Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Wakachan    11/10/2012    0 recensioni
Come si inizia a raccontare una storia?
A scuola mi hanno insegnato che bisogna partire dal principio di tutto. Il fatto è che non so quando tutto sia iniziato. Penso che avere sedici anni e dire di voler raccontare la storia della mia vita vi abbia fatto scoppiare dal ridere. Beh, diciamo che non si tratta proprio della storia della mia vita. Si tratta di un pezzo della mia vita che, forse, non dimenticherò mai. Anzi, togliete quello stupido forse.
Genere: Commedia, Demenziale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Bene,  eccomi qui con un nuovo capitolo!

Innanzitutto, volevo ringraziare chi ha letto la fic, anche per quei pochi che l’hanno letta. So che non deve essere divertente recensire ma, vi prego, fatemi davvero sapere cosa pensate! Per uno scrittore è molto importante sapere se la sua storia viene apprezzata.

Comunque, questo capitolo non mi convince molto ma spero che lo leggerete lo stesso!

Alla prossima.

Expectations

 

“Juliet, vuoi che ti accompagno fino a casa di Martin?” mi domandò mio padre. Il suo volto sorridente mi faceva sempre sentire in pace con me stessa e mi ricordava quanto lui fosse importante per me. In quel periodo aveva preso l’abitudine di indossare quella sciarpa verde che mia madre Anne gli aveva regalato tempo fa. Ovviamente, prima della sua morte.

Stava molto bene il verde a mio padre perché risaltava lo stesso colore dei suoi occhi. Non ero figlia unica ma la mia sorellastra stava certamente facendo i compiti in camera sua, ecco spiegato il motivo per cui non stava occupando la tv a mio padre.

“No grazie papà, vado in bici.” Fu la mia risposta.

“Ma sta piovendo!” replicò lui, preoccupato di ciò che stavo per  fare.

Gli sorrisi e per non farlo preoccupare ulteriormente, sollevai il cappuccio della mia felpa e lo posizionai sulla mia testa. “Così non mi bagno.”

Papà sbuffò ma era visibilmente rassegnato a lasciarmi andare.

Sorrisi appena mi trovai fuori e corsi a prendere la bici. L’avevo voluta rossa, come una Ferrari.

La pioggia iniziava a scendere sempre più corposa e veloce e quando raggiunsi la casa di Martin ero già praticamente fradicia. Col cavolo che quel cappuccio mi aveva riparato dall’acqua. Già vedevo la faccia di papà, al mio ritorno. Non mi avrebbe più fatto uscire in bici con la pioggia… E, forse, aveva ragione. Ad ogni modo, salii le scale che portavano alla porta dei Lawrence. Suonai.

Solitamente ci stavano un po’ prima di venire ad aprire la porta in noce e, quindi, avevo la possibilità di ammirare il loro splendido giardino. Certo, con la pioggia era tutto diverso ma anche senza sole, si riuscivano a vedere i colori vivaci dei cespugli di rose rosse che il signor Lawrence aveva coltivato con tanto amore. Il mio giardino non era paragonabile a quello di Martin, già solo per la brillantezza del prato.

Per il resto, abitando nella stessa via, era logico che il costruttore di quelle casette a schiera avesse deciso di farle tutte uguali, ovvero stesso colore del muro esterno, stesso materiale, stessa divisione delle camere. Improvvisamente la porta d’ingresso fu aperta e mi sentii profondamente in imbarazzo, quando la signora Lawrence sgranò gli occhi alla vista dei miei vestiti e dei miei capelli.

“Juliet, come sei arrivata fin qui?” domandò lei, correndo in cucina e tornando con una coperta di lana che mi buttò sulle spalle.

Oh, dimenticavo. La signora Lawrence è tremendamente gentile e generosa. Tratta tutti gli amici di Martin come se fossero suoi figli. Anche io per una volta appartenevo ad un gruppo e, insieme a Martin ed alla mia famiglia, lei era l’unica a non farmi sentire diversa. Che poi, cos’avevo di diverso dagli altri? “Sei venuta per studiare con Mart, giusto?”

Annuii mentre i denti iniziavano a battere per il freddo che m’irradiava il corpo. Mi voltai per non farlo notare alla mamma di Martin e, dopo averla ringraziata, salii correndo le scale che portavano alla sua camera. Non bussai nemmeno. La mia mente depravata si aspettava di trovare Martin intento a guardare qualche video porno su uno di quei siti da quattro soldi. E invece no!

Martin era nella sua solita posizione: la schiena poggiata sulla testiera del letto e le gambe che facevano da poggia libro. Mi osservò anche lui con la stessa espressione di sua madre. “Non sei venuta in auto? Credevo che tuo padre ti avesse accompagnata.”

Mi appoggiai allo stipite della porta. “Ho rifiutato perché volevo venire in bici.”

Il mio migliore amico sbuffò e mi venne incontro. Mi tolse quella coperta dalle spalle che continuavo a tenere stretta e mi abbracciò. Il contatto con il suo corpo caldo mi provocò una serie di emozioni indescrivibili e tanti, ma tanti, brividi che mi percorrevano la schiena come piccole scosse di elettricità. “Aspetta, mi è venuta un’idea…”

Rimasi nella stessa posizione di prima a guardare Martin che frugava tra i cassetti del suo armadio. “Ecco.” Con la sua solita finezza, mi lanciò una felpa e un paio di calzoncini neri che aveva visto ai giocatori di basket a scuola.

“E’ la mia divisa invernale, quindi trattala bene.” Mi annunciò, con un enorme sorriso. Poi mi fissò i capelli e mentre guardavo sconvolta quei vestiti che, a quanto pareva, DOVEVO indossare, Martin scappò giù per le scale. Alzai le spalle e chiusi la porta della camera dietro di me. Girai la chiave ed iniziai a togliermi i vestiti.

Improvvisamente il mio sguardo cadde sul famoso quaderno di matematica. Ripensai all’espressione arcigna della signora Brooke e stavolta rabbrividii non per il freddo e nemmeno per Martin.

Presi il quaderno in mano ed iniziai a sfogliarlo. Mi ricordavo le prime lezioni perché quelle le avevo studiate: sono fatta così, purtroppo. Ad inizio anno sono sempre piena di buoni propositi e studio tantissimo finché successivamente, col passare del tempo, la situazione inizia a stufarmi e tutto il lavoro precedentemente svolto finisce nello scarico della fogna.

Ad ogni modo, saltai il resto delle pagine del quaderno per finire tra le ultime dove mi aspettavo almeno una pagina intera di appunti. Invece, c’era solo un misero esercizio con dei calcoli assurdi. Ma dov’era la lezione?

Tornai indietro di una pagina e ciò che lessi mi provocò un tuffo al cuore. Aveva sprecato una pagina, intendo proprio una pagina intera, per scrivere fino alla fine il mio fottutissimo nome. Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet, Juliet…”

In classe ero, sfortunatamente, l’unica ad avere quello stupido nome. Ma perché Martin aveva scelto me? A lui non dovevano piacere quelle tipo tutte perfettine e carine come Emily? Quella che si era messa a piangere perché aveva vomitato sul cappotto della professoressa e per la vergogna era scappata in infermeria.

Chiusi il quaderno, sicura che doveva esserci qualche altra spiegazione anche se il recente comportamento di Martin provava il contrario. Perché ho avuto la felice idea di toccare le cose che non mi appartengono?

Sospirai e dopo aver cercato di mettere nella stessa posizione il quaderno, aprii la porta che avevo chiuso a chiave per cambiarmi. Subito Martin entrò come una saetta e mi diede il phon con cui avrei dovuto asciugarmi i capelli.

“Uhmmm, grazie.” Mormorai, davvero troppo imbarazzata. E poi, i sensi di colpa mi stavano mangiando lo stomaco! Avevo violato la privacy del mio migliore amico…

Quando i miei capelli furono finalmente asciutti e, diciamo, decenti, mi sedetti sul letto accanto a Martin. Ancora non mi rendevo conto di quanto pericoloso fosse stare accanto ad un ragazzo con gli ormoni sballati. Infatti, lo vidi arrossire ma cercai di non farci caso e provai a chiedergli di fare i compiti di matematica insieme perché, nonostante tutto, l’espressione della Brooke continuava a perseguitarmi.

“Guarda, è inutile studiare adesso. Tanto ancora domani la Brooke deve continuare a spiegare!” fu la risposta di Martin e, aggiungerei, molto strana.

Provai a replicare anche se ormai sapevo il perché non volesse darmi il quaderno. “Almeno fammi copiare la lezione!” e cercai di impadronirmi del quaderno che, Martin aveva afferrato con la mano sinistra senza perdere l’equilibrio. “Non mi va di studiare, Jiuls.. Perché non vediamo qualche film?”

Sbuffai. Anche se avessi ottenuto quel quaderno, non avrei concluso niente. Primo perché Martin ci sarebbe rimasto malissimo e, probabilmente, non avrebbe avuto più modo di giustificare quelle scritte. E, per ultimo, non avevo intenzione di rovinare la nostra amicizia. “E va bene Mart, allora che si fa?”

Martin prese la sua chitarra acustica e si mise seduto ai piedi del letto. “Non ho portato la mia chitarra, purtroppo.” Borbottai.

“Beh, ti sto solo facendo ascoltare il pezzo che avevo intenzione di suonare con te..”

Annuii velocemente e mi sedetti accanto a lui. Il manico della chitarra mi sfiorava leggermente il braccio e mi sentivo da dio a stare accanto a lui. Sapevo che un giorno, prima o poi, ci saremmo sposati. Magari quando avessi messo un po’ di sale in zucca…

Martin aveva iniziato a suonare una splendida canzone, anche se ancora non aveva composto il testo perché l’addetta a fare quel lavoro ero io, anche se alla fine revisionavamo il tutto insieme. “Sai, oggi in sala mensa è venuto a presentarsi un tizio..”

Anche se Martin non mi guardava né rispondeva, sapevo che mi stava ascoltando e voleva sapere altro. “Era un ammiratore segreto di Alaska. Tu sapevi qualcosa circa una festa a Willsbourgh?”

A questo punto, il mio migliore amico smise di suonare e mi guardò annuendo. Allora, anche lui ne era a conoscenza, quindi questo mi faceva capire che l’unica scema ero io, o meglio, l’unica che continuava ad ignorare il resto del mondo. “Capisco, e questo Lucas l’ha invitata perché mi hanno detto che devi andarci con una ragazza o un ragazzo. Insomma, in coppia…”

Martin continuava ad annuire e non diceva una sola parola. Si passò una mano tra i capelli e poggiò la chitarra sul letto. Si era lentamente avvicinato a me, lo sentivo perché i suoi jeans toccavano la pelle nuda delle mie gambe che erano avvolte solo dai pantaloncini. Aveva anche avvicinato il viso a quello mio. Da parte mia, non feci nulla né provai a ricambiare i suoi movimenti.

“Juliet…” la sua voce era calda e sensuale. Stava per continuare il discorso quando il suo cazzo di cellulare squillò e rovinò quel momento in cui, probabilmente, avrei perso la ragione e mi sarei affidata completamente all’istinto.

Ascoltai le parole di Martin pronunciare quel nome. Ero completamente disgustata ed infuriata. Emily.

“No, in questo momento sono a casa mia con Juliet.. Dovevamo studiare matematica!” sentii dire da Martin. Mentre parlava si muoveva per tutta la stanza ed, ogni tanto, mi lanciava degli sguardi. Sguardi che io contraccambiavo dato che lo seguivo con lo sguardo per tutto il tempo. “Devi parlarmi?” La voce di Martin era stranamente stridula e il suo volto si dipinse di un espressione accigliata.

Chiuse la telefonata dopo qualche minuto. “Voleva vedermi perché dice che ha qualcosa di importante da dirmi.”

Alzai le spalle e con il sorrisetto più antipatico che potevo fare, risposi: “Te l’ho detto mille volte, Emily è la ragazza giusta che fa per te.”

Martin grugnì. “Come devo dirtelo? A me non piace quella smorfiosa… Per di più fa gli occhi dolci a tutti i ragazzi della nostra classe, quindi non credo che io abbia qualcosa in particolare che la possa interessare.”

“E’ probabile.” Borbottai. Mi alzai dal letto e dissi a Martin che dovevo tornare a casa, anche se in realtà sentivo il bisogno di parlare con qualcuno. Potevo andare da Alaska ma mi sembrava inopportuno piombarle a casa senza preavviso o, comunque, con l’avviso di un quarto d’ora. Avevo, infatti, la possibilità di raggiungere i miei amici con qualsiasi mezzo perché abitavamo piuttosto vicini.

“Ti accompagno io.” Disse Martin. “Non ti lascio andare in bici. Ancora piove e per di più se ti esponi troppo al freddo e alla pioggia potresti beccarti un bel raffreddore o, peggio, una bella influenza.”

Come al solito le risposte di Martin erano talmente esaurienti che non mi sentii in grado di poter replicare, quindi accettai il suo invito e lo seguii fino alla sua macchina. Ogni volta che salivo sull’automobile, un odore di menta mi invadeva le narici. Amavo quel profumo.

Mi accompagnò a casa e con un semplice “Ciao” ed un bacio sulla guancia, lo liquidai. Corsi fino all’ingresso ed entrai come una saetta tanto che mio padre non mi aveva notata. Si spaventò, anzi, quando mi sentì parlare al telefono con Alaska.

Avevo deciso di avvisarla per andare a casa sua e raccontarle tutto l’accaduto. Alla fine della telefonata, dissi a mio padre che avrei mangiato a casa della mia migliore amica poiché i suoi genitori non erano in casa e, quindi, aveva accolto la mia richiesta con grande entusiasmo. “Però prendo la macchina…” dissi al mio vecchio.

Lui annuì lentamente ma mi fece mille raccomandazioni sul fatto che non avevo ancora guidato con la pioggia. Per quanto mi riguardava, non ero per niente spaventata, anzi. Mi avrebbe spaventata di più un appuntamento con Martin.

Inizialmente ebbi un po’ di difficoltà nel guidare con l’acqua che batteva sui vetri in maniera violenta ma, poi, accesi l’autoradio e si creò la solita atmosfera familiare. Appena posteggiai la macchina di fronte casa di Alaska, la vidi che mi veniva incontro con un ombrello leopardato. Al solito, Alaska possiede le cose più strambe del mondo.

“Allora, mi spieghi cosa cavolo è successo?” mi chiese, quando entrammo in casa sua. Non mi aveva nemmeno salutata che già mi chiedeva subito il motivo della mia visita. Si vedeva così tanto che avevo bisogno di un consulente per i miei dubbi?

“Sono stata a casa di Martin…”

“Avete fatto sesso?” urlò Alaska, anche se avevo riconosciuto il suo tono scherzoso.

“No. Che ti salta in mente?”

Alaska scoppiò a ridere e mi fece sedere sulla poltrona azzurra del suo salotto o, meglio, dei suoi genitori. Ogni volta che entravo a casa di qualcuno, mi mettevo a fissare i mobili e mi distraevo completamente. Per di più, adoravo la casa di Alaska, soprattutto la poltrona azzurra su cui ero seduta ed il tavolino di vetro sul quale avevo poggiato i piedi. Se ci fossero stati i suoi genitori, non avrei potuto essere così esplicita. Alaska mi permetteva di fare tutto, anche perché lei stessa era così come me.

“Allora cosa è successo?”

“Ti giuro che te ne parlerò però adesso sto morendo di fame.”

La mia amica scoppiò a ridere e mi fece cenno di seguirla. Entrai nella sala da pranzo. Anche quella stanza era molto accogliente grazie alle mura gialle che rallegravano l’atmosfera ed i mobili di legno scuro che mi infondevano una grande sensazione di calore. Alaska mi fece sedere a capo tavola. Già era tutto apparecchiato e potevo vedere dei vassoi pieni di carne e roba varia. La mia amica mi riempì il piatto di roba e dopo aver spazzolato via il riso al curry, iniziai a raccontare l’avventura di oggi pomeriggio.

Il mio discorso fu davvero lunghissimo, tant’è che ricordo di aver parlato anche dopo cena e davanti alla televisione.

“Beh, secondo me dovresti chiederglielo tu, a sto punto.” proclamò improvvisamente Alaska.

Iniziai a tormentarmi il colletto della camicia a scacchi che indossavo. “Non è facile come sembra.”

“Non lo è per Lawrence” Lawrence? Ah già, Alaska aveva l’abitudine di chiamarlo col cognome invece che col nome.

“Allora cosa credi che io debba fare?” borbottai, sentendomi improvvisamente una delle tante ragazze sciocche che perdono la testa per un ragazzo.

“Il mio consiglio è questo, semplice.” Disse Alaska, sorridendomi. “Buttati e chiedigli tu di andare a quella fottuta festa.”

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Wakachan