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Autore: Katekat    13/10/2012    8 recensioni
Come Remus Lupin divenne un Lupo Mannaro. Come, da allora, lottò per non lasciarsi sopraffare dalla bestia. Come, più di una volta, rischiò di perdere se stesso e ciò a cui teneva di più.
Perchè nessuno è totalmente buono, o totalmente cattivo come sembra.
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Fenrir Greyback, Remus Lupin | Coppie: Remus/Ninfadora
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Malandrini/I guerra magica, II guerra magica/Libri 5-7
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Hunger
 
 
 
 
 
 




1965
 




Fame. 
Sono spaventosamente affamato.
Non riesco a pensare ad altro che non sia questa tenue scia che si dipana nell’aria. 
Tiepida, dolce, morbida.

Carne.
Carne di bambino.
Sono troppo vicino alle abitazioni, agli umani, ma non riesco a trattenermi. Non voglio trattenermi.

Le luci sono tutte spente. Le finestre occhi vuoti senza palpebre.
Quella al piano terra è aperta.
Mi lecco le zanne.
Entro.


 


Seguo la traccia che mi arpiona le narici come un amo, quasi trascinandomi su per le scale, al piano superiore, alla cameretta che si affaccia sul corridoio immerso nel silenzio. 
Mi avvicino al lettino senza smettere di stuzzicarmi i canini con la punta della lingua. 
Posso già pregustare il sapore del sangue in bocca, nel fiotto caldo di saliva che improvvisamente la riempie.

E' quest'odore. Mi fa impazzire.

I miei artigli strisciano sul copriletto chiaro, a disegni azzurri di cavalli a dondolo. Sento il mio stesso respiro affannoso stridere tra le fauci socchiuse, mentre mi sporgo in avanti. Afferro un angolo della coperta e la tiro lentamente via, attento a non svegliarlo.
I miei occhi setacciano il corpicino ignaro, alla ricerca del punto più morbido in cui affondare. Ma è tutto incredibilmente morbido e invitante, ogni singolo centimetro che fuoriesce dagli orli del pigiamino celeste. 
Con una zampa pelosa sfioro i capelli biondi del bambino, scendo giù lungo la tempia, seguendo il rilievo di una vena azzurrina, lungo l’orecchio e la tenera gola pulsante che sparisce nel colletto, con mio disappunto.

Il bambino dorme a pancia in su. Sembra tranquillo. 

Forse posso osare di più.

La mia zampa corre al bordo della maglietta e la solleva, scoprendo la pancia, che si alza e si abbassa con regolarità. L’eccitazione comincia a pizzicarmi sulla pelle. Sento la pelliccia drizzarsi su tutto il corpo, dalle orecchie alla punta della coda.

Il torace del bambino è un cilindro di rosea carne delicata. Quando espira, la pelle si affossa al di sotto delle arcate costali, evidenziando il punto esatto in cui queste convergono in avanti sullo sterno. Potrei squarciarlo immediatamente al di sotto di questo punto, spingergli le dita al di sotto della cassa toracica e in alto, un po’ più in alto, fino ad afferrargli il piccolo cuore. Strapparglielo via ancora pulsante. 
Non avrebbe neppure il tempo di gridare. 
Quanto ci metterei? Una manciata di secondi, non di più. L’ho fatto centinaia di volte.

Ma prima di ucciderlo voglio godermi un altro po’ questo delizioso calore palpitante di vita. 
Dopo, diventano freddi e rigidi — troppo in fretta, per i miei gusti. 
Non mi piacciono freddi e rigidi. Preferisco sentirli vivi sotto le zanne.
Se gli lacerassi la gola morirebbe troppo in fretta, lo spasso si esaurirebbe decisamente troppo presto. E mi ritroverei più affamato di prima.
Sono così maledettamente fragili, questi bambini. Se li stringi un po’ di più, si sbriciolano le ossa. 

La mia zampa gli circonda il cranio nella sua interezza. Potrei farglielo scoppiare come un frutto maturo, con una minima insignificante pressione, usando un decimo della mia forza. Ma non sono qui per questo. Sono qui per il sangue. Voglio assaggiarlo, prima di ucciderlo.
Scelgo accuratamente un punto non vitale. Gli prendo il braccio sinistro. Gli tiro su la manica. Sorrido prima di chiudere la tenaglia delle mie fauci sull’incavo liscio all’interno del gomito.
Un urlo acuto frange il silenzio. La mia piccola, deliziosa preda è sveglia. Mobile, terrorizzata, sofferente.

È così che li voglio. Vinti. 

Il vero trionfo è la paura impotente nei loro occhi. 

Ma dura troppo poco. Rumori allarmati dall’altra stanza. Una luce si accende in corridoio, filtra sotto la porta. Le mie labbra scivolano sulla pelle del bambino, mentre ritraggo in fretta le zanne. Troppo in fretta: lo squarcio si allarga, vomitando nuovo sangue. 
Mi ci vuole tutto il mio controllo per strapparmi via da lui, per impedirmi di continuare a succhiargli via ogni goccia fino a lasciargli le vene asciutte come un torrente in agosto. Istinto di conservazione. Dicono che sia più sviluppato, in quelli come noi. 

Scavalco con un balzo il letto, fiondandomi verso la finestra. Ancor prima che possa raggiungerla, il vetro si rompe con uno schianto assordante, colpito da un getto di luce rossastra. Guadagno il varco appena in tempo: un secondo getto mi sfiora la spalla destra, strinandomi i peli e diffondendo intorno un secco odore di bruciato. Atterro a quattro zampe nel giardino della casa e me la batto silenzioso e fugace come un’ombra nel buio, inseguito da maledizioni e imprecazioni vane.
Un urlo di donna — la madre, presumibilmente — squarcia il silenzio. Nel silenzio la luna continua ad ammiccare, complice. 
Urla e continua ad urlare. Sembra che non voglia più smetterla. 

Musica, per le mie orecchie.


 




«Per Merlino! L’ho mancato di pochissimo!» 

L’uomo si strappa i capelli a ciocche per la rabbia, digrigna i denti, calpesta schegge di vetro che ricoprono il pavimento. Poi si volta, con espressione atterrita. Il suo sguardo corre inorridito dalla moglie al figlio. 
La donna fissa due occhi immobili e annientati sul bambino. Il piccolo piange, singhiozza e si lamenta a bassa voce, mentre gli occhi dei suoi genitori rifiutano di cogliere il significato della scena, del copriletto insanguinato, del pigiama insanguinato.

Il bimbo è rannicchiato al centro del letto, nella pozza umida della sua urina, nell’odore greve e bagnato di sudore e terrore. Si dondola ininterrottamente su se stesso, gli occhi sbarrati, il volto deformato dalle lacrime. Si stringe al petto il braccio ferito, da cui continua a sgorgare copiosa la vita.
I suoi genitori sono troppo scioccati per fare alcunché. Passano minuti cruciali. Sua madre non osa nemmeno toccarlo. È suo padre che si riscuote, lo prende in braccio, lo avvolge in una coperta, pulita, e si precipita fuori dalla stanza, fuori di casa, senza curarsi di essere in pigiama, di essere spettinato e sotto shock, di avere l’aspetto di un cadavere redivivo.
Sa che non storceranno il naso per quello, al San Mungo. Non gli chiederanno perché non si sia preoccupato di rendersi più presentabile.

Spera solo che ci sia ancora speranza per suo figlio. Spera che si salvi. Ha intravisto la cosa che gli ha fatto male, mentre scappava. Enorme, irta, feroce. Sa cos’è successo. Dicono che quelle ferite siano maledette. Dicono che non ci sia scampo al destino che recano con sé le zanne di un lupo mannaro.
Ma in questo momento non gli importa se suo figlio diverrà o meno un licantropo. Gli interessa sapere se sopravvivrà.

Rimane al suo capezzale per tutta la notte, finchè non viene dichiarato fuori pericolo. Sulla scheda di dimissioni, cinque giorni dopo — hanno voluto trattenerlo per degli “accertamenti”, inutili, l’ha capito anche lui, come l’hanno capito i Medimaghi, perché la diagnosi è irrefutabile — c’è scritto: affetto da licantropia. 

Legge e rilegge quelle parole cercando di darvi un senso, sforzandosi di lasciarle penetrare nell’intontimento e nella negazione che gli permeano la mente come un Incanto Testabolla, strenuo quanto patetico tentativo di proteggersi dalla verità. A poco, a poco essa si sedimenta sul fondo della sua mente, col tonfo pesante e sordo di massi nel greto di un fiume.
Ora non gli sembra più un incubo. Ora l’incubo è diventato realtà.
Si volta a guardare suo figlio che dorme tranquillo. È tale e quale a prima, solo più pallido, gli occhi più infossati, le guance meno floride. Lo sguardo più grigio — lo sguardio di un vecchio. Ogni tanto gli sembra di vederci lampeggiare del giallo; da' la colpa a una immaginazione irrequieta.

Remus non sa che quella notte ha rischiato molto più che la trasformazione in licantropo. 
È un miracolo che sia vivo.

I suoi genitori lo sanno, razionalmente. Sanno che devono essere grati per questo, ma è difficile far accettare l’assurda verità al loro cuore, che emette uno scricchiolio ogni volta che i loro sguardi si posano sul bambino. Precocemente segnato, dannato per sempre.
Si chiedono se se la caverà. Da quella notte, la sua salute è andata deteriorandosi prematuramente, senza che possiano ovviare a ciò. 
E rabbrividiscono al pensiero di quello che dirà la gente: i vicini, gli amici, i parenti…

"David, vieni qui. Non devi giocare con quel bambino. Quante volte te lo devo ripetere?"

Sono marchiati insieme al loro figlio. Nessuno vorrà più avere niente a che fare con loro.

"Signori, ci dispiace, ma riteniamo che questa scuola non sia adatta a vostro figlio... Sicuramente in un altro istituto... insegnanti più tolleranti, di ampie vedute... Cercate di capire..."

Tranquilli, se la caveranno. Si riesce sempre a cavarsela. In un modo o nell’altro. Dipende tutto da chi incontri lungo la strada. Ogni tanto, capita qualcuno che ti tende una mano.

"Remus, è arrivata una lettera per te."
"Nessuno mi ha mai scritto, mamma."
"Viene da Hogwarts. Qualcuno ha parlato di te ad Albus Silente."

Dipende tutto da chi incrocia il suo cammino col tuo.
 
  



***
 


 

1998
 
 
 
Io non sono come lui. 
Io sono una brava persona. 
Sono un uomo con un...un problema, ecco. 
Non farei del male a una mosca.

C'è luna piena, stanotte. 
Ma io non sono come lui.
Sono un uomo buono, sono una brava persona. 

Eccola la luna, la vedo...
Non sono come lui. Non sono come lui...  


 
 



Il bambino è nella culla. 
Non ha capelli biondi, ma azzurro cielo. E l’odore è lo stesso di quello inspirato avidamente da Greyback, una notte di tanti anni fa.
Solo che adesso l’ombra che si tende sul sonno innocente non è quella di uno sconosciuto licantropo fuori controllo, ma quella di suo padre. Occhi uguali ai suoi, cerchiati e stanchi, viso come appassito, il colorito grigiastro di un budino rancido.

Manca un giorno alla luna piena. Il cerchio di carta velina, nel cielo, è quasi completo.

Da quando è nato Teddy, ogni mese è un incubo. In genere, prima della trasformazione, non accusa alcun sintomo. Ma con i neonati, ha scoperto a sue spese, è diverso. Il loro profumo è intenso e fa sbatacchiare qualcosa nel suo stomaco, come un pesce che si dibatte all’amo. Resuscita istinti sepolti, esecrati. Evoca brutti ricordi, cattivi pensieri, marciti e guasti a furia di ristagnare nel fondo, mai dissotterrati. 

La notte prima del plenilunio, l’odore raggiunge il picco. E con esso quel desiderio perverso eppure primordiale che gli fa venire voglia di strapparsi a brandelli la sua stessa carne, tale è il disgusto per se stesso che gli suscita il solo pensiero di poter attaccare suo figlio.
Si controlla, è ovvio. Prende la Pozione Antilupo per minimizzare gli effetti più disastrosi della trasformazione. Ma non scompaiono del tutto gli istinti ferini.
Le notti che precedono immediatamente il plenilunio sono le peggiori.
Lo sveglia l’odore di bambino. Così intenso che riesce a sentirlo attraverso muri e porte chiuse. Copre anche quello altrettanto fresco ma diversamente allettante di Dora, al suo fianco. Lo induce a mettere i piedi fuori dal letto, ad alzarsi, attraversare il corridoio, andare da lui.

Ogni volta si ripete.
Remus non lo sfiora nemmeno. Si limita a vegliarlo in silenzio fino all’alba, combattendo contro i propri incubi e i fantasmi della sua mente. Dora non ha mai sospettato niente. A volte, quando alzandosi nel cuore della notte lo ha trovato nella stanza di Teddy, lui ha inventato di averlo sentito piangere. Lei non si preoccupa: si fida di lui, e come non potrebbe, dal momento che, di giorno e lontano dalla luna, Remus è il papà più fantastico che si possa desiderare per un figlio?

Lui ha troppa vergogna per confidarle ciò che prova.
È troppo inorridito da se stesso per fermarsi ad analizzare quanto l’odore della carne di suo figlio gli solletichi prepotentemente il palato, perfino quando è ancora in spoglie umane.
Si fa schifo.
Si detesta.
Si maledice.
Vorrebbe tornare indietro, non aver sposato Dora, non aver concepito Teddy.
Vorrebbe che Greyback lo avesse ucciso, in quel remoto 1965.
Morire, piuttosto che diventare come lui.
Perché è proprio come lui che si sente, mentre trattiene il fiato a lato della culla, per attenuare la tentazione profumata che inspira insieme all’aria. E' così, purtroppo. Deve ammetterlo. 

Si controlla. 
Gronda sudore e sangue, ma i suoi tentativi sembrano non portare a nulla. Invece di fortificarsi, sente scivolare via le energie, la volontà. 
Sopporta, ma senza forza. Accetta in stoico silenzio la tortura, l'ennesima. Lascia che affondi i denti nel suo cuore. Si sente maciullato, un pezzetto alla volta, non ce la fa quasi più a trattenere il fiato, sul punto di esplodere i polmoni, di schizzargli fuori dalle orbite gli occhi. Da dentro gli preme la bestia, ruggendo e raspando per uscire. Scuote forsennata le catene, gli pianta gli artigli a fondo, graffiando, scorticando, ansando, schiumante di rabbia. Distoglie gli occhi dal fagotto angelicamente addormentato nella culla, ma non perde di vista la bestia.
La sente urlare dentro di sé. Sente la sua ferocia sollevarsi come un polverone, accartocciargli scariche elettriche lungo le membra.

A un certo punto, l’Uomo teme di avere la peggio. La bestia è troppo forte. E lo sa. Percepisce il ringhio famelico tramutarsi in ghigno di trionfo. Quelle zanne giallastre, scoperte nell’esultanza, gli fanno tornare nella pelle l’orrore di se stesso; nel cuore il ricordo, mai sopito, di altre zanne. Il loro morso d'acciaio.
Scuote la testa, come a liberarsi dall’immagine, dalla sete di violenza non sua che gli rumina dentro. 

La vede davanti a sé, chiara come una stella nel buio, la belva proiettata dal suo inconscio tormentato e fiaccato, la guarda, occhi negli occhi. Si tuffa nelle iridi giallastre, segate a metà dalle immobili pupille verticali, asole nere conficcate in un pallore vitreo, iniettato di sangue. E' talmente vicino da vedere ogni singolo capillare, enfiato e tortuoso, disegnarsi sulle sclere; da assorbire l’odore denso, rivoltante, intrappolato nella pelliccia incrostata; da udire il ringhio basso che crepita dietro la muraglia di zanne scheggiate, scalfitte, rose, ma sempre letali.

Resta inerte a specchiarsi negli occhi fissi del lupo. A rivedere se stesso in quello. A osservarsi per la prima volta dall’esterno, com’è realmente, spogliato di fronzoli, di paramenti. Caduto anche l’ultimo velo, la verità gli viene incontro nella forma di un gigantesco mostro. 
È questo che è. Un mostro. E niente potrà cambiare la verità.

La bestia si avvicina. Ringhia. 
Vede il muso arricciarsi,il pelo eretto sulle pieghe di carne che si sollevano a scoprire i lunghi canini.
Fa un gesto debole con la mano, senza nemmeno accorgersene. La muove fiacca davanti a sé, senza reale intenzione, come ad allontanare da sé quell’immagine con la sola forza del pensiero. Rispedirla, così, nella bocca degli incubi che l’ha risputata.
Poi il ringhio diventa più sonoro. Cambia tonalità. Si spezzetta in una risata trattenuta, ansante.

Sto impazzendo, pensa. Non sono io. Non posso essere io.

E allora perchè gli sembra di aver atteso questo momento tutta la vita? L'ora in cui avrebbe finalmente fatto i conti con la parte di se stesso che non ha mai accettato?
E' stato questo il suo sbaglio. Non l'ha mai affrontato faccia a faccia, ergo non ha mai potuto imparare a dominarlo completamente. 

Il lupo ride. La risata cresce in altezza, fino a diventare così forte, così piena da riempirgli completamente le orecchie. Urta dolorosamente, ripetutamente, ritmicamente, contro i timpani, sbalzata indietro con coraggio, ma una parte di quel suono tremendo gli si insinua dentro, frugando e trovando buchi sconosciuti, microscopici anfratti, invisibili meati in cui scivolare.
Lo terrorizza quella risata, perché sente che non gli lascia scampo. 
Lo domina quella paura. Paura di finire sconfitto.
Sente che stavolta deve piegarsi. Sente che la sua umanità è un lenzuolo troppo teso, troppo liso. Si squarcia al centro, lo strappo si allarga, corre, corre, fino agli angoli, centimetro dopo centimetro si lacera.
Del liscio sotto le sue dita. Qualcosa gli sfiora la faccia.
Ma i suoi occhi non vedono, immersi nell’oscuramento.

Se potesse guardarsi allo specchio, in questo momento, vedrebbe quel sorriso folle che gli stira le labbra, come se un bisturi gliel’avesse inciso sulla faccia, preciso e trasversale, margini netti, immobile; le narici dilatate, anch’esse paralizzate nel catturare l’odore. 

Quell’odore. Lo fa impazzire.

Gli sembra una scena già vista. Non può sottrarsi. Non può neppure chiudere gli occhi; è immobilizzato, incollato, privato della volontà, risucchiato di tutte le sue forze. Non può far altro che aspettare, impietrito, e guardarsi fare scempio di se stesso. Guardare le sue stesse dita muoversi insistenti sul liscio senza macchie, come pattinatori su una lastra di ghiaccio. Indecise, insistenti, perverse. Fare ombra al sonno disteso, alla fronte liscia di quel minuscolo umano in culla.

All’improvviso il neonato solleva le palpebre. Scivola con gli occhi di torbido azzurro nei suoi e rimane lì, sospeso nelle sue pupille, in un’attesa senza tempo né spazio, tra un battito e l’altro.
È assurda l’immagine che gli rimanda la sua mente sconvolta: se stesso a un lato della culla e l’enorme lupo mostruoso dall’altro.

Sto impazzendo. Sono impazzito. Qualcuno mi aiuti...

Sa che è solo un fantasma della sua coscienza turbata. 
Sa che, se guardasse bene, non vedrebbe alcuna ombra proiettata dalla bestia sul rettangolo di liquida luce lunare del pavimento. Non ha peso, non ha corpo. Non è materia. Non esiste, se non nell’universo parallelo che si svolge dentro di lui. E' lì che deve ricacciarlo. Lì dove appartiene. Il suo posto non è qua. Non vicino a suo figlio.
Uno sbattere di palpebre e ritorna se stesso. All'improvviso, come se qualcuno gli avesse riacceso dentro il lume della ragione. Il velo purpureo che gli adombrava la vista si solleva, è squarciato. Ora può vedere. Cosa vede?

La stanzetta affollata di giocattoli. Le pareti meravigliosamente linde, terse, sgombre. Il buio le tinge di grigio, ma sa — ricorda — che in realtà sono verde mela. L’ha scelto lui personalmente quel colore per la stanza di suo figlio, quando ancora scalciava come un diavoletto nel ventre placido di sua madre. Dora aveva storto il naso: lei avrebbe preferito un colore più vivace, ma lui, onestamente, non poteva permetterle di infilare un bambino appena nato in una scatoletta fucsia o arancione violento. L’avrebbe fatto crescere nervoso e iperattivo. Ci avevano riso su.

Vede. Ora vede tutto.
Tremano le sue mani mentre le ritrae lentamente dal neonato che continua a guardarlo tra le palpebre socchiuse.
Il ghigno inconsulto che gli deformava la bocca si ritrae anch’esso, seppellendosi sotto le labbra, lasciando una smorfia di raccapriccio, di incredulità.
La vergogna lo afferra, brucia. Lo lascia annichilito, il petto palpitante. Si copre gli occhi con le mani che non smettono di tremare nemmeno quando si preme le dita sulle orbite, schiacciando la pelle contro l’osso, desiderando poterlo perforare con le unghie, attraversare il cranio, penetrare fin nel cervello, per strappare fuori, estirpare, il verme che lo fa marcire dall’interno.

Il lupo è ancora là, sente il respiro pesante, roco, muoversi intorno al perimetro della sua mente, costeggiare le difese, cercando un varco per potersi insinuare, per poterlo attaccare di nuovo. Ma stavolta incontra bastioni solidi; resistono.

Il lupo viene respinto. I suoi contorni iniziano a sfumare. Il suo ringhio si fa più rabbioso mentre avverte la sconfitta, ma ormai perde forma. Le linee si dilatano, i colori si diluiscono, i dettagli stingono, confondendosi sempre più con il muro alle sue spalle. Alla fine, solo gli occhi rimangono. Della bestia assassina, della colpa acquattata, solo le sclere iniettate di sangue, conficcate nell’irto della pelliccia scura, raggrinzita, contratta ancora nel ringhio ostinato ma sconfitto.
Strizza forte le palpebre dietro i palmi delle mani. Forte, più forte che può.
Non si rende nemmeno conto quando il silenzio si sostituisce al vibrare minaccioso della bestia. Se n’è andato?

Non si fida. Il lupo potrebbe essersi nascosto. Potrebbe essersi rintanato in un angolo per tendergli un agguato. Potrebbe essere andato ovunque. Potrebbe essere lì, da qualche parte, ad aspettare che abbassi la guardia per sferrargli un altro micidiale attacco.
Poi sente un gorgoglio che somiglia tanto a una risata. Ecco, lo sapeva, è ancora lì la bestia, pronta ad afferrarlo, a farsi beffe dei suoi ingenui soprassalti di umanità colpevole.
Ma non può appartenere a una bestia quel suono così puro, così fresco. È vetro che tintinna sottile sfiorato dalle dita del vento. Conosce quel suono.

Spia fra le dita in cui ancora nasconde il viso, come un bambino atterrito di fronte all’orco delle fiabe. Come molte, moltissime volte si è risvegliato bambino, inzuppato dal sudore gelido, unico strascico di un incubo confuso che recava inevitabilmente il nome e il volto di Greyback.
Lo scacciapensieri ondeggia pigro all’aria notturna, appeso sopra la finestra aperta in cui è incastonato un ritaglio di cielo nero.
È stata un’idea di Dora. Lei va matta per quel genere di chiassose cianfrusaglie Babbane alle quali scaltri imbonatori attribuiscono mille utilità pur di spennare a dovere ignari clienti dalla manica un pò larga. Come sua moglie, appunto. 

Aiuta a scacciare gli spiriti maligni…”

Quando l’ha detto, le ha quasi riso in faccia. Dentro. Fuori, invece, le sue labbra hanno accennato un sorriso storto. Si è voltato prima che Dora vi leggesse dentro l’amarezza e la disperazione. 
Avrebbe voluto urlarle che non bastava uno stupido ninnolo, una sciocca superstizione, per sbarazzarsi del Male. Esso non esiste solo fuori, non è qualcosa che devi lottare per non far entrare. Il pericolo ce l’ha in casa, Dora, e non lo sa. Non sa di non dover andare troppo lontano per trovarsi faccia a faccia con l’inferno. L’inferno in cui un uomo viene traghettato ogni notte, su un fragile guscio di noce che ballonzola su una tempesta in agguato. E, tutt’intorno, crepitano ringhi lupeschi, ammiccano occhi giallastri, fiutano narici umide.
Dora non sa. Non può sapere. Non potrebbe capire.

«Remus?»

Abbassa lentamente le mani dagli occhi, mentre lei lo aggira per sporgersi su Teddy. Eccola qui, ripescata dal filo dei suoi pensieri.
Percepisce il profumo ignaro dei suoi capelli, il fruscio della sua camicia da notte, vede con la coda dell’occhio il biancore della pelle lattea.
Non si muove. Continua a guardare diritto davanti a sé, rigido, portato lontano dalla marea delle sue tristi elucubrazioni che lambisce appena la terra solida sotto i piedi di sua moglie. E' lei il suo porto sicuro e lui vuole lasciarla tale il più a lungo possibile.
Dora torna a rivolgergli l’attenzione, dopo aver constatato che il piccolo Teddy, ora di nuovo addormentato, sia ben coperto e al caldo.

«Remus?» 

Sente una mano calda scivolare nella sua. Dita sottili trovano gli spazi tra le sue e ne arrestano il tremito. «Remus…» ripete lei per la terza volta. «Che hai?»
Gli viene in mente all’improvviso il giorno, non lontano, della nascita di Teddy. L’orgoglio gioioso, dirompente, che gli sfondava il petto; l’inno di esultanza che cantava nella sua mente, a ritmo con il tambureggiare euforico del suo cuore. Ricorda la prima volta che l’ha tenuto tra le braccia e non riusciva a capacitarsi che una cosa così bella fosse sua, l’avesse fatta lui, con uno sputo della sua materia. Si domandava come fosse possibile che gli atomi della sua essenza e di quella di Dora si fossero combinati a creare quello spicchio di perfezione, accucciato tra soffici pieghe azzurre. Lo guardava, stupefatto, occupare uno spazio così esiguo nella curva del gomito. Così leggero, dello stesso peso dell'aria. E incommensurabilmente più prezioso.

Si ritrova a scrutare gli occhi pensosi di sua moglie e vi ritrova memorie rigeneranti che lo shock gli ha temporaneamente rubato. Si ricorda di tutte le volte in cui ha accarezzato suo figlio, in cui le sue dita lo hanno stretto. Nel modo giusto. Non come un attimo prima.
Tutte le volte in cui si è chinato sulla sua culla a vegliarne il respiro. Con commozione, stupore, adorazione. Nel modo giusto. Non come poco fa. Quello... era sbagliato. Tremendamente sbagliato.

Cosa diresti, Dora, se lo sapessi? Se sapessi che ho appena provato il desiderio di uccidere, sbranare, divorare nostro figlio? 
Cosa diresti se ti dicessi che il suo odore mi fa piangere di rabbia, di disperazione, di desiderio represso? 
Scapperei all’altro capo del mondo, per non doverlo più sentire, per poter smettere di lottare con me stesso. È come avere costantemente un cilicio conficcato nella carne. Uno stillicidio continuo di sangue e sofferenza. Tutte le notti. 
Cosa diresti, Dora? Mi cacceresti? Dovresti. Sì, sul serio: per il bene di Teddy dovresti farlo. 

Non gli è mai successo prima. Non ha mai provato una fame così feroce, nemmeno quando si è trovato nel pieno della trasformazione. 
Cosa c’è di diverso? Perchè gli succede questo? È per via di Teddy? E' perché si tratta della sua stessa carne?
Vorrebbe che glielo spiegassi, Dora. Ma Dora non può, nessuno può. Nessuno sa. Deve tenersi il suo tormento, la sua vergogna e il suo desiderio di sangue. Nessuno deve sapere. Mai. Nemmeno lei.

«Sto bene. Non è niente.»

La sua voce suona piana, tranquilla, liscia come una china asfaltata che scivola verso il mare.
Quasi quasi ci crede lui stesso. Cosa darebbe per lasciarsi cullare da un’illusione di normalità. Addirittura le sue labbra si tendono, offrendo a Dora un campione di sorriso sereno e senza nuvole che lei ricambia col suo, ancora un po’ titubante.
Cosa darebbe per rimanere appigliato a lei, nello stagno melmoso in cui ancora sciaguatta la sua coscienza confusa, presa al laccio tra sensi di colpa e colpevoli pulsioni. 
Che fare? Mentire? Dire la verità?

«Teddy si è svegliato anche stanotte?»
«Sì, anche stanotte.»
Lei annuisce, abbassa lo sguardo sul bambino. Lui osserva le sue palpebre piegarsi mollemente, la frangia curva di ciglia che proietta ombra sugli zigomi. La sua faccia è tonda e pura alla luce della luna. La perfezione della sua fronte appena interrotta da una ruga tra le sopracciglia.
«Torna a letto, Dora. E’ tutto a posto.»
«Tu non vieni?»
«Ti raggiungo subito, amore.»
Si sente un ladro mentre pronuncia l'ultima parola. Ladro del suo affetto, che sarebbe meglio riposto in un altro,chiunque  altro, purchè non lui. 

Le sfiora appena la tempia con le labbra, ma basta perché quella ruga sottile sparisca, la pelle si distenda di nuovo. I suoi occhi, ora completamente rischiarati, sono innocenti e fiduciosi come quelli di una bambina. Si alza in punta di piedi per baciarlo un’ultima volta, poi sgattaiola fuori dalla stanza. Il calore della sua mano scivola via insieme con lei, con la sua morbidezza e il suo profumo caldo e semplice.

Ecco, ora è di nuovo solo. Guarda la stanza. Nulla sembra essere cambiato. O forse è lui ad essere impercettibilmente mutato.

Cosa diresti, Dora, se ti raccontassi che ho visto un lupo, poco fa, vicino la culla? Che mi sono visto riflesso nei suoi occhi? Che ho lottato con la bestia che ho dentro, ho respirato la mia paura, la sua violenza? 

Ma ora è passato. Il lupo è scomparso, portandosi via la sua risata micidiale e il suo ringhio raggelante. Il suo puzzo di sangue, le sue zanne luride.
Lasciando qui l’Uomo. Un po’ più forte, forse, di quanto era prima. Un po’ più controllato. Un po’ più padrone di sè. Così gli sembra. 
Più consapevole del pericolo, più in guardia, più preparato ad affrontarlo. Non si lascerà cogliere con la guardia abbassata un’altra volta. Questo promette a se stesso.
La prossima volta, il lupo dovrà essere molto più scaltro per superare le sue difese. Almeno così spera. E lui lotterà con determinazione ancora maggiore; non gliela darà vinta. Mai. A costo della vita. Non lascerà mai suo figlio. Lo giura.

Non torna a letto da Dora. Sa che lei capirà. Questo lei può capirlo. Non si farà troppe domande. In fondo, è abituata alle sue stranezze.
Veglia tutta la notte su Teddy. Lo protegge. Lo protegge da se stesso e dalla ferocia latente del lupo addomesticato, ma sempre pericoloso.
Solo quando la faccia bianca della luna tramonta e una lama rossa incendia l’orizzonte a est, fugando ombre e paure, si permette di allentare la guardia. Rilassa i muscoli, torna a respirare profondamente. Solo allora si stropiccia gli occhi insonni, fa una carezza a Teddy — senza timore, adesso — e in punta di piedi torna a letto.

Anche stavolta c’è riuscito. Ha protetto suo figlio dalla bestia. È stato più difficile, più duro di quanto gli sia mai capitato finora, ma ce l’ha fatta.
Sulla soglia, si volta un’ultima volta. I suoi occhi scivolano guardinghi sul pavimento; un sospiro di sollievo gli gonfia il petto: nessuna ombra famelica si allunga sul pavimento a lato della culla.
Tende le orecchie, ma quelle gli rimandano solo il tintinnio antiquato e un pò ebete dello scacciapensieri appeso alla finestra.
Per Merlino, potrebbe persino cominciare a ritenerlo di una certa utilità. D’altronde, gli ha veramente portato fortuna, quella notte. Ha scacciato i brutti pensieri. Guardandolo oscillare debolmente, roteando su se stesso, si sente improvvisamente stanco. Tutto il sonno perduto gli piomba addosso di colpo, come se qualcuno gli avesse rovesciato un sacco di massi sulle spalle.
Ora, finalmente, può andarsene a letto. Ha fatto il suo dovere.
Nessun lupo cattivo potrà fare del male a Teddy finchè c’è suo padre a vegliare su di lui.
 
 
 

 
 

Fine

  
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