Hola!
Ecco a voi il primo
capitolo di questa strana fan fiction. E’ la prima volta che
scrivo una storia
in prima persona, quindi spero di non aver combinato pasticci ed altro.
:/ La
storia mi sta prendendo molto e ho già pronti alcuni
capitoli. Per il resto,
non so ancora come andrà a finire quindi sono abbastanza
nervosa. L’ispirazione
a questa fic mi è venuta guardando un video su una
manifestazione americana: lo
Spam Jam. Lo Spam è una sorta di carne di maiale, a quanto
ho capito,
sottovuoto. Si utilizza negli hamburger ed è stata
riconosciuta anche nei paesi
Islamici, tanto che è molto famosa. Questa manifestazione
avviene ad Austin,
nel Minnesota. Quindi mi sono immedesimata fin troppo nello spirito
della festa
ed ho immaginato, inventato ed inserito dei personaggi la cui storia
sarà
segnata proprio da quell’evento. Ovviamente, non parlo dello
Spam Jam anche perché
non conosco così a fondo la manifestazione e non vorrei
incappare in errori
grossolani. Beh, non mi perdo in ulteriori chiacchiere. Mi ritroverete
a fine
capitolo. Buona lettura! J
Tire
Swing.
Du
du du du du du dudu
Du
du du du du du dudu
Du
du du du du du dudu du.
Come
si inizia a
raccontare una storia?
A
scuola mi hanno
insegnato che bisogna partire dall’inizio di tutto. Il fatto
è che non so
quando tutto sia iniziato. Penso che avere sedici anni e dire di voler
raccontare la storia della mia vita vi abbia fatto scoppiare dal
ridere. Beh,
diciamo che non si tratta proprio della storia della mia vita. Si
tratta di un
pezzo della mia vita che, forse, non dimenticherò mai. Anzi,
togliete quello stupido
forse.
Non
sono qui per
annoiarvi con banali descrizioni sul mio conto; le trovo insulse e per
di più
non sono il tipo di ragazza che ama parlare di sé.
“Juliet
Jonhson.”
“Presente.”
Sbadigliai. La
signora Brooke, o meglio l’insegnante, mi lanciò
uno sguardo glaciale che
ignorai completamente. Sapevo di stare sui cosidetti alla Brooke ma a
me non
interessava più di tanto. “Lawrence
Martin.”
“Si,
presente.” Disse
stavolta una voce maschile, o almeno, dalla tonalità
più marcata e profonda
della precedente. Apparteneva ad un ragazzo, appunto Martin Lawrence.
Un figone
assurdo, per me. Lo guardai di sfuggita e mi concentrai sulla sua
carnagione
chiara, illuminata ancora di più dai raggi del sole che
filtravano dalla
finestra. Non era la prima volta che mi capitava di fissarlo, anzi.
Martin è,
se così si può definire, il mio migliore amico.
“Peterson Alaska.” Continuò
la strega.
Insieme
all’appena
nominata Alaska. Strano nome da dare ad una bambina, vero? Diciamo che
Alaska
non possedeva nessuna delle caratteristiche di quella bellissima
città. Oddio,
la mia migliore amica era molto carina ma, cioè, non mi
riferivo al suo aspetto
esteriore, più che altro intendevo che Alaska non
è fredda come la città. Risi
piano al pensiero di quello che la mia mente aveva appena partorito.
“Jonhson!”
urlò la
strega. Sbuffai ed a malapena alzai la testa dal libro di matematica.
La
osservai infastidita. Probabilmente se ne accorse, visto che mi
continuava a
fissare in cagnesco. Quella donna era estenuante ed oltretutto era
anche
un’isterica pazza che non aveva alcuna idea di come si
insegnasse a stare buoni
a dei ragazzacci di sedici anni. “Ci vorresti rendere
partecipi delle tue
risate, signorina?”
Sospirai
e trattenni una
risposta che mi avrebbe mandato in presidenza. “Mi
scusi.” Borbottai.
La
strega sembrava
soddisfatta, bene. L’avevo così tanto convinta che
si era rimessa a spiegare la
sua noiosissima lezione di matematica di cui non avevo preso neppure un
appunto. Lanciai un’occhiata al quaderno di Martin: era pieno
di appunti. Quel
pomeriggio sarei piombata a casa sua e con la scusa dei compiti ci
saremmo
potuti vedere.
Non
è come pensate voi,
ve lo assicuro. A me non piace Martin. Lo guardai nuovamente: era
così attento
alla lezione! Lo ammiravo per questo. Lui non era come me, non era
capace di
commettere nemmeno un errore. Capirete, Martin non è un
secchione ma è uno che
ci tiene a mantenere una certa media scolastica. Per me è un
genio quel
ragazzo! Infatti, riesce a conciliare lo studio con la sua passione
preferita,
ovvero il basket. Arrossii improvvisamente poiché mi ero
improvvisamente
accorta che mi stava fissando e, dalla sua espressione,
capivo che
stava cercando il motivo per cui lo stavo osservando. Che potevo fare?
Gli feci
una linguaccia per uscire da quell’imbarazzante situazione e
mi voltai verso la
lavagna riempita da simboli impossibili.
D’un
tratto la
campanella di fine lezione suonò. Presi la mia roba e mi
avviai verso l’uscita
dell’aula.
“Ehmm,
Julie.” Il modo
in cui Martin mi aveva chiamata, mi fece trasalire. Non mi voltai ma
aspettai
che fosse lui a raggiungermi.
Nonostante
mi avesse
raggiunta, continuava a camminare ormai da cinque minuti accanto a me
senza
parlare: mi stava mandando in bestia perché ero curiosa di
sapere cosa volesse.
Alla fine, mi fermai e mi si piazzò davanti.
I
suoi occhioni marroni
mi fissavano in maniera diversa dal solito, tant’è
che mi preoccupai. “C’è
qualcosa che non va, Martin?”
Scosse
la testa piena di
ricci biondi e abbassò lo sguardo. Notai, anche, che le sue
guance si stavano
colorando. Impulsivamente gli misi una mano sulla spalla. Quel contatto
lo fece
sobbalzare e, poi, sospirare. “Eddai, sputa il
rospo”
Ancora
una volta fece
cenno di no con la testa, anche se era riuscito a bofonchiare qualcosa
che non
avevo ben afferrato. E, siccome non si decideva a parlare, allora
decisi di
interrompere quello stupido silenzio parlando di qualcosa che serviva a
me.
Assolutamente.
“Ho
visto che hai il
quaderno di matematica pieno di appunti. Non è che se
più tardi passo a casa
tua, studiamo insieme come al solito, eh?” Lui mi sorrise e,
in quel sorriso,
vidi che si sentiva sollevato. Forse, lo avevo tirato fuori dai guai
senza
sapere nemmeno come. Martin si limitò ad annuire con la
testa. “Ci vediamo più
tardi, Jonhs.” E corse via.
Alzai
un sopracciglio e
mi avvicinai al mio armadietto. Ormai, mancavano poche ore e presto
sarei
potuta uscire da quell’inferno. C’era ancora la
pausa pranzo e l’ora di
ginnastica. Che poi, mi spiegate che senso ha fare ginnastica dopo aver
mangiato? Mi ricordo una volta che Emily Reeds era stata mandata in
infermeria
dopo che aveva riempito di vomito la giacca della prof. Feci una
smorfia al
solo pensiero e mi avviai verso la sala mensa.
“Ehi,
ma si può sapere
dov’eri finita?”
Era
stata Alaska a
parlare. Alzai le spalle velocemente, mentre cercavo qualcosa di
decente da
mettere sul mio vassoio. Notai una busta di patatine e, dato che era
l’ultima,
l’afferrai velocemente. Il mio gesto provocò un
malcontento generale che
proveniva dalle mie spalle. “Dividerai la metà di
quelle con me, vero Julie?”
Guardai
Alaska e riuscì
ad intenerirmi con quei suoi occhi azzurri e speranzosi. Ovviamente,
era la
pancia vuota che la rendeva così dolce nei miei confronti.
“Ok, basta che non
rompi più” sospirai.
Ci
trovammo un posto
dove sedere. Cercavo Martin in quell’enorme sala ma non
riuscivo a trovarlo.
Oltretutto, essendo a fine anno, l’istituto era spesso
visitato da mocciosetti delle
medie che, probabilmente, avrei rivisto l’anno successivo.
“Si
può sapere che cos’ha
Mart?” chiese Alaska e nel frattempo mi rubò una
patatina.
Quasi
mi strozzavo con
il succo di pera che stavo bevendo.
“On…onestamente non lo so. Però poco fa
è
venuto a parlarmi ma non ho capito cosa voleva…”
Mi fermai di colpo.
Effettivamente, non avevo ascoltato per niente quello che doveva dirmi
Martin.
Anzi, non l’avevo nemmeno fatto parlare! Chissà
come doveva essersi sentito.
“Julie..
Cos’hai
combinato?”
Il
tono di Alaska mi
faceva capire che sapeva, dato il mio comportamento sventato, che avevo
fatto
qualcosa che non andava.
“Ero
così preoccupata
per gli appunti di matematica che, invece di far continuare Martin a
parlare, l’ho
interrotto per chiedergli se oggi pomeriggio potevo andare a casa
sua…” Mentre
lo dicevo, mi rendevo conto di quanto stupida fossi stata e,
lentamente,
abbassai lo sguardo verso il vassoio blu, praticamente vuoto. Piuttosto
che
aiutare un mio amico in difficoltà, me n’ero
fregata e mi stavo anche
riempiendo la pancia senza pensare ad altro.
Alaska
sospirò. “Sei la
solita.”
Ero
infuriata. Con me
stessa! Mi voltai e mi rivoltai tante volte, in cerca di una chioma
bionda
riccioluta che poteva indicarmi Martin. Era inutile, lui non era venuto
a
mangiare. Mi venne un’idea. “Non è che
per caso è già andato in palestra come
al suo solito?”
La
mia amica alzò le
spalle e si grattò la testa. La sua espressione mi faceva
capire che
probabilmente poteva essere come stavo immaginando ma poteva anche
essere che
Martin aveva deciso di saltare il pranzo e ginnastica per tornare a
casa, solo
e arrabbiato perché non l’avevo degnato.
La
campanella squillò e
lentamente, un po’ tutti, cominciarono ad uscire dalla sala.
Solitamente,
aspettavamo che un po’ di gente lasciasse la stanza prima di
avviarci verso la
palestra. “Ciao Alaska.”
Un
ragazzo. Castano,
occhi scuri, lentiggini e carnagione nivea si era avvicinato alla mia
amica e l’aveva
salutata. Nessuno di noi due lo conosceva. Certamente, pensai, era un
ammiratore segreto.
In
effetti, Alaska era
carina ma niente di che. Diciamo che, la sua dote principale, era il
carisma
ed.. i suoi capelli! Appunto, aveva dei capelli lunghissimi e ondulati,
di un
colore non molto scuro, all’incirca sul cioccolato. Era
leggermente sconvolta
ma riuscì a cavarsela come al suo solito. “So che
non ci conosciamo, o almeno,
tu non conosci me.. “ continuò il ragazzo.
Cercai
di soffocare una
risatina ma mi uscì uno strano ghigno ugualmente. Il tizio
se ne accorse e
diventò ancora più rosso di quanto già
non fosse ma, ciononostante continuò a
parlare. “Mi chiamo Lucas e.. Non so se sei a conoscenza
della festa che si terrà
presto a Willsbourgh… “
Una
festa? C’era una
festa a Willsbourgh? Alaska annuiva tranquillamente e ciò mi
fece sentire una
sciocca perché questa era la prova che non davo retta a
niente ed a nessuno.
Possibile fossi così infantile ed egoista? Ma, soprattutto,
possibile che ero
così fuori dal mondo?
“Beh..
Mi stavo
chiedendo se… “ Lucas mi guardò
infastidito, come se volesse farmi un
incantesimo e rendermi invisibile e sorda. Ovviamente, non mi alzai e
non gli
feci nessun favore perché non me n’ero accorta.
Ancora una volta. “Ti va di
venirci con me?”
Mi
fissai le unghie
inesistenti. Avevo provato più volte a togliermi il vizio di
rosicchiarle ma
non ero mai riuscita nell’impresa. “Ok, per me va
benissimo” rispose Alaska.
“Finalmente”
mormorai.
Non sembrava che l’avessi detto così piano
perché sia Lucas sia Alaska mi
fucilarono con lo sguardo. Entrambi avevano le guance color cremisi ed
entrambi
sembravano dei perfetti idioti. Mi alzai e dopo aver guardato
l’orologio,
iniziai ad imprecare. Presi per il polso Alaska e me la trascinai fino
in
palestra dove la professoressa attendeva solo noi due per iniziare
l’appello.
“Mi
spiegate per quale
motivo siete sempre in ritardo, voi due?”
“Avevamo
dimenticato una
cosa nell’aula di matematica.” Risposi, cercando di
essere più convincente possibile.
La
signorina Coleman era
davvero simpatica e disponibile ma non quella mattina. Il suo aspetto
ne era
una prova visibile. Aveva i capelli ricci tutti scombinati, avvolti in
uno
chignon fatto malissimo, la faccia completamente bianca e priva di
trucco.
Inoltre, anche la sua postura era assurda visto che ci faceva sempre
una testa
così su come camminare e stare diritti con la schiena.
La
professoressa Coleman
sospirò perché, come al solito, Alaska stava
utilizzando la sua tecnica “occhi
dolci” per intenerirla e cercare di passarla liscia anche
quella volta.
Dopo
aver fatto all’appello
ed aver incrociato gli occhi di Martin, stranamente spenti e fugaci,
andammo
tutte a cambiarci all’interno dello spogliatoio per indossare
la tuta da
ginnastica. Mi vergognavo da morire a cambiarmi davanti a tutte, a
differenza
di Alaska, la quale si stava spogliando tranquillamente. E addirittura,
parlava
con le altre.
Appena
tutte, eccetto
Alaska che mi aspettava ogni volta, uscirono,mi iniziai a togliere la
t-shirt. “Jiuls.”
Mi chiamò la mora.
“Dimmi.”
Risposi soffocata
all’interno della felpa della tuta.
“E’
possibile che Martin
volesse invitarti alla festa di Willsbourgh?”
Non
avevo ancora
centrato il buco dove avrei dovuto far sbucare la testa che, a quelle
parole,
mi bloccai. Che cosa voleva fare Martin? Ne approfittai del
nascondiglio
provvisorio per evitare di mostrare le mie gote arrossate ad Alaska.
Non ci
volevo pensare ed essendomi innervosita, iniziai a dimenarmi
così tanto che non
riuscì più a trovare la via d’uscita
per la mia testa.
Oltretutto,
Alaska aveva
iniziato a ridere per la scena ed , invece di aiutarmi, continuava a
sghignazzare senza ritegno. Infuriata mi riuscii a liberare e,
indossata la
felpa, mi misi velocemente i pantaloncini. “In cosa consiste
questa cavolo di
festa?”
Alaska
aggrottò la
fronte mentre ci univamo alle altre ragazze che avevano iniziato a
correre,
formando una sorta di fila indiana.
“Ho
il programma a casa.
Avverrà il venerdì della prossima settimana e
tutti i ragazzi della nostra età,
di tutti gli istituti di Willsbourgh dovrebbero andare alla festa con
un/una
partner. Per quanto mi riguarda, pensavo di andarci insieme a te e non
mi
aspettavo che qualcuno mi invitasse..” spiegò.
Stavo
per tartassare di
domande la mia povera amica, quando mi arrivò una palla da
basket sui piedi. Mi
distaccai dalla fila per poterla raccogliere e restituirla al
proprietario o,
almeno, a chi la stava utilizzando. Tenevo gli occhi fissi sulla palla
arancione: quel colore era come una calamita su di me.
“Grazie, Jiuls.”
Trasalii.
Era stato
Martin a parlare. Lo guardai e rimanemmo a fissarci per almeno dieci
secondi.
Il suo sguardo era diverso dal solito ma, nonostante tutto, riuscii a
sostenerlo. Non gli avevo ancora restituito la palla e, anzi, avevo
deciso di
seguire con le dita quelle stupide righe nere che contraddistinguono un
pallone
da basket da un enorme arancia. “Che fai? Non me lo
ridai?”
“Certo.”
E buttai per
terra il pallone, senza nemmeno passarglielo. Che diavolo mi stava
succedendo?
Il fatto è che non mi andava nemmeno di analizzare tutto
ciò che facevo e
quindi stavo agendo di impulso. Dalla coda dell’occhio vidi
Martin
letteralmente basito che mi seguiva con lo sguardo, senza capire il
perché di
quello stupido gesto. Poi, andò a riprendere la palla e
ricominciò a giocare
con gli altri ragazzi.
“Sei
scema?”
“Sta
zitta, Alaska.” Risposi.
Evidentemente, la mia amica mi aveva raggiunta e si era accodata a me.
“Mi sto
già rimproverando da sola. Non c’è
bisogno che ti ci metti anche tu.”
Sentii
un chiaro
grugnito di risposta. “Mettiamo il caso che tu a Martin
piaci…”
“No,
no, no, no, no”
cominciai. Avevo pronunciato quelle parole con così tanta
enfasi che la
signorina Coleman mi fece cenno di abbassare la voce e di concentrarmi
sulla
corsa.
Alaska
non doveva
neppure pensare a certe cose. A Martin piaceva quella tizia che
l’anno scorso
aveva vomitato in palestra, quella Emily. “Chi credi
porterà alla festa?”
continuò ancora quella zecca della mia amica.
“Emily
Reeds.” Fu la mia
risposta secca e precisa. Per sviare a quel discorso, decisi di
accelerare il
passo e senza dire nemmeno una parola, superai la compagna che avevo
davanti
per poi procedere al sorpasso delle altre.
“Brava
Jonhson!” mi
incitò la Coleman.
Angolo
della scrittrice:
Ok,
finale di schifo.
Perdonatemi se ho concluso così la storia ma vi assicuro che
c’è un motivo e lo
capirete nel prossimo capitolo. Allora come vi è sembrato?
Innanzitutto, ci
tenevo a precisare che Willsbourgh non esiste. E’ una
città che ho inventato
sempre per cercare di non incappare in stupidi errori. Diciamo che
tutto quello
che ho scritto sopra è inventato e non
c’è nulla di veritiero. *Ogni
riferimento a persone, fatti realmente accaduti è puramente
casuale, lo giuro*
Beh,
siccome sono sfinita dopo
una lunga giornata di lavoro, vi lascio qui. Per favore, recensite. A
me vanno
bene anche le recensioni piene di insulti.
Wakacchan.