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Autore: Wakachan    09/10/2012    0 recensioni
Come si inizia a raccontare una storia?
A scuola mi hanno insegnato che bisogna partire dal principio di tutto. Il fatto è che non so quando tutto sia iniziato. Penso che avere sedici anni e dire di voler raccontare la storia della mia vita vi abbia fatto scoppiare dal ridere. Beh, diciamo che non si tratta proprio della storia della mia vita. Si tratta di un pezzo della mia vita che, forse, non dimenticherò mai. Anzi, togliete quello stupido forse.
Genere: Commedia, Demenziale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
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Hola! Ecco a voi il primo capitolo di questa strana fan fiction. E’ la prima volta che scrivo una storia in prima persona, quindi spero di non aver combinato pasticci ed altro. :/ La storia mi sta prendendo molto e ho già pronti alcuni capitoli. Per il resto, non so ancora come andrà a finire quindi sono abbastanza nervosa. L’ispirazione a questa fic mi è venuta guardando un video su una manifestazione americana: lo Spam Jam. Lo Spam è una sorta di carne di maiale, a quanto ho capito, sottovuoto. Si utilizza negli hamburger ed è stata riconosciuta anche nei paesi Islamici, tanto che è molto famosa. Questa manifestazione avviene ad Austin, nel Minnesota. Quindi mi sono immedesimata fin troppo nello spirito della festa ed ho immaginato, inventato ed inserito dei personaggi la cui storia sarà segnata proprio da quell’evento. Ovviamente, non parlo dello Spam Jam anche perché non conosco così a fondo la manifestazione e non vorrei incappare in errori grossolani. Beh, non mi perdo in ulteriori chiacchiere. Mi ritroverete a fine capitolo. Buona lettura! J

 

Tire Swing.

 

Du du du du du du dudu
Du du du du du du dudu
Du du du du du du dudu du.

Come si inizia a raccontare una storia?

A scuola mi hanno insegnato che bisogna partire dall’inizio di tutto. Il fatto è che non so quando tutto sia iniziato. Penso che avere sedici anni e dire di voler raccontare la storia della mia vita vi abbia fatto scoppiare dal ridere. Beh, diciamo che non si tratta proprio della storia della mia vita. Si tratta di un pezzo della mia vita che, forse, non dimenticherò mai. Anzi, togliete quello stupido forse.

Non sono qui per annoiarvi con banali descrizioni sul mio conto; le trovo insulse e per di più non sono il tipo di ragazza che ama parlare di sé.

“Juliet Jonhson.”

“Presente.” Sbadigliai. La signora Brooke, o meglio l’insegnante, mi lanciò uno sguardo glaciale che ignorai completamente. Sapevo di stare sui cosidetti alla Brooke ma a me non interessava più di tanto. “Lawrence Martin.”

“Si, presente.” Disse stavolta una voce maschile, o almeno, dalla tonalità più marcata e profonda della precedente. Apparteneva ad un ragazzo, appunto Martin Lawrence. Un figone assurdo, per me. Lo guardai di sfuggita e mi concentrai sulla sua carnagione chiara, illuminata ancora di più dai raggi del sole che filtravano dalla finestra. Non era la prima volta che mi capitava di fissarlo, anzi. Martin è, se così si può definire, il mio migliore amico.  “Peterson Alaska.” Continuò la strega.

Insieme all’appena nominata Alaska. Strano nome da dare ad una bambina, vero? Diciamo che Alaska non possedeva nessuna delle caratteristiche di quella bellissima città. Oddio, la mia migliore amica era molto carina ma, cioè, non mi riferivo al suo aspetto esteriore, più che altro intendevo che Alaska non è fredda come la città. Risi piano al pensiero di quello che la mia mente aveva appena partorito.

“Jonhson!” urlò la strega. Sbuffai ed a malapena alzai la testa dal libro di matematica. La osservai infastidita. Probabilmente se ne accorse, visto che mi continuava a fissare in cagnesco. Quella donna era estenuante ed oltretutto era anche un’isterica pazza che non aveva alcuna idea di come si insegnasse a stare buoni a dei ragazzacci di sedici anni. “Ci vorresti rendere partecipi delle tue risate, signorina?”

Sospirai e trattenni una risposta che mi avrebbe mandato in presidenza. “Mi scusi.” Borbottai.

La strega sembrava soddisfatta, bene. L’avevo così tanto convinta che si era rimessa a spiegare la sua noiosissima lezione di matematica di cui non avevo preso neppure un appunto. Lanciai un’occhiata al quaderno di Martin: era pieno di appunti. Quel pomeriggio sarei piombata a casa sua e con la scusa dei compiti ci saremmo potuti vedere.

Non è come pensate voi, ve lo assicuro. A me non piace Martin. Lo guardai nuovamente: era così attento alla lezione! Lo ammiravo per questo. Lui non era come me, non era capace di commettere nemmeno un errore. Capirete, Martin non è un secchione ma è uno che ci tiene a mantenere una certa media scolastica. Per me è un genio quel ragazzo! Infatti, riesce a conciliare lo studio con la sua passione preferita, ovvero il basket. Arrossii improvvisamente poiché mi ero improvvisamente accorta che mi stava fissando e, dalla sua espressione, capivo che stava cercando il motivo per cui lo stavo osservando. Che potevo fare? Gli feci una linguaccia per uscire da quell’imbarazzante situazione e mi voltai verso la lavagna riempita da simboli impossibili.

D’un tratto la campanella di fine lezione suonò. Presi la mia roba e mi avviai verso l’uscita dell’aula.

“Ehmm, Julie.” Il modo in cui Martin mi aveva chiamata, mi fece trasalire. Non mi voltai ma aspettai che fosse lui a raggiungermi.

Nonostante mi avesse raggiunta, continuava a camminare ormai da cinque minuti accanto a me senza parlare: mi stava mandando in bestia perché ero curiosa di sapere cosa volesse. Alla fine, mi fermai e mi si piazzò davanti.

I suoi occhioni marroni mi fissavano in maniera diversa dal solito, tant’è che mi preoccupai. “C’è qualcosa che non va, Martin?”

Scosse la testa piena di ricci biondi e abbassò lo sguardo. Notai, anche, che le sue guance si stavano colorando. Impulsivamente gli misi una mano sulla spalla. Quel contatto lo fece sobbalzare e, poi, sospirare. “Eddai, sputa il rospo”

Ancora una volta fece cenno di no con la testa, anche se era riuscito a bofonchiare qualcosa che non avevo ben afferrato. E, siccome non si decideva a parlare, allora decisi di interrompere quello stupido silenzio parlando di qualcosa che serviva a me. Assolutamente.

“Ho visto che hai il quaderno di matematica pieno di appunti. Non è che se più tardi passo a casa tua, studiamo insieme come al solito, eh?” Lui mi sorrise e, in quel sorriso, vidi che si sentiva sollevato. Forse, lo avevo tirato fuori dai guai senza sapere nemmeno come. Martin si limitò ad annuire con la testa. “Ci vediamo più tardi, Jonhs.” E corse via.

Alzai un sopracciglio e mi avvicinai al mio armadietto. Ormai, mancavano poche ore e presto sarei potuta uscire da quell’inferno. C’era ancora la pausa pranzo e l’ora di ginnastica. Che poi, mi spiegate che senso ha fare ginnastica dopo aver mangiato? Mi ricordo una volta che Emily Reeds era stata mandata in infermeria dopo che aveva riempito di vomito la giacca della prof. Feci una smorfia al solo pensiero e mi avviai verso la sala mensa.

“Ehi, ma si può sapere dov’eri finita?”

Era stata Alaska a parlare. Alzai le spalle velocemente, mentre cercavo qualcosa di decente da mettere sul mio vassoio. Notai una busta di patatine e, dato che era l’ultima, l’afferrai velocemente. Il mio gesto provocò un malcontento generale che proveniva dalle mie spalle. “Dividerai la metà di quelle con me, vero Julie?”

Guardai Alaska e riuscì ad intenerirmi con quei suoi occhi azzurri e speranzosi. Ovviamente, era la pancia vuota che la rendeva così dolce nei miei confronti. “Ok, basta che non rompi più” sospirai.

Ci trovammo un posto dove sedere. Cercavo Martin in quell’enorme sala ma non riuscivo a trovarlo. Oltretutto, essendo a fine anno, l’istituto era spesso visitato da mocciosetti delle medie che, probabilmente, avrei rivisto l’anno successivo.

“Si può sapere che cos’ha Mart?” chiese Alaska e nel frattempo mi rubò una patatina.

Quasi mi strozzavo con il succo di pera che stavo bevendo. “On…onestamente non lo so. Però poco fa è venuto a parlarmi ma non ho capito cosa voleva…” Mi fermai di colpo. Effettivamente, non avevo ascoltato per niente quello che doveva dirmi Martin. Anzi, non l’avevo nemmeno fatto parlare! Chissà come doveva essersi sentito.

“Julie.. Cos’hai combinato?”

Il tono di Alaska mi faceva capire che sapeva, dato il mio comportamento sventato, che avevo fatto qualcosa che non andava.

“Ero così preoccupata per gli appunti di matematica che, invece di far continuare Martin a parlare, l’ho interrotto per chiedergli se oggi pomeriggio potevo andare a casa sua…” Mentre lo dicevo, mi rendevo conto di quanto stupida fossi stata e, lentamente, abbassai lo sguardo verso il vassoio blu, praticamente vuoto. Piuttosto che aiutare un mio amico in difficoltà, me n’ero fregata e mi stavo anche riempiendo la pancia senza pensare ad altro.

Alaska sospirò. “Sei la solita.”

Ero infuriata. Con me stessa! Mi voltai e mi rivoltai tante volte, in cerca di una chioma bionda riccioluta che poteva indicarmi Martin. Era inutile, lui non era venuto a mangiare. Mi venne un’idea. “Non è che per caso è già andato in palestra come al suo solito?”

La mia amica alzò le spalle e si grattò la testa. La sua espressione mi faceva capire che probabilmente poteva essere come stavo immaginando ma poteva anche essere che Martin aveva deciso di saltare il pranzo e ginnastica per tornare a casa, solo e arrabbiato perché non l’avevo degnato.

La campanella squillò e lentamente, un po’ tutti, cominciarono ad uscire dalla sala. Solitamente, aspettavamo che un po’ di gente lasciasse la stanza prima di avviarci verso la palestra. “Ciao Alaska.”

Un ragazzo. Castano, occhi scuri, lentiggini e carnagione nivea si era avvicinato alla mia amica e l’aveva salutata. Nessuno di noi due lo conosceva. Certamente, pensai, era un ammiratore segreto.

In effetti, Alaska era carina ma niente di che. Diciamo che, la sua dote principale, era il carisma ed.. i suoi capelli! Appunto, aveva dei capelli lunghissimi e ondulati, di un colore non molto scuro, all’incirca sul cioccolato. Era leggermente sconvolta ma riuscì a cavarsela come al suo solito. “So che non ci conosciamo, o almeno, tu non conosci me.. “ continuò il ragazzo.

Cercai di soffocare una risatina ma mi uscì uno strano ghigno ugualmente. Il tizio se ne accorse e diventò ancora più rosso di quanto già non fosse ma, ciononostante continuò a parlare. “Mi chiamo Lucas e.. Non so se sei a conoscenza della festa che si terrà presto a Willsbourgh… “

Una festa? C’era una festa a Willsbourgh? Alaska annuiva tranquillamente e ciò mi fece sentire una sciocca perché questa era la prova che non davo retta a niente ed a nessuno. Possibile fossi così infantile ed egoista? Ma, soprattutto, possibile che ero così fuori dal mondo?

“Beh.. Mi stavo chiedendo se… “ Lucas mi guardò infastidito, come se volesse farmi un incantesimo e rendermi invisibile e sorda. Ovviamente, non mi alzai e non gli feci nessun favore perché non me n’ero accorta. Ancora una volta. “Ti va di venirci con me?”

Mi fissai le unghie inesistenti. Avevo provato più volte a togliermi il vizio di rosicchiarle ma non ero mai riuscita nell’impresa. “Ok, per me va benissimo” rispose Alaska.

“Finalmente” mormorai. Non sembrava che l’avessi detto così piano perché sia Lucas sia Alaska mi fucilarono con lo sguardo. Entrambi avevano le guance color cremisi ed entrambi sembravano dei perfetti idioti. Mi alzai e dopo aver guardato l’orologio, iniziai ad imprecare. Presi per il polso Alaska e me la trascinai fino in palestra dove la professoressa attendeva solo noi due per iniziare l’appello.

“Mi spiegate per quale motivo siete sempre in ritardo, voi due?”

“Avevamo dimenticato una cosa nell’aula di matematica.” Risposi, cercando di essere più convincente possibile.

La signorina Coleman era davvero simpatica e disponibile ma non quella mattina. Il suo aspetto ne era una prova visibile. Aveva i capelli ricci tutti scombinati, avvolti in uno chignon fatto malissimo, la faccia completamente bianca e priva di trucco. Inoltre, anche la sua postura era assurda visto che ci faceva sempre una testa così su come camminare e stare diritti con la schiena.

La professoressa Coleman sospirò perché, come al solito, Alaska stava utilizzando la sua tecnica “occhi dolci” per intenerirla e cercare di passarla liscia anche quella volta.

Dopo aver fatto all’appello ed aver incrociato gli occhi di Martin, stranamente spenti e fugaci, andammo tutte a cambiarci all’interno dello spogliatoio per indossare la tuta da ginnastica. Mi vergognavo da morire a cambiarmi davanti a tutte, a differenza di Alaska, la quale si stava spogliando tranquillamente. E addirittura, parlava con le altre.

Appena tutte, eccetto Alaska che mi aspettava ogni volta, uscirono,mi iniziai a togliere la t-shirt. “Jiuls.” Mi chiamò la mora.

“Dimmi.” Risposi soffocata all’interno della felpa della tuta.

“E’ possibile che Martin volesse invitarti alla festa di Willsbourgh?”

Non avevo ancora centrato il buco dove avrei dovuto far sbucare la testa che, a quelle parole, mi bloccai. Che cosa voleva fare Martin? Ne approfittai del nascondiglio provvisorio per evitare di mostrare le mie gote arrossate ad Alaska. Non ci volevo pensare ed essendomi innervosita, iniziai a dimenarmi così tanto che non riuscì più a trovare la via d’uscita per la mia testa.

Oltretutto, Alaska aveva iniziato a ridere per la scena ed , invece di aiutarmi, continuava a sghignazzare senza ritegno. Infuriata mi riuscii a liberare e, indossata la felpa, mi misi velocemente i pantaloncini. “In cosa consiste questa cavolo di festa?”

Alaska aggrottò la fronte mentre ci univamo alle altre ragazze che avevano iniziato a correre, formando una sorta di fila indiana.

“Ho il programma a casa. Avverrà il venerdì della prossima settimana e tutti i ragazzi della nostra età, di tutti gli istituti di Willsbourgh dovrebbero andare alla festa con un/una partner. Per quanto mi riguarda, pensavo di andarci insieme a te e non mi aspettavo che qualcuno mi invitasse..” spiegò.

Stavo per tartassare di domande la mia povera amica, quando mi arrivò una palla da basket sui piedi. Mi distaccai dalla fila per poterla raccogliere e restituirla al proprietario o, almeno, a chi la stava utilizzando. Tenevo gli occhi fissi sulla palla arancione: quel colore era come una calamita su di me. “Grazie, Jiuls.”

Trasalii. Era stato Martin a parlare. Lo guardai e rimanemmo a fissarci per almeno dieci secondi. Il suo sguardo era diverso dal solito ma, nonostante tutto, riuscii a sostenerlo. Non gli avevo ancora restituito la palla e, anzi, avevo deciso di seguire con le dita quelle stupide righe nere che contraddistinguono un pallone da basket da un enorme arancia. “Che fai? Non me lo ridai?”

“Certo.” E buttai per terra il pallone, senza nemmeno passarglielo. Che diavolo mi stava succedendo? Il fatto è che non mi andava nemmeno di analizzare tutto ciò che facevo e quindi stavo agendo di impulso. Dalla coda dell’occhio vidi Martin letteralmente basito che mi seguiva con lo sguardo, senza capire il perché di quello stupido gesto. Poi, andò a riprendere la palla e ricominciò a giocare con gli altri ragazzi.

“Sei scema?”

“Sta zitta, Alaska.” Risposi. Evidentemente, la mia amica mi aveva raggiunta e si era accodata a me. “Mi sto già rimproverando da sola. Non c’è bisogno che ti ci metti anche tu.”

Sentii un chiaro grugnito di risposta. “Mettiamo il caso che tu a Martin piaci…”

“No, no, no, no, no” cominciai. Avevo pronunciato quelle parole con così tanta enfasi che la signorina Coleman mi fece cenno di abbassare la voce e di concentrarmi sulla corsa.

Alaska non doveva neppure pensare a certe cose. A Martin piaceva quella tizia che l’anno scorso aveva vomitato in palestra, quella Emily. “Chi credi porterà alla festa?” continuò ancora quella zecca della mia amica.

“Emily Reeds.” Fu la mia risposta secca e precisa. Per sviare a quel discorso, decisi di accelerare il passo e senza dire nemmeno una parola, superai la compagna che avevo davanti per poi procedere al sorpasso delle altre.

“Brava Jonhson!” mi incitò la Coleman.

 

Angolo della scrittrice:

Ok, finale di schifo. Perdonatemi se ho concluso così la storia ma vi assicuro che c’è un motivo e lo capirete nel prossimo capitolo. Allora come vi è sembrato? Innanzitutto, ci tenevo a precisare che Willsbourgh non esiste. E’ una città che ho inventato sempre per cercare di non incappare in stupidi errori. Diciamo che tutto quello che ho scritto sopra è inventato e non c’è nulla di veritiero. *Ogni riferimento a persone, fatti realmente accaduti è puramente casuale, lo giuro*

Beh, siccome sono sfinita dopo una lunga giornata di lavoro, vi lascio qui. Per favore, recensite. A me vanno bene anche le recensioni piene di insulti.

Wakacchan.

 

  
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