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Autore: _LilianRiddle_    14/10/2012    2 recensioni
" Non ricordo quando m’innamorai per la prima volta di lei. E ha sentito bene. Per la prima volta. Perché con lei, ogni giorno, era diverso. Ogni santissimo giorno m’innamoravo nuovamente di lei. E non chiedetemi come sia possibile una cosa del genere. So solo che riusciva sempre a stupirmi. Sempre. "
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Barcellona.
 

 
- Buongiorno. –
- Buongiorno, Phoebe. Sei pronta? –
Per la prima volta la vidi esitare.
- A questo proposito… io… io non credo di farcela. Non so neanche se voglio farlo. Insomma, sicuramente si sarà ricostruita una vita, starà studiando per il diploma, avrà un ragazzo e sarà felice. E magari mi ha anche dimenticata. Anzi, è certo che mi abbia dimenticata. –
- Perché fai così, Phoebe? Sei venuta tu da me, hai lottato tu per voi. Perché, proprio adesso che potresti riaverla, ti tiri indietro? Cos’è cambiato? –
- Ho paura. –
Eccolo lì il centro del problema. La paura, un’amica infima e crudele. Prima ti da l’illusione di poterti aiutare, poi ti abbandona nei sensi di colpa. Ed eccola lì, Phoebe, seduta tremante sul divano in preda alla paura. Quel lieve tremolio l’avevo notato fin da quando aveva fatto irruzione nella mia stanza la prima volta, settimane fa. Faceva di tutto per nascondere il tremolio e ci riusciva anche, ma, se solo prestavi un po’ di attenzione, notavi il lieve movimento dei braccialetti che le si arrampicavano sul braccio.
- Prima non avevi paura? –
- No. Prima sapevo che non ce l’avrei fatta. Ne ero convinta. Ma adesso, adesso ho paura di non farcela. Ho paura di non rivederla, ho paura di non parlarle più, ho paura di non riuscire più a sentire il suono della sua voce. Ho paura. Non voglio farlo. Non posso chiamarla. Non ce la farei ad andare in Spagna, se  no. –
- Sai che giorno è oggi, Phoebe? –
- No. che giorno è? –
- Oggi è l’8 settembre. –
Sbarrò gli occhi.
- Mancano solo due giorni. –
- Sì. Non abbiamo più tempo Phoebe. La devi chiamare. Perché magari non è partita per la Spagna, magari è rimasta in Italia, o magari è andata da qualche altra parte. La devi chiamare. –
- No, non posso. E poi, credo di sapere dov’è. È a Barcellona, lo so. Ha sempre voluto andare lì. –
La guardai sembrava sicura. Ma come potevamo fidarci di una sensazione? E se poi non fosse stata a Barcellona? E se, magari, fosse andata a Madrid? E se non era proprio in Spagna? Ma un’altra domanda, un’altra folgorazione mi attraversò la mente.
- Ma i tuoi genitori lo sanno che stai per partire? Sanno che per tutte queste settimane sei venuta da me, in terapia? –
Mi guardò con aria colpevole. Proprio come sospettavo.
- No. Non sanno nulla. Te l’ho raccontato, Theresa, sono stati loro a portarmi via da lei. Secondo te, dopo tutta la fatica che avevano fatto, mi avrebbero mandato da una psicologa per cercare di sbloccare i miei ricordi in modo da poterla ritrovare? Andiamo, non è stupida. Era proprio quello che volevano. Volevano che io dimenticassi Nin, volevano che io fossi normale. Ma è lei la mia normalità e questo loro non l’hanno mai capito. Quindi, beh, no, non sanno che da qui a poche ore partirò per la Spagna. –
- Tu non partirai per nessun paese, signorina! – esclamò Chuck entrando precipitosamente nell’ufficio. - Theresa, per l’amor del cielo, tu non sai in che guaio ti sei cacciata! –
E invece sapevo benissimo in che guaio mi ero cacciata. E avevo già messo in conto tutto. Sapevo di chi era figlia la ragazza rigidamente seduta di fronte a me. E sapevo che se l’avessi aiutata avrei molto probabilmente perso il posto di lavoro. Ma, in quel momento, non me ne importava nulla. Io ero una psicologa, è vero, ma essere una psicologa comportava aiutare il tuo paziente in tutti i modi possibili, anche quelli più drastici, anche se la tua paziente era la figlia della persona più influente di tutta Ottawa.
- Lo so benissimo in che guaio mi sono cacciata, Chuck. –
- Lo sapevi? Tu sapevi che lei era la figlia di Heidi e Russell Percival? Lo sapevi e, nonostante questo, hai accettato di farle da psicologa? Sei diventata matta, Theresa? –
- Sì, lo sapevo, lo sapevo benissimo, ma quando mi si è presentata davanti, settimane fa, per me era solo Phoebe. Phoebe Camilla. E basta. Il suo cognome non ha mai importato niente per me. E sospettavo che fosse qui senza il consenso dei genitori, soprattutto da quando mi ha raccontato la sua storia, ma, ecco, Chuck, tu sei l’ultima persona che può rimproverarle una cosa del genere. –
L’uomo si fermò dal suo vagabondare senza senso e mi guardò fisso negli occhi.
- Non è la stessa cosa, Theresa. I miei erano sempre stati d’accordo con la mia scelta. –
- Sì, così d’accordo che sei dovuto partire alle tre del mattino per evitare che tua madre se ne accorgesse. Hai lasciato una lettera sul tavolo e via. –
- … Me ne sono pentito, poi. – tentò di dire, ma non lo lasciai finire. Gli rinfacciai quello che aveva fatto con una brutalità inaudita.
- Non è vero. Non è assolutamente vero. Non ti sei pentito di quello che hai fatto e lo rifaresti mille volte ancora. Hai fatto la stessa scelta che sta facendo lei adesso. Quindi, lasciala andare. Lasciaci andare. –
- Andrai con lei? –
- Certo. –
- Ti licenzieranno. –
- Lo so. –
- Ti amo. –
- Eh?  –

***


- Dobbiamo fare in fretta. I miei potrebbero rientrare a momenti. –
- Quanto abbiamo?-
-  Cinque minuti, credo. –
- È una pazzia. –
Phoebe si fermò a guardare Chuck. In quel momento, ebbi veramente paura. Paura che la piccola e fragile ragazza divorasse in un sol boccone il mio adorato Chuck.
- Sì, lo è. Ora che abbiamo chiarito questo punto, ci puoi dare una mano o hai intenzione di stare fermo lì a fissare il nulla con le mani in mano e la lingua in bocca? –
La guardò rassegnato, ma aprì la bocca, come per ribattere. Eppure nessun suono uscì dalle sue labbra. Lentamente, come se ogni gesto gli costasse una fatica enorme, anche Chuck iniziò a raccattare un po’ di vestiti sparsi qua e là per la stanza.
Stavamo quasi per uscire, quando, all’improvviso, Blaise entra nella stanza.
- Ciao, sorellina. – disse.
Phoebe si fermò di colpo. Ancora una volta, la paura bloccava ogni suo movimento.
- Che ci fai qui, Bla? Dovresti essere a New York, con mamma e papà… -
- Sono tornato prima. Ti aspettavo. In realtà, però, ti aspettavo già da molto tempo. Già da quando ti hanno trascinata qui. Ogni giorno aspettavo paziente il momento in cui avresti di nuovo reagito. Ogni giorno aspettavo il momento in cui saresti tornata di nuovo te stessa. E ho avuto la terribile paura che, per quanto potessi aspettare, non ti avrei mai rivista riappropriarti della tua vita. Avevi perso la scintilla che quella ragazza ti donava. Anno dopo anno, ti affievolivi sempre di più. Pensavo che, a questo punto, l’avessi già dimenticata. Ti eri spenta ormai. Ma eccoti qui, in procinto di partire. Hai dovuto distruggerti per riuscire a riconquistare te stessa. Mi domando come quei due idioti dei nostri genitori hanno potuto credere anche solo per un secondo che tu ti saresti arresa. –
- Lasciami andare, Blaise. Ti prego. Lo devo fare. Tornerò, prima o poi. Ma adesso devo andare via. –
- Non sono qui per fermarti, Phoebe. È solo che stai dimenticando una cosa. –
Phoebe si guardò intorno. Avevamo preso tutto quello che poteva servirle per pochi giorni di viaggio: qualche vestito, uno spazzolino, un pettine. Che altro serviva? Le scarpe ce le aveva già: due tronchetti con tacchi vertiginosi. Le avevo detto di cambiarle, ma non mi aveva dato ascolto. Non mancava niente.
- Ti stai dimenticando del tuo vestito. Anzi, del suo vestito. – esclamò mostrandoci un abitino grigio a maniche lunghe.
La ragazza sgranò gli occhi e si avvicinò barcollando al fratello.
- Oh. – un sospiro sfiorando la stoffa dell’abito fu tutto quello che uscì dalle sue labbra. – Era tanto che non lo mettevo. – sussurrò.
- Tieni, e vai. Con mamma e papà ci parlo io. –
- Ti voglio bene, fratellone. –
I due fratelli si abbracciarono forte, come se quello fosse l’ultimo e allo stesso tempo il primo abbraccio che si fossero dati.
- Ora va. – disse il ragazzo.
Phoebe mi guardò e iniziò a correre.

***


Arrivare all’aeroporto fu un’impresa dato il traffico che c’era a quell’ora. E una volta arrivati, poi, le cose furono ancora più complicate. Phoebe non voleva farsi riconoscere, ma, una volta superati i metal detector, un’hostess l’identificò. Le furono subito intorno. C’era chi voleva un autografo, chi voleva stringerle la mano. I giornalisti, apparsi da chissà dove, volevano una dichiarazione, i paparazzi scattavano foto a raffica. E in tutto questo lei stava lì, spingeva, lottava, per arrivare all’aereo.  
- Signorina Percival, ci lasci una dichiarazione! – gridava qualcuno spingendole un microfono in bocca.
- Signorina Percival, da questa parte, dove sta andando? – chiedeva qualcun altro.
- È vero che sta andando a cercare una ragazza di cui non conosce il nome in Spagna? –
E questo come avevano fatto a scoprirlo?
- Abbiamo sentito che i suoi genitori non sanno nulla di tutto questo, giusto? –
- Perché lo sta facendo? –
- È una pazzia! –
- Chissà che dispiacere darà ai suoi adorati mamma e papà quando lo verranno a sapere! –
Phoebe era sempre più persa. Girava a vuoto, a seconda da dove la spingevano, ma lottava ancora. Cercava di crearsi un varco tra la folla e noi con lei. Non riuscivamo, però, a fermare l’ondata di gente. Apparivano da ogni parte e, per quanto ne allontanassimo il più possibile, ne apparivano sempre di nuovi.
Stanco di lottare, Chuck ci spinse dietro la sua massiccia figura e, con tutto il fiato che aveva in gola, urlò.
- BASTA! –
Tutti si fermarono. Lui sorrise, vittorioso.
- Lasciateci passare o giuro che vi faccio arrestare tutti. – disse tirando fuori il distintivo della polizia.
In un attimo si levarono tutti e noi salimmo senza fatica dentro il primo volo per Barcellona, in prima classe.
Phoebe occupò il posto di fianco al finestrino.
- Sei sicura? – chiesi. In una delle tante sedute che avevamo fatto, mi aveva confidato che aveva il terrore dell’altezza e che solo Nin era riuscita a convincerla a farla salire sul Duomo.
- Oh? – chiese sopra pensiero. – Sì, certo. Io non ho paura. –
Sorrisi.
- Come vuoi. –
Ma non ci furono problemi. L’aereo non fece in tempo a partire che Phoebe si era già addormentata. Chissà com’era stanca, dopo tutti quegl’anni a combattere contro il proprio destino.
- Com’è bella. – sussurrò Chuck.
La guardai. Si era accoccolata con le gambe strette al petto e la testa abbandonata contro il finestrino. Le lunghe ciglia le creavano deboli ombre sugli zigomi. Sul naso all’insù una spruzzatina di lentiggini facevano capolino, donandole un’aria eternamente da bambina. La bocca era bella, dalle labbra piene e morbide. Veniva voglia di assaggiarle. E i capelli, scuri come la pece e dalle sfumature rossicce, le ricadevano scompigliati lungo il collo bianco. Era bella. Molto.
- Già, è bellissima. – risposi.
Poi pensai a quello che mi aveva detto in studio.
- Perché ci hai messo così tanto a dirmelo? –
- Che cosa? –
- Lo sai. –
Stette zitto per molti minuti. Pensavo quasi che si fosse addormentato quando, all’improvviso, mi rispose.
- Non trovavo mai il momento giusto. All’inizio eri fidanzata, poi te ne sei andata per tutti quegl’anni a Londra e, quando tornasti, io dovetti partire per quella maledettissima missione. Insomma, non c’è mai stato tempo. E col tempo mi convinsi che in fondo stavamo meglio da amici. Ma questa ragazza mi ha ricordato perché, quando avevo la sua stessa età, mollai tutto per raggiungerti in America. Ero innamorato e lo sono ancora adesso. Lo sono stato per tutto questo tempo e lo sarò per sempre. –
- Anch’io. –
- Eh? –
- Ti amo. Anch’io. –
Sorrise. E io mi addormentai.
Quando mi svegliai eravamo già in fase d’atterraggio.
Phoebe dormiva ancora, e anche Chuck.
- Phoebe, tesoro? Svegliati siamo arrivati. – dissi dolcemente verso la ragazza addormentata. Non si mosse neanche di un centimetro.
- Phoebe? – provai ancora scuotendola. Niente.
- PHOEBE! – urlai allora.
La giovane fece un balzo, sbattendo il ginocchio sul comodino.
- Che c’è? Stiamo precipitando? – chiese con gli occhi fuori dalle orbite. A me veniva da ridere.
- No, siamo arrivati. – risposi.
- Ma sei matta? – esclamò furibondo Chuck.
- Perché? – domandai.
- Ti pare il modo di svegliare la gente, questo? – rispose.
Io non potei far a meno di ridere fino a farmi venire le lacrime agl’occhi.

***


Ma le risate non durarono molto. Avevamo precisamente un giorno e mezzo per trovare quella ragazza e non sapevamo da che parte cominciare. Girammo un po’ a caso per Barcellona, pensando e ripensando a dove potesse essere, ma niente. Neanche un’ombra di lei. In realtà, non sapeva neanche se fosse veramente a Barcellona. Poteva essere a Madrid, o da qualche altra parte. Ormai ci eravamo rassegnati.
- Chiamala, Phoebe. – disse Chuck.
La ragazza ci guardò rassegnata. Sentirla per telefono doveva essere una tortura, ma era necessario.
Si accasciò su una panchina delle Ramblas. Prese il cellulare e compose il numero. Lo portò all’orecchio e scattò in piedi. Guardava fisso davanti a lei. E il cellulare andò in mille pezzi, mentre le lacrime scendevano sulla sua pelle chiara.
 
Angolo autrice:
Ci siamo gente! Siamo quasi alla fine della storia! Mancano un capitolo e l’epilogo, quindi presto metterò la parola fine al mio racconto.
Ringrazio tutti quelli che leggono, ma soprattutto chi recensisce. Grazie di cuore <3
Al prossimo capitolo, baci.
Lily <3
 

 
 
  
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