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Autore: Klavdiya Erzsebet    03/10/2012    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Innanzitutto vi dico che potete farmi di tutto.

Tutto quello che volete. Io sono qui e giuro che non sarò più così scandalosamente in ritardo XD


Cap.VII

Alla Deriva

 

La luce che penetrava nel camion era poca e diffusa, e pareva essersi intrufolata unicamente dai piccoli buchi nella parte alta delle lamiere che costituivano l’enorme scatola in cui ci era addormentato; Greg sbadigliò e finalmente aprì gli occhi, ferendoseli con quei pochi raggi.

Senza mai alzare la testa si voltò leggermente verso destra, scorgendo una massa di attrezzi metallici. Piano piano risalì ogni singola trave con lo sguardo fino ad accorgersi che il cavallo non era più lì. Lo ricordava perfettamente ed esattamente come gli era apparso la sera precedente: le zampe alzate e in posizione di battaglia. Un piccolo cavallino come quello delle giostre, che pareva lottare contro un qualcosa più grande di lui.

Greg sentì che gli occhi si erano ormai abituati alla luce, ed alzò finalmente lo sguardo, percorrendo in ogni centimetro il camion. Appena lo vide sentì il cuore mancare un battito: era in piedi, davanti a lui, come a guardarlo, e le zampe che prima gli erano sembrate alzate erano posate sul pavimento nella posizione stupida che avevano quelle dei cavallivini delle giostre: curva, come se stessero saltando. Si reggeva in piedi a stento.

Lestrade percepì le proprie gambe e braccia tese allo spasmo, il proprio cuore balzare in petto. Poi ricordò Rob, il suo sudore e le sue mani grassocce, e si rilassò, almeno un poco.

Aveva ben chiaro, ora, come era finito lì. Quello che non capiva era dove fosse John: a Sherlock nemmeno pensò. Ovvio che se ne doveva essere andato.

Si alzò in piedi e si guardò il polso sinistro, ma non trovò l’orologio. Pensò di esserselo dimenticato; si avvicinò al portone che dava sul mondo, e con orrore lo trovò chiuso a chiave.

“Rob!” chiamò allora, con tutto il fiato che trovò nei suoi polmoni devastati dal fumo. “Rob!”

“Arrivo!” gli gridò in risposta una voce trafelata e sulla fiancata destra del camion Greg sentì degli urti violenti, come se qualcuno stesse correndo troppo vicino alle pareti metalliche. “Arri...”

Subito ci fu un rumore di un lucchetto che sbatteva all’altezza delle maniglie del portellone; qualche secondo, e la porta si aprì. “Dove sono Sherlock e John?” domandò Greg diretto senza dare all’uomo nemmeno il tempo di aprire bocca.

“Se ne sono andati, signore... non si preoccupi, hanno lasciato me a tenerla d’occhio – doveva vedere il suo stato di stamattina, signore, dovrebbe davvero riposarsi un p...”

“Un’ultima cosa: che ore sono?” domandò Lestrade pettinandosi i capelli ingrigiti con le mani.

“Le undici” rispose Rob, apparentemente confuso.

“Merda” imprecò Greg sottovoce. “Sono in ritardo. Arrivederci e grazie, Rob!”

Saltò giù dal camion e cominciò a correre, sul marciapiede, urtando quei pochi anziani che non erano andati a lavorare; “Taxi!” gridò sbracciandosi, appena ne vide uno. Il giovanissimo tassista accostò al marciapiede; Greg salì ancora prima che frenasse e prese per qualche attimo fiato. “A Scotland Yard” disse alla fine.

“Va tutto bene, signore?” domandò il guidatore, preoccupato, lanciandogli uno sguardo dallo specchietto retrovisore.

“No che non va bene! Ci lavoro!”

Il ragazzo mise in moto all’istante e si mosse velocemente nel poco traffico delle undici del mattino; aveva un accento particolare e un nome straniero sulla divisa, e Greg sospettò che fosse appena arrivato. Non conosceva nessuna delle scorciatoie che lui usava di solito.

Si fermò davanti alla centrale di Scotland Yard una terrificante mezzora dopo. Lestrade scese, non ringraziò e fece per mettere mano al portafoglio – ma in un unico, orribile istante si rese conto di non averlo più.

“Anderson!” gridò. Solo perchè ricordava che il suo ufficio dava sulla strada. “Anderson!”

“Che c’è?” rispose l’agente infastidito, affacciandosi alla finestra. “Che cos...”

Si zittì quando vide il volto furente di Lestrade che lo fissava dal marciapiede. “Anderson! Ho bisogno di soldi! Ora!”

“Ti mando Sally!” gridò l’altro in risposta.

Neanche un minuto e il sergente Donovan usciva da Scotland Yard a passo marziale. “Non ho il portafogli e devo pagare” si giustificò Greg indicando con un cenno della mano il tassista che guardava la scena con stupore e divertimento negli occhi. Sally gli diede qualche banconota con aria truce.

“Che cosa cazzo è successo? Arrivi che manca poco a mezzogiorno dopo che ti ho chiamato una dozzina di volte sul cellulare e...”

Istintivamente la mano di Greg andò alla tasca dove teneva il telefono; “Cazzo!” disse a voce alta quando non lo trovò.

“Si può sapere cosa diavolo c...?”

Sally lo guardò, finalmente, e Greg si chiese come dovesse apparire; vestiti sporchi, puzzolenti e presumibilmente impolverati, e con ogni probabilità occhiaie grandi come borse. “Mi hanno rubato orologio, portafoglio, cellulare e Dio solo sa cos’altro. Cazzo”

“E cosa ci fai in questo stato?”

“Sherlock”. Un nome che valeva come giustificazione e attenuante.

“Ha scoperto qualcosa?” gli concesse il sergente Donovan.

“Mi ha portato a fare la raccolta differenziata del materiale esplosivo”

Sally sospirò. “Non so quanto abbiate dormito fra tutti, ma quel fenomeno da baraccone[1] sta meglio di te. È al British Museum, comunque. Guido io. E c’è una cosa che non ti piacerà”

Greg obbedì e si sistemò sul sedile del passeggero di un’auto della polizia, mentre Sally metteva in moto. “E cioè?” le chiese, preoccupato.

“Abbiamo scoperto come ha fatto Chris a procurarsi il materiale necessario”

“E come?”

“Dal laboratorio della sua scuola. Non ha usato cose troppo strane e Sherlock lo ha sempre saputo”

Silenzio. Occhi negli occhi; quelli scuri di Sally che tradivano soddisfazione, quelli nocciola e stanchi di Greg che non sapevano bene cosa esprimere. Stupore, forse. “Ha sbagliato” constatò con tono neutro quanto il suono surreale della sua voce.

“Sì” articolò il sergente Donovan enfatizzando ogni movimento delle labbra: una via di mezzo tra rigirare il coltello nella piaga e godere di ogni singola lettera di quella conferma del peggio.

“E... come sta? Sa del laboratorio?”

“Glielo ha detto Anderson per telefono. Credo che all’inizio si sia ostinato a non credergli. Poi gli abbiamo detto nome e cognome del compagno di classe di Chris Lawrence che ha fatto da palo mentre lui prendeva quello che gli serviva dall’aula di chimica”

“E ora?”

“John ci ha chiamati dopo neanche mezzora. Ci ha detto che sembra impazzito. Sta facendo una ridicola ricostruzione per sostenere la sua folle teoria secondo la quale tutto sta nella preparazione dell’ordigno, e probabilmente domani la sua pazzia trabordante finirà sui giornali”

“Non accetta che ci sia alcunchè dietro all’attentato. Come se in quella bomba fosse nascosta tutta la verità” pensò Greg a voce alta. Il sergente Donovan annuì.

“Avremmo dovuto seguire la pista satanica fin dal principio”

“Sì”

Lestrade si accorse che da qualche parte, nel suo cervello, doveva esserci come una leva; e che quella leva era spostata sul minimo delle sue funzionalità. Si sforzò di aumentarle e si rese conto che avrebbero probabilmente dovuto ricominciare daccapo: che era un errore, l’unico, il primo di Sherlock Holmes e che era capitato nell’unico caso in cui, di errori, non avrebbero affatto dovuto compierne.

Sally guidava a scatti, nervosamente. Era più o meno la ragione per cui l’auto spettava quasi sempre a lui. In quel momento, però, Greg le fu grata di averlo lasciato a riposare sul sedile del passeggero. Si fermarono accanto al museo e nel momento esatto in cui aprì la portiera Greg si accorse di avere una fame mostruosa.

“Guardali” gli disse il sergente Donovan, quasi con disprezzo. Sherlock se ne stava esattamente dove si era fatto esplodere l’attentatore, a dare ordini a John che era a un paio di metri di distanza intento a reggere una strana sagoma filiforme.

Lestrade ebbe bisogno di strizzare gli occhi per mettere bene a fuoco quello che stava vedendo: un ometto per i vestiti nella grottesca imitazione delle spalle di un essere umano, montato sulla pedana di un ventilatore. Il dottore tentava di non farlo cadere mentre Sherlock gli dava indicazioni precise e isteriche su come inclinarlo.

Greg si avvicinò a loro con passo incerto, ormai dolorosamente consapevole del buco che aveva nello stomaco. “Ehi! Fermi! Che cosa state facendo?”

Si aspettò una risposta tagliente, uno sguardo di ghiaccio, un freddo saluto, ma in realtà il consulente investigativo lo ignorò, intento a inclinare il manichino al posto di John che sospirò dopo l’ennesima sgridata. Un corpo umano non cadrà mai in quella maniera!

“Oh, sta facendo una ricostruzione dell’evento, credo...”

“E a cosa gli serve?”

“Non ne ho la più pallida idea”

John sospirò. Greg tossì portandosi una mano alla bocca e si ricordò improvvisamente di un’altra cosa. “Hai idea di chi possa essere entrato nel camion di stanotte? Quando mi sono svegliato era ancora chiuso e non trovo più il telefono”. Guardò l’altro in attesa di una risposta e notò con disappunto una goccia di sangue sul proprio palmo, che nascose immediatamente.

Il dottore parve colpito. “Non lo so. Quando siamo usciti noi era tutto chiuso, ma non ti abbiamo svegliato perchè eri distrutto”

“Capisco”. Una pausa. “Anche quando sono uscito io era chiuso a chiave, però”

“Allora non so”

Sherlock passò come un fulmine in mezzo a loro; “No! No!” urlò a Sally Donovan. “Quella è una parte importantissima della ricostruzio...”

Con un rumore secco il sergente staccò dal pavimento un pezzo di scotch messo in una posizione apparentemente casuale. “No” disse semplicemente. “No. Non è importantissima. Abbiamo guardato e riguardato il video dell’esplosione e non c’è assolutamente niente che possa aiutarci”

Sherlock mosse il pugno, irritato. Come un bambino. “Se non è nel come Chris Lawrence si è procurato il materiale, un indizio deve esserci!”

“Abbiamo riguardato i filmati decine di volte. Non c’è”

Il consulente tacque. Nei suoi occhi c’era una rabbia che Greg non aveva mai visto prima e che sperò di non rivedere. Il pugno rimaneva serrato, e Lestrade capì una cosa; e capì anche che Sherlock non l’avrebbe ammessa mai.

“Non è possibile” ripetè il ragazzo. Diede un calcio al manichino; “Non è assolutamente possibile!” aggiunse a voce ancora più alta.

Greg sentì una mano timida sfiorargli il braccio; si girò di colpo, e John si ritrasse.

“Oh, John. Scusa. Sei tu”

“Sì. Lascialo stare,” gli disse indicando Sherlock. “non... l’ha presa bene”

“Lo vedo”

Il dottore sospirò. “Tu, invece? Sembri distrutto. Lo sei. Hai seriamente bisogno di ferie, Greg. Stamattina parevi in coma”

“Lo so”. Una pausa imbarazzata. “A proposito, non ho ancora mangiato. Conosco un posto qui vicino, potrei fare un salto e portare qualcosa anche a te”

“Buona idea,” si intromise Sally prendendolo per una manica e allontanandolo dalla scena con una singola spinta, “sono sicura che fermarti a mangiare ti farà bene. Non tornare prima delle due”.

Greg lanciò un’occhiata a John e insieme si ritrovarono a guardare Sherlock. Poi Lestrade si incamminò dalla parte opposta e il dottore, riluttante, lo seguì.

La scena era poco affollata. Qualche giornalista, da bravo avvoltoio, se ne stava appollaiato tra la gente a scattare foto al delirio isterico di Sherlock Holmes; altri curiosi, invece, chiaramente inglesi nei modi e nel parlare, facevano foto su foto al luogo dell’attentato.

Greg sentì la vergogna nel vedere quell’orribile turismo della cronaca nera. Preferì focalizzarsi su una comitiva di gente con le macchine fotografiche in mano, da cui provenivano schiamazzi in una lingua che non capiva: turisti stranieri, chiaramente, che non lanciavano che qualche sguardo timoroso al posto in cui era avvenuta la tragedia; oppure quella nelle loro iridi era preoccupazione per la salute mentale di Sherlock Holmes, ma suonava molto meno poetico.

“È qui” disse a John entrando in un piccolo ristorante anonimo. “Fa delle ottime pizze”

Si sedette a un piccolo tavolo accanto alla vetrina, di fronte al dottore che lo guardava con una ruga tra le sopracciglia che non prometteva niente di buono.

“Cosa posso portarvi?” si intromise una ragazza con un’insopportabile vocina acuta.

“Una margherita” ordinò Greg rendendosi improvvisamente conto che, nonostante il buco nello stomaco, non aveva voglia assolutamente di niente.

“Una quattro stagioni” disse invece John. Guardò il detective in faccia, serio. “Tu non stai bene” sentenziò alla fine.

Lestrade sospirò. “Sono solo stanco”

“Come sta Sophia?”

“Nel weekend è peggiorata. Vorrei portarla in ospedale. Davvero”

“Ci hai riprovato?”

“No” ammise Greg. “Dice di stare bene”

“Tienila d’occhio”

Tacquero finchè la stessa signorina non gli mise davanti due piatti fumanti; due pizze alte, non bruciacchiate, di quelle che a forza di piacere a Sophia erano diventate le preferite di Greg. Gli veniva la nausea solo a sentirne l’odore.

“Mangia” gli intimò John, attaccando la prima fetta, come se gli avesse appena letto nel pensiero.



[1] Spero suoni un po’ meglio di ‘geniaccio’, il dizionario del mio cellulare dice così e mi sembra anche passabile: preferisco tradurlo, e non lasciarlo in inglese, perchè mi suona un filino più naturale e immediato.

  
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