Bene,
eccomi qui con un nuovo capitolo!
Innanzitutto,
volevo ringraziare chi ha
letto la fic, anche per quei pochi che l’hanno letta. So che
non deve essere
divertente recensire ma, vi prego, fatemi davvero sapere cosa pensate!
Per uno
scrittore è molto importante sapere se la sua storia viene
apprezzata.
Comunque,
questo capitolo non mi
convince molto ma spero che lo leggerete lo stesso!
Alla
prossima.
Expectations
“Juliet,
vuoi che ti
accompagno fino a casa di Martin?” mi domandò mio
padre. Il suo volto
sorridente mi faceva sempre sentire in pace con me stessa e mi
ricordava quanto
lui fosse importante per me. In quel periodo aveva preso
l’abitudine di
indossare quella sciarpa verde che mia madre Anne gli aveva regalato
tempo fa.
Ovviamente, prima della sua morte.
Stava
molto bene il
verde a mio padre perché risaltava lo stesso colore dei suoi
occhi. Non ero
figlia unica ma la mia sorellastra stava certamente facendo i compiti
in camera
sua, ecco spiegato il motivo per cui non stava occupando la tv a mio
padre.
“No
grazie papà, vado in
bici.” Fu la mia risposta.
“Ma
sta piovendo!”
replicò lui, preoccupato di ciò che stavo per fare.
Gli
sorrisi e per non
farlo preoccupare ulteriormente, sollevai il cappuccio della mia felpa
e lo
posizionai sulla mia testa. “Così non mi
bagno.”
Papà
sbuffò ma era
visibilmente rassegnato a lasciarmi andare.
Sorrisi
appena mi trovai
fuori e corsi a prendere la bici. L’avevo voluta rossa, come
una Ferrari.
La
pioggia iniziava a
scendere sempre più corposa e veloce e quando raggiunsi la
casa di Martin ero
già praticamente fradicia. Col cavolo che quel cappuccio mi
aveva riparato
dall’acqua. Già vedevo la faccia di
papà, al mio ritorno. Non mi avrebbe più
fatto uscire in bici con la pioggia… E, forse, aveva
ragione. Ad ogni modo,
salii le scale che portavano alla porta dei Lawrence. Suonai.
Solitamente
ci stavano
un po’ prima di venire ad aprire la porta in noce e, quindi,
avevo la
possibilità di ammirare il loro splendido giardino. Certo,
con la pioggia era
tutto diverso ma anche senza sole, si riuscivano a vedere i colori
vivaci dei
cespugli di rose rosse che il signor Lawrence aveva coltivato con tanto
amore.
Il mio giardino non era paragonabile a quello di Martin, già
solo per la
brillantezza del prato.
Per
il resto, abitando
nella stessa via, era logico che il costruttore di quelle casette a
schiera avesse
deciso di farle tutte uguali, ovvero stesso colore del muro esterno,
stesso
materiale, stessa divisione delle camere. Improvvisamente la porta
d’ingresso
fu aperta e mi sentii profondamente in imbarazzo, quando la signora
Lawrence
sgranò gli occhi alla vista dei miei vestiti e dei miei
capelli.
“Juliet,
come sei
arrivata fin qui?” domandò lei, correndo in cucina
e tornando con una coperta
di lana che mi buttò sulle spalle.
Oh,
dimenticavo. La
signora Lawrence è tremendamente gentile e generosa. Tratta
tutti gli amici di
Martin come se fossero suoi figli. Anche io per una volta appartenevo
ad un
gruppo e, insieme a Martin ed alla mia famiglia, lei era
l’unica a non farmi
sentire diversa. Che poi, cos’avevo di diverso dagli altri?
“Sei venuta per
studiare con Mart, giusto?”
Annuii
mentre i denti
iniziavano a battere per il freddo che m’irradiava il corpo.
Mi voltai per non
farlo notare alla mamma di Martin e, dopo averla ringraziata, salii
correndo le
scale che portavano alla sua camera. Non bussai nemmeno. La mia mente
depravata
si aspettava di trovare Martin intento a guardare qualche video porno
su uno di
quei siti da quattro soldi. E invece no!
Martin
era nella sua
solita posizione: la schiena poggiata sulla testiera del letto e le
gambe che
facevano da poggia libro. Mi osservò anche lui con la stessa
espressione di sua
madre. “Non sei venuta in auto? Credevo che tuo padre ti
avesse accompagnata.”
Mi
appoggiai allo
stipite della porta. “Ho rifiutato perché volevo
venire in bici.”
Il
mio migliore amico
sbuffò e mi venne incontro. Mi tolse quella coperta dalle
spalle che continuavo
a tenere stretta e mi abbracciò. Il contatto con il suo
corpo caldo mi provocò
una serie di emozioni indescrivibili e tanti, ma tanti, brividi che mi
percorrevano la schiena come piccole scosse di elettricità.
“Aspetta, mi è venuta
un’idea…”
Rimasi
nella stessa
posizione di prima a guardare Martin che frugava tra i cassetti del suo
armadio. “Ecco.” Con la sua solita finezza, mi
lanciò una felpa e un paio di
calzoncini neri che aveva visto ai giocatori di basket a scuola.
“E’
la mia divisa
invernale, quindi trattala bene.” Mi annunciò, con
un enorme sorriso. Poi mi
fissò i capelli e mentre guardavo sconvolta quei vestiti
che, a quanto pareva,
DOVEVO indossare, Martin scappò giù per le scale.
Alzai le spalle e chiusi la
porta della camera dietro di me. Girai la chiave ed iniziai a togliermi
i
vestiti.
Improvvisamente
il mio
sguardo cadde sul famoso quaderno di matematica. Ripensai
all’espressione
arcigna della signora Brooke e stavolta rabbrividii non per il freddo e
nemmeno
per Martin.
Presi
il quaderno in
mano ed iniziai a sfogliarlo. Mi ricordavo le prime lezioni
perché quelle le
avevo studiate: sono fatta così, purtroppo. Ad inizio anno
sono sempre piena di
buoni propositi e studio tantissimo finché successivamente,
col passare del
tempo, la situazione inizia a stufarmi e tutto il lavoro
precedentemente svolto
finisce nello scarico della fogna.
Ad
ogni modo, saltai il
resto delle pagine del quaderno per finire tra le ultime dove mi
aspettavo
almeno una pagina intera di appunti. Invece, c’era solo un
misero esercizio con
dei calcoli assurdi. Ma dov’era la lezione?
Tornai
indietro di una
pagina e ciò che lessi mi provocò un tuffo al
cuore. Aveva sprecato una pagina,
intendo proprio una pagina intera, per scrivere fino alla fine il mio
fottutissimo nome. “Juliet,
Juliet,
Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet,
Juliet…”
In
classe ero,
sfortunatamente, l’unica ad avere quello stupido nome. Ma
perché Martin aveva
scelto me? A lui non dovevano piacere quelle tipo tutte perfettine e
carine
come Emily? Quella che si era messa a piangere perché aveva
vomitato sul
cappotto della professoressa e per la vergogna era scappata in
infermeria.
Chiusi
il quaderno,
sicura che doveva esserci qualche altra spiegazione anche se il recente
comportamento di Martin provava il contrario. Perché ho
avuto la felice idea di
toccare le cose che non mi appartengono?
Sospirai
e dopo aver
cercato di mettere nella stessa posizione il quaderno, aprii la porta
che avevo
chiuso a chiave per cambiarmi. Subito Martin entrò come una
saetta e mi diede
il phon con cui avrei dovuto asciugarmi i capelli.
“Uhmmm,
grazie.”
Mormorai, davvero troppo imbarazzata. E poi, i sensi di colpa mi
stavano
mangiando lo stomaco! Avevo violato la privacy del mio migliore
amico…
Quando
i miei capelli
furono finalmente asciutti e, diciamo, decenti, mi sedetti sul letto
accanto a
Martin. Ancora non mi rendevo conto di quanto pericoloso fosse stare
accanto ad
un ragazzo con gli ormoni sballati. Infatti, lo vidi arrossire ma
cercai di non
farci caso e provai a chiedergli di fare i compiti di matematica
insieme
perché, nonostante tutto, l’espressione della
Brooke continuava a perseguitarmi.
“Guarda,
è inutile
studiare adesso. Tanto ancora domani la Brooke deve continuare a
spiegare!” fu
la risposta di Martin e, aggiungerei, molto strana.
Provai
a replicare anche
se ormai sapevo il perché non volesse darmi il quaderno.
“Almeno fammi copiare
la lezione!” e cercai di impadronirmi del quaderno che,
Martin aveva afferrato
con la mano sinistra senza perdere l’equilibrio.
“Non mi va di studiare,
Jiuls.. Perché non vediamo qualche film?”
Sbuffai.
Anche se avessi
ottenuto quel quaderno, non avrei concluso niente. Primo
perché Martin ci
sarebbe rimasto malissimo e, probabilmente, non avrebbe avuto
più modo di
giustificare quelle scritte. E, per ultimo, non avevo intenzione di
rovinare la
nostra amicizia. “E va bene Mart, allora che si fa?”
Martin
prese la sua
chitarra acustica e si mise seduto ai piedi del letto. “Non
ho portato la mia chitarra,
purtroppo.” Borbottai.
“Beh,
ti sto solo
facendo ascoltare il pezzo che avevo intenzione di suonare con
te..”
Annuii
velocemente e mi
sedetti accanto a lui. Il manico della chitarra mi sfiorava leggermente
il
braccio e mi sentivo da dio a stare accanto a lui. Sapevo che un
giorno, prima
o poi, ci saremmo sposati. Magari quando avessi messo un po’
di sale in zucca…
Martin
aveva iniziato a
suonare una splendida canzone, anche se ancora non aveva composto il
testo
perché l’addetta a fare quel lavoro ero io, anche
se alla fine revisionavamo il
tutto insieme. “Sai, oggi in sala mensa è venuto a
presentarsi un tizio..”
Anche
se Martin non mi
guardava né rispondeva, sapevo che mi stava ascoltando e
voleva sapere altro.
“Era un ammiratore segreto di Alaska. Tu sapevi qualcosa
circa una festa a
Willsbourgh?”
A
questo punto, il mio
migliore amico smise di suonare e mi guardò annuendo.
Allora, anche lui ne era
a conoscenza, quindi questo mi faceva capire che l’unica
scema ero io, o
meglio, l’unica che continuava ad ignorare il resto del
mondo. “Capisco, e
questo Lucas l’ha invitata perché mi hanno detto
che devi andarci con una
ragazza o un ragazzo. Insomma, in coppia…”
Martin
continuava ad
annuire e non diceva una sola parola. Si passò una mano tra
i capelli e poggiò
la chitarra sul letto. Si era lentamente avvicinato a me, lo sentivo
perché i
suoi jeans toccavano la pelle nuda delle mie gambe che erano avvolte
solo dai
pantaloncini. Aveva anche avvicinato il viso a quello mio. Da parte
mia, non
feci nulla né provai a ricambiare i suoi movimenti.
“Juliet…”
la sua voce
era calda e sensuale. Stava per continuare il discorso quando il suo
cazzo di
cellulare squillò e rovinò quel momento in cui,
probabilmente, avrei perso la
ragione e mi sarei affidata completamente all’istinto.
Ascoltai
le parole di
Martin pronunciare quel nome. Ero completamente disgustata ed
infuriata. Emily.
“No,
in questo momento
sono a casa mia con Juliet.. Dovevamo studiare matematica!”
sentii dire da
Martin. Mentre parlava si muoveva per tutta la stanza ed, ogni tanto,
mi
lanciava degli sguardi. Sguardi che io contraccambiavo dato che lo
seguivo con
lo sguardo per tutto il tempo. “Devi parlarmi?” La
voce di Martin era
stranamente stridula e il suo volto si dipinse di un espressione
accigliata.
Chiuse
la telefonata
dopo qualche minuto. “Voleva vedermi perché dice
che ha qualcosa di importante
da dirmi.”
Alzai
le spalle e con il
sorrisetto più antipatico che potevo fare, risposi:
“Te l’ho detto mille volte,
Emily è la ragazza giusta che fa per te.”
Martin
grugnì. “Come
devo dirtelo? A me non piace quella smorfiosa… Per di
più fa gli occhi dolci a
tutti i ragazzi della nostra classe, quindi non credo che io abbia
qualcosa in
particolare che la possa interessare.”
“E’
probabile.” Borbottai.
Mi alzai dal letto e dissi a Martin che dovevo tornare a casa, anche se
in
realtà sentivo il bisogno di parlare con qualcuno. Potevo
andare da Alaska ma
mi sembrava inopportuno piombarle a casa senza preavviso o, comunque,
con l’avviso
di un quarto d’ora. Avevo, infatti, la possibilità
di raggiungere i miei amici
con qualsiasi mezzo perché abitavamo piuttosto vicini.
“Ti
accompagno io.” Disse
Martin. “Non ti lascio andare in bici. Ancora piove e per di
più se ti esponi
troppo al freddo e alla pioggia potresti beccarti un bel raffreddore o,
peggio,
una bella influenza.”
Come
al solito le
risposte di Martin erano talmente esaurienti che non mi sentii in grado
di
poter replicare, quindi accettai il suo invito e lo seguii fino alla
sua
macchina. Ogni volta che salivo sull’automobile, un odore di
menta mi invadeva
le narici. Amavo quel profumo.
Mi
accompagnò a casa e
con un semplice “Ciao” ed un bacio sulla guancia,
lo liquidai. Corsi fino all’ingresso
ed entrai come una saetta tanto che mio padre non mi aveva notata. Si
spaventò,
anzi, quando mi sentì parlare al telefono con Alaska.
Avevo
deciso di
avvisarla per andare a casa sua e raccontarle tutto
l’accaduto. Alla fine della
telefonata, dissi a mio padre che avrei mangiato a casa della mia
migliore
amica poiché i suoi genitori non erano in casa e, quindi,
aveva accolto la mia
richiesta con grande entusiasmo. “Però prendo la
macchina…” dissi al mio
vecchio.
Lui
annuì lentamente ma
mi fece mille raccomandazioni sul fatto che non avevo ancora guidato
con la
pioggia. Per quanto mi riguardava, non ero per niente spaventata, anzi.
Mi
avrebbe spaventata di più un appuntamento con Martin.
Inizialmente
ebbi un po’
di difficoltà nel guidare con l’acqua che batteva
sui vetri in maniera violenta
ma, poi, accesi l’autoradio e si creò la solita
atmosfera familiare. Appena
posteggiai la macchina di fronte casa di Alaska, la vidi che mi veniva
incontro
con un ombrello leopardato. Al solito, Alaska possiede le cose
più strambe del
mondo.
“Allora,
mi spieghi cosa
cavolo è successo?” mi chiese, quando entrammo in
casa sua. Non mi aveva
nemmeno salutata che già mi chiedeva subito il motivo della
mia visita. Si
vedeva così tanto che avevo bisogno di un consulente per i
miei dubbi?
“Sono
stata a casa di
Martin…”
“Avete
fatto sesso?”
urlò Alaska, anche se avevo riconosciuto il suo tono
scherzoso.
“No.
Che ti salta in
mente?”
Alaska
scoppiò a ridere
e mi fece sedere sulla poltrona azzurra del suo salotto o, meglio, dei
suoi
genitori. Ogni volta che entravo a casa di qualcuno, mi mettevo a
fissare i
mobili e mi distraevo completamente. Per di più, adoravo la
casa di Alaska,
soprattutto la poltrona azzurra su cui ero seduta ed il tavolino di
vetro sul
quale avevo poggiato i piedi. Se ci fossero stati i suoi genitori, non
avrei
potuto essere così esplicita. Alaska mi permetteva di fare
tutto, anche perché lei
stessa era così come me.
“Allora
cosa è successo?”
“Ti
giuro che te ne
parlerò però adesso sto morendo di
fame.”
La
mia amica scoppiò a
ridere e mi fece cenno di seguirla. Entrai nella sala da pranzo. Anche
quella
stanza era molto accogliente grazie alle mura gialle che rallegravano
l’atmosfera
ed i mobili di legno scuro che mi infondevano una grande sensazione di
calore.
Alaska mi fece sedere a capo tavola. Già era tutto
apparecchiato e potevo
vedere dei vassoi pieni di carne e roba varia. La mia amica mi
riempì il piatto
di roba e dopo aver spazzolato via il riso al curry, iniziai a
raccontare l’avventura
di oggi pomeriggio.
Il
mio discorso fu
davvero lunghissimo, tant’è che ricordo di aver
parlato anche dopo cena e
davanti alla televisione.
“Beh,
secondo me
dovresti chiederglielo tu, a sto punto.” proclamò
improvvisamente Alaska.
Iniziai
a tormentarmi il
colletto della camicia a scacchi che indossavo. “Non
è facile come sembra.”
“Non
lo è per Lawrence”
Lawrence? Ah già, Alaska aveva l’abitudine di
chiamarlo col cognome invece che
col nome.
“Allora
cosa credi che
io debba fare?” borbottai, sentendomi improvvisamente una
delle tante ragazze
sciocche che perdono la testa per un ragazzo.
“Il
mio consiglio è
questo, semplice.” Disse Alaska, sorridendomi.
“Buttati e chiedigli tu di
andare a quella fottuta festa.”