etnico.

Diviene inevitabile, in questa situazione, che la non conoscenza conduca a non prendere in considerazione il credo religioso, le credenze, gli usi, i costumi e quant’altro fa parte della cultura di un popolo, ma anche di un singolo individuo. Tutto ciò alimenta mendaci standardizzazioni, favorendo la nascita di rigetto e contribuendo al peggioramento dei problemi esistenti o addirittura alla creazione di nuove situazioni di difficoltà.

In tutte le culture i diversi ambiti della vita della comunità, se non tutti, sono più o meno legati a doppio anello con i dogmi dettati dalla religione, con le credenze o con figure carismatiche.

La multidimensionalità delle organizzazioni sociali che tali aspetti fanno emergere rendono alcuni gruppi intrisi di taluni caratteri che imbrigliano l’articolarsi delle azioni dell’intero gruppo, ma anche dei singoli individui, qualora essi vogliano manifestare medesimi valori ma attraverso espressioni ed azioni differenti .

Tutto ciò rende evidente quanto sia complesso l’incontro tra gruppi etnici e singoli individui che spesso sono agli antipodi.

A rendere la questione ancora più ardua si aggiunge il fatto che molte interazioni, oggi, avvengono in situazioni di confronto non paritario.

 

Le differenze esponenziali di gestione delle risorse hanno condotto alcuni gruppi etnici a credere di essere detentori di un’organizzazione culturale e sociale superiore alle altre, superiore nel suo complesso anche alle peculiarità soggettive,  tutto ciò genera cecità cognitiva e conflitto.

La situazione italiana non è scevra da queste problematiche, anzi, le manovre perpetrate al fine di non consentire il raggiungimento della maturità cognitiva e di conseguenza l’incapacità di realizzare un progresso della civiltà, soprattutto da parte di coloro che occupano ruoli con potere decisionale ed organizzativo, rendono l’incontro con il diverso una fonte che genera problematiche in continua evoluzione.

Sulla scorta di tali argomenti, in una questione delicata come quella dell’interazione tra gruppi differenti e singoli soggetti con il gruppo di appartenenza, che come quotidianamente osserviamo troppo spesso avviene con movimenti d’imposizione, l’eccessivo lavoro di ricerca di teorie nozionistiche allontana da quelli che sono gli aspetti concreti dei problemi ed affida la soluzione di questi ad operazioni asettiche, come se gli interventi fossero simili a quelli che possono avvenire in un laboratorio.

E’ fondamentale porre, anche, uno sguardo attento sulla multidimensionalità dei sottogruppi.

Le stigmatizzazioni culturali sono lo strumento attraverso il quale, malauguratamente, oggi si cerca di analizzare e risolvere il problema delle diversità non solo culturali, ma anche di valutare e considerare i sottogruppi.

L’errore, dettato dalla mancanza di conoscenza delle culture e delle società, ma soprattutto delle forme complesse di diversità, nasce nel non considerare che sebbene “Grandi gruppi” posseggano tratti culturali identici ed in apparenza aderiscano alla stessa organizzazione sociale, esistono, nel loro interno, sottogruppi (quali ad esempio quelli che popolano regioni, città, paesi, frazioni di paese, quartieri fino ad arrivare ai piccoli gruppi di aggregazione) che pur conservando quei medesimi tratti, ne possiedono alcuni peculiari.

Tali tratti possono rendere ardua o addirittura nulla l’interazione, la comunicazione e la trasmissione di qualsivoglia messaggio. Tutto ciò può condurre, ed accade sovente, ad una risposta negativa o addirittura all’antitesi rispetto a ciò che si era prospettato al momento della somministrazione di un input (stimolo).

E’ anche vero e da non trascurare che non bisogna prendere in esame solo le macro-differenze che sussistono tra grandi gruppi, giacché all’interno di una stessa popolazione esistono differenze culturali e comportamentali che non consentono la standardizzazione delle tecniche di comunicazione e d’informazione.      

Proprio dall’analisi di queste micro-differenze che caratterizzano i sottogruppi è necessario partire per comprendere e gestire le realtà quotidiane, per allargare, poi, l’interesse verso le macro-differenze.

Due stranieri, ad esempio, che vanno in uno stesso paese, ma in zone differenti quasi all’antitesi, come può accadere a chi giunge in una qualunque nazione, ad un confronto, sosterranno di poter mostrare peculiarità del gruppo con il quale sono entrati in contatto che l’altro interlocutore troverà del tutto nuove e non veritiere.

Al fine di non entrare nello specifico di una precisa situazione per proporre un esempio pratico e tangibile, prendiamo in considerazione un qualsiasi gruppo etnico; i suoi componenti presenteranno tratti culturali e comportamentali che nelle grandi linee li accomunano.

Ogni gruppo, però, anche se non di grandi dimensioni, al suo interno presenta delle differenze non trascurabili, come ad esempio accade tra le culture del nord, del centro e del sud, ma anche tra quelle dell’estremo Est ed Ovest di un Paese.

Talune regioni o paesi, presenteranno alcune città le quali non solo fanno emergere una cultura con tratti peculiari mercati, ma al loro interno la multidimensionalità dei gruppi presenti fa prevalere linee guida legate a tratti culturali che non sempre possono essere accomunate con quelle dell’intero gruppo cittadino, tanto meno è possibile avvicinarle a quello nazionale.

Le multiculturalità che concentricamente partono dal macrocosmo di un popolo e portano al suo stesso microcosmo, dal quale poi si ritorna al primo per un processo d’interscambio in continua mobilità, ci mostrano che l’unica via da seguire per la gestione delle società complesse è quella della conoscenza, non teorico nozionistica ma di studio sul campo.

Nel momento in cui si affrontano argomenti delicati, come quelli presentati fino ad ora, deve essere chiaro e sempre vivo il concetto secondo il quale il riscontro oggettivo della presenza di numerose diversità e la successiva analisi di queste deve essere scevra da qualsivoglia giudizio di valore.

Il fatto stesso di ammettere, ad esempio, le chiare differenze tra il Nord, il Centro ed il Sud di un Paese non implica in alcun modo giudizi che includono considerazioni positive o negative su l’una o sull’altra cultura.

L’esempio affrontato in un ottica di macro-gruppi è estendibile anche ai microsistemi formati dai piccoli gruppi e dall’interazione dei singoli che possiamo considerare come il Nord, il Sud etc.

Nell’articolarsi dei discorsi che quotidianamente si affrontano nei numerosi dibattiti circa l’argomento diversità, in qualsivoglia ambito essi siano effettuati, vuoi nel privato, vuoi nelle trasmissioni radio-televisive e vuoi nella “rete”, quando si parla di diverso si adopera con ferma convinzione la parola Tolleranza.

I fruitori del vocabolo ostentano enfasi d’emotiva e convinta adesione al valore quasi metafisico che ad esso viene attribuito.

La subdola moda di pedissequa adesione presa in prestito dal regno animale, non consente agli individui di soffermarsi a riflettere sul vero valore contenuto nella parola tolleranza (sopportazione).

Essi non comprendono che proprio l’uso di questo vocabolo mostra i segni evidenti della mancanza concreta di quella “categoria aperta” che consentirebbe di attribuire il giusto valore agli eso-input.

Nell’etimologia della parola è racchiuso il tratto tangibile della presenza di un soggetto agente posto in una posizione di superiorità, dall’alto della quale concede ad un altro soggetto posto ad un gradino inferiore, di continuare ad agire.

Il versus opposto di questo significato vuole uno o più individui essere costretti a sopportare le angherie di qualcuno che detiene un potere attraverso il quale esercita una qualche forma di costrizione.

In conformità a ciò è chiaro che si può tollerare il ticchettio fastidioso di un orologio, le note stonate prodotte da uno strumento, la sabbia tirata sul viso da un bambino privo di un genitore con il minimo grado d’intelletto che gli consenta di essere una buona guida, ecc, ma non si può in alcun modo parlare di tolleranza quando vogliamo riferirci ad un essere umano, al suo credo religioso, al colore della sua pelle, alla sua appartenenza etnica, all’espressione del suo Io e a quant’altro non rientri nelle nostre categorie limitate di endo-input.

Per comprendere meglio la complessità del substrato nel quale “Voglia di Volare” ed il suo autore sono immersi, e con il quale hanno dovuto scontrarsi amplificando ancor più le difficoltà e le complessità di una vicenda già di per se ostica e priva di una soluzione certa e favorevole, è necessario addentrarsi in una chiarificazione della multidimensionalità presente nella realtà partenopea, troppo spesso soggetta ad abusi di standardizzazione e sciacallaggio perpetrati dagli speculatori di turno.

Prendiamo, quindi, in considerazione un anello più piccolo della nostra ipotetica figura di cerchi concentrici ed esaminiamo, sebbene per grandi linee, la situazione nella città di Napoli.

Essa è una città che vive, al suo interno, grandi spaccature culturali e comportamentali.

Possiamo considerare la presenza di due poli. L’uno che spinge la città verso un’estremizzazione negativa delle caratteristiche peculiari del popolo napoletano e guida l’articolarsi dei comportamenti verso l’ostentazione esasperata di taluni tratti. L’azione di questi comportamenti fa emergere l’ignoranza, il desiderio, che diviene quasi necessità, di compiere azioni nefaste, fino alla degenerazione completa che conduce alle diverse forme di criminalità.

All’estremità opposta si collocano i soggetti che appartengono alle differenti caste della così detta “Napoli bene”. In questi sottogruppi regnano i dogmi classisti secondo i quali il sol fatto di gestire un certo potere economico e politico, nonché l’essere in possesso di titoli di studio rende questi individui una classe che denota un’elite.

Entrambe questi poli, sebbene in modi differenti e con mezzi dissimili, sono legati da un interscambio d’affari e convenienze, che gravano sull’intero gruppo danneggiandolo e impedendo alla sua vera natura di emergere.

Nel mezzo, tra questi due estremi, è collocabile quello che in parole semplici può essere considerato il “Vero Napoletano”. Questo sottogruppo è veramente eterogeneo. Esso non presenta, nel suo interno, estremizzazioni di sorta capaci di trasformare pregi unici in perniciosi difetti.

Il problema è insito nel fatto che quest’ipotetico centro è compresso, quasi schiacciato, dai due poli a causa del potere detenuto dall’uno e dall’altro, sebbene di natura differente e soprattutto espresso in modi differenti.

Questo esempio espresso la semplice analisi di una macro-struttura che sembra non essere attinente con la questione trattata in questo contesto, è di contro la spiegazione che serve ad amplificare la malafede e la sudditanza psicologica, se non diretta, mostrata da tutti quei soggetti appartenenti alla realtà Partenopea che hanno preferito un comportamento omertoso ad una dimostrazione di costruttiva diversità, che li avrebbe allontanati dagli standard nefasti espressi e condivisi sul territorio Italiano.

E’ inconfutabile che mostrare e concretizzare la propria diversità costruttiva, cercando di sovvertire l’oligarchia del nulla e le salde convinzioni delle masse, oramai radicate come imprescindibili valori, comporta, per i soggetti agenti, la consapevolezza di dover affrontare l’assunzione di responsabilità e le relative conseguenze. Bisognerà, che ognuno sia pronto a lottare attraverso rinunce e azioni concrete.

A questo punto nasce spontanea un’ultima domanda, alla quale però diviene difficile se non impossibile attribuire una valida e comprensibile risposta; perché in un così ben congeniato sistema, dalle ancorate radici, protetto da avamposti e baluardi impenetrabili, nessuno ha mai avuto il coraggio di affrontare, anche solo privatamente, la questione?

In realtà non si sarebbe nemmeno trattato di vero coraggio.

Analizzando, difatti, attentamente il potere detenuto dalla Signora De Filippi, ma anche da autori come Antonio Ricci, unito alla indiscussa misura commerciale di utile prodotta e alla grande quantità di fedeli seguaci delle opere della Signora De Filippi, si constaterebbe che in alcun modo è possibile scalfire una tanto maestosa roccaforte.

Finanche una pubblica ammissione di quanto perpetrato in quasi dieci anni potrebbe mai diminuire la proficua devozione di quelle masse che alimentano la ben oleata macchina commerciale della Signora De Filippi.

La risoluzione più confacente al vero che si potrebbe ipotizzare vedrebbe, il vegliardo reietto Achille ritornare, dopo l’eventuale apparizione pubblica concessagli, nell’oblio del più profondo anonimato, senza una copia venduta e privo di alcuna futura considerazione, mentre la maestosa corazzata della Signora De Filippi, dopo aver reso innocua la quasi invisibile falla, proseguirebbe la trionfale navigazione incontrastata, con il suo capitano osannato e più forte di quanto non lo fosse in passato.

E’ tempo di lasciare a voi lettori che siete giunti fino a questo punto ogni ardua sentenza, prima di farlo, però, voglio esporre uno dei soliti eventi che ci giunge da altre culture con il quale è mio desiderio congedarmi.

In una piccola contea con una posizione geografica un poco isolata rispetto al più vicino centro urbano, di uno stato degli USA, la comunità era stata messa in crisi dalle tecniche di marketing adottate dell’unico market utile agli abitanti per il sostentamento delle proprie famiglie.

Il proprietario dell’esercizio, approfittando della situazione di isolamento e del monopolio commerciale da lui detenuto per i generi di prima necessità, aveva deciso di applicare alle merci prezzi anche sei, sette volte superiori agli standard massimi degli altri esercizi commerciali ubicati nei lontani centri urbani.

I cittadini della contea dopo aver più volte segnalato a chi di dovere la situazione insostenibile, non avendo ricevuto alcun riscontro, oramai vessati da questo sopruso ma anche messi in crisi economica, vollero trovare un modo per far valere le proprie ragioni. Si riunirono nella chiesa e stabilirono che l’unico modo per ottenere giustizia fosse quello di colpire il commerciante nell’unica cosa che avesse a cuore; i guadagni. Decisero per tanto di astenersi, tutti, dall’effettuare acquisti in quel negozio, fino a quando il proprietario non fosse stato ridotto a ragionevoli soluzioni.

L’azione di questi cittadini si perpetrò per mesi, non mancarono i sacrifici e le rinunce, ma restarono sempre uniti e nessuno pensò al proprio tornaconto.

In un primo momento il negoziante cominciò a far lievitare ancora i prezzi, certo che le famiglie sarebbero state costrette, prima o poi, a fare acquisti necessari.

La sua strategia puntava molto sulle necessità dei bambini, ma li ci si trovava in America con una concezione differente di necessità e condizione di bambino, non si era certo in Italia.

Le famiglie tennero duro, fino a quando un giorno sulle vetrine del market apparsero dei cartelli promozionali, con prezzi ed offerte mai visti prima.

Quelle offerte perdurarono nel tempo, erano tanto convenienti che spesso dalle contee vicine giungevano famiglie a fare scorta di prodotti.
  
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