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Autore: CoCoRouge    09/10/2012    0 recensioni
Scesero dal taxi con fare elegante, non badando agli scatti dei fotografi che le avevano circondate.
“Rose, ma viene anche tua sorella stasera?” Chiese Carol preoccupata.
“Non credo proprio…! Non è il suo genere, questo!”
Erano bellissime, e Samantha – presente all’apertura del locale – quando le vide incedere verso l’entrata fece una piccola lacrimuccia di commozione.
“Ragazze… siete bellissime… sembrate noi quattro quando eravamo più giovani!” Esclamò, salutandole con un grande abbraccio.
--tutto quello che potrebbe succedere DOPO carrie bradshaw... uomini compresi--
Genere: Comico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Movieverse | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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 Lunedì 13 Agosto
 
You’re simply the Best
 
“Rose? Ti disturbo?” Chiese Charlotte, entrando piano nella camera della figlia.
Quella mugugnò qualcosa di imprecisato e girò il fianco.
“Sai, l’idea di zia Carrie mi sembra ottima. Voi due sarete il tema della mia festa. Sei contenta?”
La ragazza sbuffò, emerse dalle lenzuola bianche e guardò la madre: “E non sono troppo scontata?”
Charlotte abbracciò la figlia: “Ma no, sciocca! Sono stata troppo scorbutica l’altra sera. Perdonami. Siete i miei tesori più grandi, come potreste essere scontate?”
“D’accordo…” rispose la figlia, con occhio torvo.
“Ora vai di la, parla con tua sorella e decidete di che colore indossare l’abito della festa.”
“Hai già deciso dove farla?”
“Sì, abbiamo pensato agli Hamptons. C’è una villa magnifica che si presterebbe bene al progetto che avevo in mente. Se ti alzi e fai colazione ve ne parlo!” Propose Charlotte, sorridendole.
La ragazza si alzò, sistemò alla meno peggio i capelli e s’infilò un paio di shorts e una maglietta bianca. Sciacquò velocemente il viso e corse in cucina, rubando una fetta di ananas alla sorella: “Sempre in dieta, muso giallo?”
Lily s’indispettì e le diede una pacca sulla spalla: “Finiscila, peste! È l’unica cosa che ingurgiterò oggi! Fammi mangiare, ti prego!”
Rose le lasciò la fetta appena rubata e si sedettero entrambe al tavolo, pronte ad ascoltare la madre.
Prima che la donna potesse parlare, Lily intervenne: “Spero non sia all’aperto! Sai che scocciatura le zanzare…!”
Charlotte si smontò in un secondo: “Ma cara, è estate, dobbiamo farla all’aperto!”
“Sì, come fa tutta New York! Se dev’essere qualcosa di innovativo, facciamola al chiuso.”
“Lily, tappati quella bocca e fai parlare la mamma.” Disse Rose, categorica.
La donna si sistemò i capelli e iniziò: “La festa si terrà negli Hamptons, nella villa di una signora cui papà a seguito l’ultima causa di divorzio. È una casa molto grande, e il giardino ha due zone: una più alta, verso il soggiorno, dove io pensavo di sistemare i drink e il buffet, insieme ad una piccola e modesta orchestrina d’archi, il tutto decorato da divanetti e cuscini sul prato; e poi una seconda zona, dall’altra parte del giardino, in un prato che scende verso il mare, dove ci sono già due piscine – una a fagiolo e una più piccola, rotonda – che io pensavo di tenere per voi ragazzi, così potete divertirvi senza preoccuparvi di fare danni!”
“Oh, ma che bell’idea, mamma!” Esclamò Lily.
Rose roteò gli occhi e chiese: “Chi pensavi di invitare?”
“Beh, voi chiamate chi volete, tutti i vostri amici!”
“Ok ok, d’accordo…” tagliò corto Rose.
“C’è qualcosa che non va, Rose?”
“Assolutamente! Lily, la mamma vuole sapere di che colore avremo i nostri vestiti, così può partire a cercare le decorazioni.” Disse la ragazza, giocherellando con la tazza di latte.
“Beh, non saprei…! Forse bianco?”
“Mmh, è scontato, direi,” spiegò Rose lanciando un’occhiataccia alla madre; “e se fosse rosso?”
Lily s’illuminò: “Sì, certo! Va benissimo! E per la lunghezza?”
“Non so, dimmi tu…!”
“Beh, io farei un bell’abito che fa vedere le gambe, che ne dici?”
“Ok, d’accordo. Visto mamma? Detto, fatto!” Sorrise Rose, alzandosi da tavola.
“Oh, bene, così oggi posso andare a cercare tutto con Carrie. Grazie ragazze…!”
“Figurati!”
Rose sgattaiolò in camera, mentre Lily si perse a guardare oltre le vetrate del salotto. C’era qualcosa che non riusciva a prendere. Non ancora.
 
 
“Dovrei parlarti di una cosa, Carrie.”
“Dimmi. Solo fai in fretta perché tra mezz’ora devo essere da Charlotte. Sai com’è, i preparativi della festa!”
Big ciondolò il capo e si appoggiò al bracciolo della poltrona: “Sì, d’accordo. Sono solo un po’ preoccupato per Jr.”
“Perché?”
“Non lo so, lo vedo strano. Mi pare… diverso.”
“Diverso da chi?”
“Da quello che dovrebbe essere: un ragazzo assennato e responsabile.”
“Jr è responsabile.”
“È ancora un ragazzino e sta giocando con il fuoco.”
“Ma che diavolo stai farneticando? Che fuoco?! Di che parli?”
“Capiscimi.”
Carrie appoggiò la borsa sul divano del salotto e si mise una mano sul fianco, squadrando il marito e ciondolando la testa.
Big abbassò gli occhi segnati dal tempo e si sistemò sulla poltrona, incrociando le dita.
“Non ci posso credere…” cominciò la donna, furente, “…avanzi ancora dubbi. Ancora dubbi! Dubbi su tutto, su di me, su di noi, su tuo figlio! Te ne rendi conto, almeno?”
“Non mi mettere in bocca cose che non ho detto.”
“Le stai dicendo con gli occhi, Big. Ti conosco fin troppo bene.”
Carrie non lo lasciò ribattere: andò da lui e gli mise una mano sulla spalla.
Soffiò, stanca.
“Ti ricordi quei bei racconti assurdi che ci faceva leggere fino a qualche tempo fa?” Gli chiese.
Lui annuì.
“Era un ragazzino, erano baggianate partorite da una testa in subbuglio. Ma ti ricordi come ti facevano sentire?”
Big guardò sua moglie: “Fiero.”
“E devi continuare ad esserlo. Io sono fiera di Jr. Ogni giorno di più. E mi sono accorta anch’io che pian piano sta scoprendo se stesso, ma noi dobbiamo essere qui per lui, non per noi. Non più.”
L’uomo le baciò la mano, gli occhi lucidi.
La donna lo accarezzò sulla guancia e, presa la borsa, s’incamminò verso la porta di casa.
Big, seduto sul suo divano, pensò che, nonostante tutto, avrebbe fatto fatica a lasciare tutto in mano ad un figlio così.
Nonostante tutto, sarebbe stato difficile guardarlo ancora in faccia.
 
 
‘Quando accadrà, no non lo so, ma del tuo mondo parte farò, guarda e vedrai che il sogno mio si avvererà!’
È così che cantava quella rimbecillita di Ariel, la famosa sirenetta della Disney.
Rebecca in comune con la pesciolina aveva solo il colore dei capelli, e il desiderio di far parte di un mondo più alto del suo, oltre il cielo d’acqua.
Ma Rebecca, a differenza di Ariel, sapeva che non sarebbe mai accaduto, o perlomeno non ci sarebbe sicuramente riuscita canterellando una ninna nanna o dando una bacio stampo al primo principe rincoglionito del reame.
Sì perché Milo sarà stato anche il ragazzo più bello dell’East Coast, ma di certo lei non ne era la ragazza più stupida.
Decise di scherzare con il fuoco, e vedere fin dove si spingeva la faccia tosta del bel biondo, che davanti al resto del mondo fingeva di conoscerla appena.
Si diresse al palazzo degli uffici Bronson&Co., ed entrò con passo deciso. Aveva marinato la scuola, ma lo zaino era ben nascosto nel sottoscala di una casa lì a fianco. Si era preparata di tutto punto nel bagno del pub all’angolo: tailleur grigio con gonna al ginocchio a vita alta, camicia di lino bianca, capelli raccolti e occhiali finti da segretaria. Al braccio, una Prada in pelle spazzolata rubata alla madre Miranda, color verde bottiglia.
Sapeva che era solo un capriccio, che la loro non era una storia: non stava cercando niente da lui, né voleva che lui facesse chissà che per lei.
Voleva solo giocare un po’: è così facile scherzare con chi crede di avere sempre il culo parato in ogni situazione…!
Arrivò alla reception, e chiese di farsi ricevere dal Presidente, Allegra Bronson.
La portarono in una saletta d’attesa e si sedette tranquilla.
Accavallò le gambe e cominciò a sfogliare una delle riviste presenti sul tavolino. Non leggeva nulla, usava quel tempo a disposizione per concentrarsi, darsi un tono, scegliere un argomento di cui parlare e una personalità coerente da sfoggiare.
“Prego, si accomodi.” Le disse la segretaria, facendole strada lungo un corridoio, alla fine del quale v’era l’ufficio del Presidente, Allegra, e del vice Presidente, Milo.
L’ufficio di Allegra era molto grande, luminoso ma dai colori sobri. Molto chic.
“Lei è…?” Chiese la donna, guardando la ragazza con occhio stupito.
“Buongiorno, sono Ryan Huggs; lei dev’essere Allegra Bronson?!”
“Precisamente. Cosa la porta qui?”
La ragazza si sedette alla scrivania di Allegra: “È una richiesta stupida, per la quale dovrei consultare un suo dipendente addetto alla scelta del personale, lo so, ma io preferisco un approccio diretto, senza intermediari.”
Allegra incrociò le braccia e si mise comoda sullo schienale.
“Sto cercando lavoro come segretaria, intanto. Poi, si vedrà. Scartoffie, fax, battiti di ciglia, messaggi in codice, tutto quello che serve per far funzionare le cose… ecco, io sono in grado di farlo.”
Allegra si tolse gli occhiali da vista e li ripiegò pian piano, fissandosi le dita.
“Non ho mai lavorato in un’azienda così grande, perciò sono abituata a dire le cose in faccia senza tante moine o scappatoie. Non sono esperta in questo settore, ma sono in gamba.”
La donna sorrise e appoggiò gli occhiali sulla tavoletta di pelle marrone riposta sul tavolo.
Rebecca cominciò a sudare freddo, mantenendo però la calma.
Attese.
Allegra alzò gli occhi e la guardò: “Guardi, signorina, ho solo una domanda da farle: lei conosce per caso il Signor Bronson, Milo Bronson, mio fratello e vice Presidente dell’azienda?”
‘Oddio… dove vuole arrivare?’ Pensò Rebecca, indecisa sul da farsi.
Sulla sua faccia si stampò un’espressione tanto sorpresa, che Allegra pensò di averle fatto una domanda stupida: “Al vedere la sua espressione, non l’ha mai sentito nominare… ebbene, questo mi riempie di gioia.”
Rebecca sospirò.
“Vede, se fosse venuta qui solo per diventare l’ennesima segretaria da letto di mio fratello, non la farei entrare qui nemmeno a Natale, per gli Auguri. Ma vedo che sembra in gamba, seria – per quanto poco serio sia il suo taglio di capelli – perciò non risulta un problema per me. Purtroppo però al momento non stiamo cercando personale, quindi declino la sua offerta e la saluto, cordialmente.” Disse Allegra, dandole la mano.
Rebecca sorrise, ma non le diede la mano: “Guardi che io non ho aperto bocca. Ha fatto tutto lei, da sola, con le sue congetture. E voglio essere sincera con lei: sì, conosco Milo Bronson, so di che fama gode, e francamente la capisco quando esprime il suo terrore nei confronti delle ‘segretarie da letto’,…”
“Io non ho il terrore per…!”
“…ma vede, anch’io vivo a New York City, e vedo quando Milo frequenta locali di liceali figli di papà. E capisco perché è lei ad essere Presidente, e non lui. Ed è per questo che sono venuta da lei a parlare, e non ad un suo sottufficiale.”
“Signorina,…”
“Ma dato che di sottufficiali ne avete abbastanza, la ringrazio per la disponibilità e la saluto.” Concluse Rebecca, dandole la mano.
Allegra gliela strinse e la guardò mentre usciva dall’ufficio. In quel momento arrivò Milo, trafelato e di corsa.
Rebecca lo salutò con una formale stretta di mano, tanto che lui ebbe un piccolo sobbalzo nel vederla lì, ma non capì subito cosa stesse accadendo.
Allegra uscì dall’ufficio e fermò Rebecca: “Signorina Huggs, dove sta andando?”
Rebecca si girò: “Ho salutato il Signor Bronson, posso pure andarmene ora. Buona giornata.”, disse, sparendo in corridoio.
Milo era a bocca aperta: “Ma… lei… che cosa… ti ha detto qualcosa?” Chiese, spaventato.
“Rilassati, voleva solo un lavoro!”
“E tu che le hai detto?”
“Che abbiamo già abbastanza dipendenti.”
“Ah, ecco…!”
“Perché tanta ostilità? Non la vorresti nel tuo album di vittime sacrificali? È carina…”
“Allegra, finiscila! Non vedi che è una bambina?”
“No, io ho visto una giovane donna, in gamba anche!”
Milo era esterrefatto. Era arrivata fin lì. Quella rossa poteva arrivare dove voleva, e la cosa cominciò ad infastidirlo.
 
 
Robbie la stava aspettando al solito pub, e come ogni mattina aveva corso come un pazzo per arrivare in tempo. Tanto lo sapeva, non l’avrebbe portata a casa, ma poteva sempre trovare una scusa per avvicinarla.
Era puntualissima, come al solito: uscì dal negozio della madre, si accostò al muro del vicolo a fianco, si cambiò in fretta e furia le scarpe, passando dalle ballerine super flat al tacco dieci in sughero decorato con satin color carne. Sciolse i capelli e agguantò il telefono pescandolo dalla borsa capiente.
Robbie la guardava, divertito, attraverso il vetro del locale e si preparò seduto comodo al bancone del bar.
Guardò le mosse seguenti della ragazza attraverso lo specchio davanti a lui che rifletteva le scene della strada.
La ragazza fece per chiamare un taxi – dannazione!, ma fortunatamente qualcuno la cercò al telefono. Ora sorride. Ridacchia sul bordo del marciapiede, giocherella con una ciocca di capelli e gesticola con fare teatrale.
Saluta.
Riaggancia.
Guarda l’altro lato della strada.
Incrocia un paio di occhi scuri ma meravigliosi.
Sorride.
Attraversa la strada.
Il campanello del locale sbatacchiò un paio di volte annunciando l’arrivo di lei, e Robbie fece un cenno al barista, come se stesse andando via.
“Che ci fai qui?” esordì lei, le mani sui fianchi.
“Oh, ciao! Ero venuto a prendere un caffè, ne vuoi uno anche tu?”
Lei osservò uno degli sgabelli liberi: “Beh, quasi quasi…”, disse, sedendosi per bene e sistemando le borse su uno sgabello a fianco.
Robbie si rivolse di nuovo al barista: “Ehi, fammi un caffè lungo per la signorina! Offro io…”, e con fare sbrigativo lasciò sul bancone due banconote da un dollaro.
Lei si stava preparando ad una bella conversazione, sistemandosi i capelli e controllandosi allo specchio di fronte, quando lui raccolse il borsello che aveva appoggiato a terra e fece per andarsene.
Le diede un bacio fugace sulla fronte e biascicò qualcosa come: “Stammi bene, devo scappare.”
Dopodiché, svanito.
Era uscito dal locale come una folata di vento, e lei rimase a bocca asciutta!
Non sapeva dove guardare, con la bocca spalancata e gli occhi strabuzzanti.
“Ma… eh… io… ma…” balbettò lei, guardandosi da fuori.
Si rivolse al barista: “Me lo mette in un cartone?” Gli chiese, raccattando tutta la sua roba in quattro e quattr’otto.
Il pover’uomo versò il caffè fumante in un bicchiere di carta e lo porse alla giovane.
Lei lo agguantò e uscì di corsa dal locale.
Il ragazzo camminava a passo spedito a venti metri da lei, e quando sentì la porta del locale sbattere sullo stipite, cominciò a rallentare.
Con le mani in tasca e un’andatura da ‘sono-figo-posso-farlo’, allungò le orecchie per carpire un qualsivoglia rumore da parte della ragazza, voce o strepito che fosse.
Sentì i tacchi farsi più frenetici sull’asfalto del marciapiede, e colse una vena di rabbia della decisione del passo: immaginò che in quel momento lei non dovesse avere una camminata elegante da Quinta Strada.
‘Avanti… un po’ più vicino…’ si disse il ragazzo, rallentando ancora di più.
“Robbie! Dove cavolo stai andando?” Sbraitò lei, cercando di tenere un certo contegno – invano.
‘Bingo!’ Pensò lui, voltandosi con fare innocente.
“Ma ti pare?! Cosa cavolo combini?” Gli chiese lei, esterrefatta.
“Che c’è? Ho fretta, devo andare…”
“…sì, a fare che? Contare i peli del gatto?”
“Ma che hai?”
“Mi offri un caffè e mi lasci lì come una scema?”
“Non ti facevo tanto conservatrice…”
“Non cambiare discorso! Tu credi di poter fare il coglione, sempre e comunque, ma non hai capito niente di come sono io. Io ho i controcazzi, caro mio, e a me non la si fa. Chiaro?”
Lui la guardò, divertito: “Dove vuoi arrivare?”
Lei incrociò le braccia: “Dimmi tu dove vuoi arrivare. Sono mesi che mi gironzoli intorno come uno squalo. Cosa vuoi? Il numero di Lily? Non ce l’ho! D’accordo?”
“Cosa c’entra Lily?”
“Pare ci sia un’epidemia di febbre gialla: Lily Goldy è la preda preferita di quasi tutti gli uccelli di bosco di New York City.”
“Io non sono un uccel di bosco.”
“No, sei un condor.”
Lui scoppiò in una risata isterica e si appoggiò al muro dell’edificio alle loro spalle.
Lei lo prese per un braccio e lo trascinò via: “Non qui.”, disse, dando un fugace sguardo al negozio della madre aldilà della strada.
Proseguirono per un isolato, mentre lei telefonava a chissà-chi, lasciandolo momentaneamente da solo.
Quando ebbe finito, lo sbatté all’inferriata di una casa privata: “Allora, ho capito cosa vuoi. E dato che, in quanto ragazzo, non avrai mai le palle per chiedermelo, ci vediamo stasera alle sette, aperitivo dal Full, ok?”
Robbie annuì, sorpreso.
“Bene…” disse lei, controllando un’ultima cosa sul telefono.
Lui le mise una mano sulla spalla e lei lo guardò, trafiggendolo con i suoi occhi verdi e decisi: “Tutto ok?” Le chiese.
“Una favola! Ora scusa,” disse lei, con fare ironico, “ma devo scappare. Stammi bene.”
Dopodiché sparì in un taxi che aveva appena scaricato due persone.
Guardò la macchina gialla sfilare via, e fece ciondolare la testa dalla giravolta di trottola che aveva appena ricevuto.
“Jade, sei sempre la migliore.”
 
 
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