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Autore: MightyZuzAnna    05/10/2012    1 recensioni
Una figura misteriosa correva nel cuore della notte lungo le antiche mura della città rincorsa da un paio di guardie. La figura era avvolta in un lungo mantello nero, il cappuccio gli copriva gran parte del volto. Lo sconosciuto si fermò davanti al muro, si girò e si vide circondato da altre guardie, gli puntarono una forte luce ed egli abituato al buio della notte, si coprì per metà il volto col braccio, qualcosa da sotto l’arto e il cappuccio sbrilluccicò. Involontariamente scostò un po’ il tessuto rivelando in parte una maschera nera e bianca a forma di farfalla. Le decorazioni nere e argentee brillavano come piccoli diamanti. Lo sconosciuto ghignò nonostante non avesse vie di fuga, eppure la notte del 14 luglio 1766, la figura conosciuta come il ladro più ricercato del secolo detto anche ‘Butterfly’ scomparve lasciando al suo posto, come ricordo della sua esistenza, la maschera a farfalla. A più di tre secoli di distanza, la leggenda del ladro ‘Butterfly’ ritornò più viva che mai.
Genere: Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 6 "Giù le maschere"


Butterfly e Blue Bird davano del filo da torcere alle autorità e anche tra di loro. Quasi ogni notte ormai, i due finivano per scontrarsi e uno doveva per forza prevaricare sull’altro con l’arrivo della polizia che determinava la fine della lotta. I telegiornali non facevano che parlare dell’incapacità delle autorità di catturare i due ladri.
La primavera si avvicinava e con quella cattive notizie.


Sora scese le scale di corsa, le scarpe slacciate e lo zaino in spalla. Passò in cucina, afferrò il toast che Kristen, di pausa dall’università, stava per mangiare e prese il giubbotto uscendo di casa ed entrando in auto dove Felix la stava aspettando impaziente.
Il rapporto tra i due in quel periodo era strano, il ragazzo era strano. Alcune volte era freddo e distaccato, o perlomeno più del solito, altre volte era… dolce.
La ragazza lo guardò di sottecchi, chiedendosi quel giorno di che umore fosse. Osservò le dita lunghe e affusolate del moro tamburellare con nervosismo sulla marcia e si disse che quella non era certamente giornata. Un'auto passò accanto alla loro strombazzando impazzita e Felix mostrò al conducente il dito medio, continuando a sfrecciare sull’asfalto superando la scuola.
«Hai superato la scuola» mormorò Sora sorpresa, inclinando leggermente la testa come era solita fare quando non capiva qualcosa.
Il moro però sembrò non sentirla, assorto com’era nel guidare e nei suoi pensieri, e premette ancora un po’ sull’acceleratore, fino a che non iniziò a rallentare presso una spiaggia.
Nonostante ormai si potesse dire che fossero in primavera, faceva molto freddo e il vento che tirava in quelle zone sferzava l’aria con un sibilo sinistro.
Felix prese lo zaino e scese dalla macchina; dopo un attimo di smarrimento la ragazza lo seguì, stringendosi nel giubbotto leggero e scostandosi in continuazione i lunghi capelli rossi che le frustavano il volto. Fece qualche passo, sentendo sotto il piede la morbida sabbia entrarle persino nelle scarpe, e guardò il coetaneo osservare le cupe nuvole e il mare mosso, seduto sulla sabbia.
«Perché siamo qui?»
Lui abbassò lo sguardo e prese a giocherellare con la sabbia tra le gambe piegate, Sora notò che si mordicchiava nervosamente il labbro inferiore, gesto che non gli aveva mai visto fare. Così, preoccupata, gli si sedette accanto e lo scrutò attentamente, alla ricerca di qualche altro segnale che le rivelasse che quella giornata sarebbe stata incredibilmente dura.
«Felix, è successo qualcosa?»
«Non è successo nulla, non ti preoccupare» rispose dopo qualche minuto lui, alzando la testa e piantando i suoi occhi azzurri in quelli grigi di lei.
Sora provò uno stranissimo batticuore, e si sorprese ancora di più nel chinare la testa imbarazzata. Scosse la testa cercando di ritornare alla normalità, ma sentiva ancora quel pizzicare alle guance, sintomo che era arrossita.
«Perché mi hai portata qui?» chiese in un sussurro.
I loro occhi si incrociarono nuovamente e fu di nuovo quell’incredibile e fantastico gioco di sguardi in cui lei si poteva considerare sconfitta già in partenza, perché ci si perdeva in quel mare del colore dell’estate, si sentiva mancare il fiato e il cuore battere impazzito.
«Volevo stare un po’ con te»
«Potevamo farlo dopo la scuola, no?» disse Sora non capendo. Perché sentiva quella orribile morsa allo stomaco?
Felix scosse la testa. «Me ne vado »
«COSA?!» urlò la ragazza scattando in piedi. «E dove vai? Perché?»
Il ragazzo fece una smorfia, ma un attimo dopo cercò di nascondere i propri sentimenti dietro quella solita facciata di indifferenza; puntò lo sguardo da un’altra parte e non rispose.
«Perché me lo dici solo adesso?» il sussurro addolorato sorprese anche lei, ma sembrò smuovere qualcosa nel ragazzo che ripuntò gli occhi tormentati da un sentimento che non comprese subito, ma che provò in seguito, su di lei.
«Ascoltami Sora. Voglio che tu mi faccia un favore: leggi questo diario» disse Felix, prendendo dallo zaino uno spesso quaderno dalla copertina nera in pelle e le pagine ingiallite dal tempo. Doveva essere molto antico, constatò la rossa con occhio critico. «Fallo entro stasera»
«Perché?»
«Fidati di me»
Non ci fu bisogno di altre parole: Sora si fidava ciecamente di Felix. Si risedette accanto a lui e poggiò la testa sulla sua spalla; il ragazzo l'abbracciò.
Alla ragazza girava la testa. Cos’erano tutti quei sentimenti che sentiva? Quelle palpitazione, la morsa allo stomaco e l’arrossire all’improvviso quando pensava a Felix o gli stava semplicemente vicino? Che si stesse innamorando di lui?
Non si accorse di aver tremato a quel pensiero finché il moro non l’avvicinò ulteriormente, sentì il suo fiato caldo accarezzarle la fronte scoperta dal vento e sorridendo beata si disse che non era importante, che avrebbe voluto rimanere in quel modo ancora un altro po’.
Le ore passarono senza che i due giovani se ne accorgessero e solo il brontolare dello stomaco di Sora li riportò alla realtà. Felix rise e le sorrise malizioso.
«La principessa ha fame?»
«Ma sta zitto, che siamo qui da ore e io non ho toccato praticamente cibo!»
Il moro sogghignò beffardo e con la mano le prese la pancia, come a farle vedere la ciccia che si intravedeva da sotto la maglietta. «Se continui così finirai per essere una palla di lardo»
«Ma brutto disgraziato!» urlò la ragazza iniziando a inseguirlo per quasi tutta la banchina, fino a che entrambi non arrivarono alla macchina stanchi e con il fiatone. Si guardarono negli occhi e scoppiarono a ridere simultaneamente.
«Forza sali» disse Felix con ancora il sorriso sulle labbra, salendo a sua volta in macchina.
L’ilarità di entrambi però, man mano che si avvicinavano a casa, scemava e la malinconia prese ben presto posto sul volto di Sora. Il ragazzo parcheggiò nel vialetto, spense il motore ma nessuno dei due sembrava accennare a scendere.
«Sora» la chiamò lui, «se avessi bisogno di me, chiamami e verrò»
La ragazza si sentì arrossire sotto il suo sguardo penetrante e regalandogli un ultimo sorriso malinconico annuì, aprì lo sportello e mise una gamba fuori, quando sembrò ripensarci: si sporse verso il coinquilino per depositargli un delicato bacio sulla guancia, un attimo dopo stava già correndo dentro casa per nascondere le lacrime che minacciavano di scendere.
Felix ci impiegò un po’ a riprendersi da quel contatto improvviso e, con una morsa al cuore, accese la macchina e si mise in moto.

Sora posò con mano tremante il diario sul tavolo della cucina, si appoggiò allo sportello del frigo e si lasciò cadere, mordendosi convulsamente il labbro inferiore e tenendo gli occhi spalancati in uno strano modo di ricacciare indietro le lacrime che però, non trovando ostacoli quali le ciglia, scesero incessanti, creando piccoli aloni scuri sugli abiti. Soffocò i singhiozzi sulle proprie ginocchia e si riscosse molte ore dopo, soltanto quando sentì il cellulare squillare; lentamente si alzò, sentendo le gambe molli e addormentate per la scomoda posizione, e avanzò verso lo zaino abbandonato all’ingresso, e per un attimo le sembrò di vedere anche quello di Felix. Si strofinò le guance cercando di eliminare le tracce di pianto e schiarendosi la gola rispose.
«Pronto? Ah, sei tu. No, certo che non sono contenta di sentirti, per chi mi hai preso? No, non ti porto rispetto. Lamentati quanto vuoi, tanto che cosa cambia? Obbedisco sempre, no?» ascoltò la risposta con la mascella contratta e la mano libera chiusa a pugno. «E adesso loro cosa c’entrano? Non ti basta ave…» fu interrotta dalla porta d’ingresso che si apriva, per un folle istante sperò fosse Felix, invece Emy entrò e la salutò con un sorriso. «Ti ascolto» mormorò senza completare la frase lasciata in sospeso, afferrando il diario e andando in camera sua. «Va bene. Alla prossima»
La testa le girò vorticosamente e per un attimo sentì la terra mancarle sotto i piedi; per sua fortuna atterrò sul letto. Si portò una mano sulla fronte e singhiozzò; perché la sua vita quel giorno sembrava proseguire spedita, lasciandola indietro? Perché si sentiva così estranea a se stessa?
Si addormentò con queste domande in mente.

Qualche ora più tardi Emy bussò alla porta della rossa, cercò il suo consenso a entrare per chiederle come mai non fosse venuta a cena, ma non trovandolo decise di fare da sé. Aprì senza far il minimo rumore e quando si accorse del fagotto sotto le coperte sorrise teneramente e si avvicinò per rimboccargliele e darle un bacio in fronte.
«Buona notte, Sora» mormorò dolcemente, andandosene come era entrata.
Un sospiro ovattato dalle lenzuola si udì nella silenziosa camera.
«Scusami Emy»
Sora scese dal letto, guardò l’orologio: aveva ancora tempo; si guardò intorno alla ricerca di qualcosa da fare, ma non le venne in mente niente. Così si mise seduta alla scrivania e con l’mp3 infilato nelle orecchie si perse nei meandri della sua mente, sforzandosi di ricordare.

Quando l’orologio posto sul comodino scoccò sulla mezzanotte, Sora si inginocchiò davanti al letto e prese un piccolo baule. Delicatamente prese il suo contenuto e lo mise sul letto, si spogliò e si rivestì in fretta; una volta pronta si mise davanti allo specchio lungo vicino all’armadio. Al busto un corpetto nero, con la scollatura a cuore e intarsiato di ghirigori dai colori cupi, di sotto una morbida camicia di un bianco sporco; le gambe fasciate da pantaloni di pelle, una sacca assicurata alla cintura; ai piedi comode scarpe dalla suola morbida per poter camminare in silenzio; al volto una maschera nera e bianca che lasciava scoperte le labbra e il mento,  le decorazione nere e argentee brillavano come piccoli diamanti. Butterfly era lì, davanti alla specchiera; Sora non esisteva più.
Un moto di rabbia le deformò il volto e gli occhi lanciarono saette, si voltò e chiuse gli occhi cercando di calmarsi; indossò i guanti in pelle e si buttò sulle spalle il mantello. Ora era pronta.
Il suo sguardo cadde sul diario posto sulla scrivania, scosse la testa e ritornò con la mente al piano che aveva studiato tanto diligentemente.
Si calò dalla finestra che lasciò semi socchiusa per poter rientrare una volta conclusa la serata e si diresse nel luogo dove avrebbe attaccato.
Si appostò sotto una finestra, la guardia passò con la torcia puntata davanti a sé e Butterfly si mosse. Con un grimaldello aprì la finestra, che scricchiolò lievemente facendola irrigidire, e si intrufolò dentro. Era tutto stranamente calmo, perché non c’erano i soliti poliziotti a cercare di fermarla? Decise di non pensarci ma di tenere la guardia alta, più del solito.
Di soppiatto arrivò davanti a una grande porta in legno chiaro, sentì dei passi e si nascose dietro una statua; una guardia passò di lì, si fermò un attimo a osservarsi intorno e poi riprese a girovagare per i corridoi del museo. Povero stupido, pensò Butterfly ghignando. Con un altro grimaldello aprì la porta e fece pochi passi che il pavimento iniziò a tremare e una sirena scattare.
«Maledizione!» ringhiò Butterfly, correndo verso l’altra parte della stanza e coprendosi il volto con il mantello ruppe la finestra e rotolò un po’ prima di fermarsi. Le luci all’interno della stanza si accesero e un’orda di poliziotti entrò. L’urlo dell’ispettore si sentì da fuori, ma la ragazza aveva altro a cui pensare; le avevano teso una trappola, avevano spostato la statuetta d’oro che doveva rubare e ora non sapeva dove andare.
Si mordicchiò nervosamente un dito guantato, sentendo distintamente il sapore del cuoio sul palato e aguzzò l’udito, alla ricerca di un suono che la conducesse alla sua meta; un movimento all’interno di una stanza attirò la sua attenzione, si guardò intorno individuando un albero proprio davanti alla finestra incriminata e agilmente si arrampicò su di esso. Si sporse su un ramo che aveva tutta l’aria di non reggere molto, quindi si avvolse per bene nel mantello e prese una piccola rincorsa per poi saltare. Lo scontro del suo corpo contro il vetro della finestra fu in un primo momento strano: sentì il freddo della parete pervaderle le braccia e le gambe, tenute davanti per proteggere le parti più sensibili, e poi iniziò a dolere come una frustata mentre le schegge le graffiavano quel poco di pelle non coperto dalla stoffa. Rotolò e si fermò a pochi passi da Blue Bird, che la fissava sconcertato.
Butterfly si alzò immediatamente, irrigidendo i muscoli delle gambe e delle braccia pronta a inseguire l’avversario, egli aveva infatti tra le mani la statuetta che le interessava, o a ingaggiare uno scontro.
«Ti conviene consegnarmi la statuetta» disse Butterfly, stringendo con forza il pugno destro.
«E a te conviene lasciar perdere tutta questa storia» sibilò Blue Bird, nascondendo il bottino.
«Scordatelo! Quella statuetta mi serve!»
Butterfly caricò un pugno che fu immediatamente parato; il ragazzo si tirò indietro e provò a scappare ma ella, senza lasciarsi scoraggiare, ritornò all’attacco con un calcio che questa volta lo colpì all’addome, facendolo piegare gemendo leggermente: il colpo gli aveva smorzato il respiro e ora provava qualche fitta acuta nel respirare normalmente. Si rialzò con il fiatone e le lanciò uno sguardo fiammeggiante, quando la loro lotta fu interrotta dai poliziotti. Entrambi imprecarono ad alta voce e si misero in guardia; Blue Bird si lanciò verso la finestra, calandosi velocemente, seguito un attimo dopo dalla ragazza, ma anche fuori vennero circondati.
«Bene, bene» disse l’ispettore superando la barriera umana, «Butterfly e Blue Bird, i miei arci nemici riuniti nello stesso luogo, in trappola! Spero non sia un sogno»
«E allora speri male, vecchiaccio» sbottò Butterfly con tono arrogante e nervoso, poi sorrise beffarda. Con un gesto veloce della mano derubò il rivale e, prendendo una piccola rincorsa, spiccò un balzo abbastanza alto da poter arrivare alle spalle di uno dei poliziotti e usarlo come trampolino di lancio, come ormai era sua abitudine.
Corse veloce, uscendo dalla proprietà privata ed entrando nei vicoli bui della città addormentata. Svoltò per una via e accelerò il passo, sentendo le gambe tremare e i muscoli tendersi fino a dolere, la bocca socchiusa e il petto che si alzava e abbassava frenetico mentre i polmoni chiedevano pietà. Dietro di sé sentiva gli uomini della polizia muoversi, urlarsi gli ordini per catturarla e lei, senza rendersene conto, finì dritta nella loro trappola: l’avevano circondata sbucando dalle stradine secondarie.
«Mi onora avere così tanti uomini alle calcagna, peccato che il mio cuore non sia libero» ghignò lei.
Butterfly ragionò velocemente: avendo agenti anche dietro le spalle non poteva controllare le loro mosse e per lei sarebbero stati guai; non vedeva muri su cui arrampicarsi e tentare così la fuga; le uniche soluzioni sembravano arrendersi o combattere. Ovviamente non si sarebbe arresa nemmeno sotto tortura, e iniziò a menare pugni e calci a una parte del corpo poliziesco riunito quella sera e a quelli che si avvicinavano. Ma loro erano in tanti e ben presto la ragazza si stancò; un colpo ben piazzato al plesso solare da uno degli agenti, una spazzata alla gamba da un altro e si ritrovò a terra, ansimante e dolorante.
La voltarono a pancia all’aria e vide con terrore la sagoma in controluce di un uomo avvicinarsi con la mano protesa, chiuse gli occhi non volendo vedere altro e nella sua mente apparve il volto di Felix.
«Felix» mormorò disperata, se l’avessero presa sarebbe finita veramente male per lei e non avrebbe più potuto vedere il suo amico. No, non sarebbe andata a finire in quel modo, si disse con una nuova determinazione che le nasceva nel petto.
Spalancò gli occhi e provò a tirare una testata al poliziotto che però sembrava averlo predetto e la fermò; provò allora a tirargli pugni e calci, mandando per fortuna qualche colpo assegno.
«Stai ferma!» sbottò l’uomo a bassa voce. «Fingiti svenuta quando ti darò il pugno e non muoverti»
Butterfly spalancò gli occhi e per la sorpresa smise di agitarsi. «Perché?» sussurrò spaventata.
L’uomo non rispose e fece per tirarle il pugno come aveva detto, chiuse istintivamente gli occhi preparandosi al dolore ma questo non arrivò, sentì piuttosto il rumore di ossa che si scontrano con qualcosa di duro. Socchiuse le palpebre osservando sconvolta il profilo familiare del giovane uomo. Lui la prese in braccio e disse ai suoi colleghi che la ladra era svenuta e l’avrebbe portata lui dall’ispettore, gli altri non trovarono nulla da obbiettare e poco a poco si dispersero, rimanendo però in tre.
Dopo qualche minuto di camminata si udì il rumore di un bidone caduto e un uomo in biancheria fare capolinea dalle ombre di un vicolo.
«Fermatelo!» strillò, indicando con un dito l’agente con in braccio Butterfly. «E’ Blue Bird! Quello è Blue Bird!»
«Merda!» imprecò il giovane uomo, facendo spalancare gli occhi a Butterfly, cosa che non sfuggì agli altri poliziotti.
«Prendetelo!»
Blue Bird posò delicatamente la ragazza e si voltò verso gli uomini rimasti stendendoli con qualche colpo nel giro di cinque minuti; lasciandoli contorcersi nel dolore, afferrò il polso di Butterfly che nel frattempo si era alzata, senza però accennare a scappare come le suggeriva la mente, e la trascinò via, iniziando a correre a perdifiato.
Dopo un bel paio di minuti si infilarono nello spazio tra due edifici, abbastanza largo da farli stare comodamente entrambi, ma il ragazzo la spinse delicatamente contro il muro, cercando di appiattire il più possibile la loro figura e proteggere la ladra da possibili poliziotti.
«Perché mi hai aiutato? Perché, se insistevi nel dirmi di lasciar perdere tutto?» chiese con un sussurro roco Butterfly, alzando la testa nella speranza di incrociare gli occhi di lui, che erano puntati sulla via in cerca di possibili guai, e dopo un po’ il suo desiderio fu esaudito.
Blue Bird poggiò una mano al lato del volto di lei, si piegò fino ad arrivare alla sua stessa altezza e sorrise. «Perché mi hai chiamato, Sora»
Butterfly spalancò gli occhi spaventata, come faceva a sapere della sua identità? Irrequieta, si mosse tra le sue braccia e il pensiero della fuga le balenò in mente ma con il sangue congelato nelle vene, si rese conto che il ladro le aveva fatto scivolare via dal volto la maschera bianca e nera; spalancò gli occhi grigi spaventata, il cuore che batteva forte e il petto che si alzava e abbassava velocemente.
«Perché?» sussurrò spaventata.
«Perché mi hai chiamato Sora» ripeté lui, «e perché sei troppo importante per lasciarti stare»
Il volto del ladro si avvicinò ulteriormente a lei e, come la prima volta, ella sentì distintamente il fiato caldo e al sapore di menta di Blue Bird accarezzarle il viso; gli occhi azzurri esprimevano tutto quello che con le parole, a volte, non si riesce a dire. Le si mozzò il fiato in gola quando comprese.
«Felix...»


L'Angolo della Sadica:
E allora gente! Siamo arrivati fino a questo punto, eh? Siete contenti, alcuni misteri sono stati svelati, ma ce ne sono ancora molti altri da scoprire. Che dire? Sinceramente non lo so. Di certo mi scuserò per il fatto che molto probabilmente ci saranno molti errori, più del solito, ma non ho veramente tempo, e voglia, di correggere e siccome avevo promesso di farlo stasera, eccomi qui. Scusate ancora!
Spero a presto
La vostra pazza e distratta Sadako Kurokawa

  
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