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Autore: LikeNos    15/10/2012    0 recensioni
“Un giovane musicista è vittima del desiderio di vendetta di un uomo impazzito dal dolore…”
Questo racconto breve vive sui colori e sulle note – i personaggi principali sono ispirati al gruppo musicale dei Sonohra - del thriller introspettivo. Nato per sollevare un amico in un particolare momento di difficoltà, una volta messe ali proprie, come si augura a ogni progetto, è stato anche l’occasione per indagare la scelta d’amore di un’anima di fronte alle prove d’odio del destino. Il titolo stesso è stato pensato come sintesi dell’avventura narrata di cui gli autori sperano di condividere l’intenzione con altri lettori.
Genere: Azione, Introspettivo, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAMMINO NELLA NOTTE - Parte II



Una pausa, finalmente, tra la prima e la seconda parte del concerto. Il suo primo concerto dopo l’aggressione. Si era preparato con cura durante le interminabili ore passate a provare sotto gli sguardi a tratti preoccupati del resto del gruppo, a reggere la tensione e lo sforzo dell’evento. E proprio una prova di forza si stava rivelando anche per l’attenzione mediatica e per le aspettative di tutti, fans compresi. E adesso cominciava ad accusare la tensione nonostante avesse suonato per buona parte del concerto seduto, cosa che non solo non aveva deluso il pubblico come aveva temuto, ma addirittura lo aveva reso più partecipe.
“Luke, tutto bene?!” gli chiese Sem, il loro bassista, una mano sulla spalla.
“Sì, certo,” rispose forse un po’ sbrigativo, portandosi alle labbra la bottiglietta di acqua minerale per non dover aggiungere altro e ingoiare in fretta una pillola di analgesico. In verità non era così. Niente era più come prima. Non era solo per il dolore fisico che a tratti ancora lo assaliva specialmente quando era stanco, stava facendo i conti con qualcosa che non aveva previsto. La paura.
Si era fatta strada in lui piano piano, subdolamente, rendendogli complicate cose che prima considerava normali. Dall’uscire di casa dopo il tramonto, all’affrontare i più piccoli imprevisti, che pure in una professione come la sua erano all’ordine del giorno. La troppa gente, poi, lo impensieriva, il suo maggiore timore era quello di trovarsi nuovamente quell’uomo davanti e non sapere come affrontarlo, come difendere sé stesso o suo fratello. Si aggiustò il colletto della giacca con gesto stizzito e si obbligò a mettere da parte tutti quei timori, c’era pur sempre un concerto da finire e non poteva tradire quella parte sana, la maggiore, di quelli che erano lì per lui!
Aveva in serbo per loro una sorpresa finale con la quale si era ripromesso di emozionarli per ringraziarli con uno dei suoi interventi più movimentati di quelli per cui una fan, una volta, gli aveva scritto che sul palco faceva l’amore con tutti loro. Era emozionato lui per primo.

* * * * * * *

Diego guardò il fratello di sottecchi. Se ne stava silenzioso, assorto nei suoi pensieri, lo sguardo fisso fuori dal finestrino, apparentemente estraneo all’euforia del dopo concerto che sembrava aver contagiato tutta la band. Il mezzo messo a disposizione dalla produzione li stava portando rapidamente al ristorante veronese dove avevano prenotato una saletta privata, per poter mangiare in tutta tranquillità.
Si decise ad affrontarlo, non gli era sfuggito il piccolo incidente avvenuto poco prima, nella penultima canzone. Tutto a un tratto si era reso conto di stare cantando da solo, era durato solo per un breve istante, ma a lui era bastato per captare quello sguardo, lo stesso che gli era capitato di vedere altre volte, ultimamente forse un po’ troppe. Non riusciva a descrivere il miscuglio di emozioni che tutte le volte vi aveva letto dentro, cos’era, smarrimento, paura o, peggio ancora, sofferenza.
Gli diede una leggera gomitata, attirando la sua attenzione: “Beh, è andata bene, no?” gli disse guardandolo dritto in viso.
“Certo, se si esclude la solita perdita di liquidi,” rispose Luke sorridendogli, ma a Diego non sfuggì che quel sorriso non era arrivato agli occhi e che con quella battuta suo fratello aveva eluso la domanda.

* * * * * * *  

“Papà, accosta, accosta per favore!” All’uomo bastò gettare una rapida occhiata nello specchietto retrovisore per capire che era meglio fare quello che il figlio gli chiedeva. A entrambi i genitori non era sfuggito che il giovane appariva stanco e, sebbene fosse sembrata strana la sua richiesta di rientrare con loro e non trattenersi con il resto della band per i festeggiamenti, erano stati ben lieti di potergli essere d’aiuto; tutto sommato un concerto non era fatica da poco e Luke era poco più che convalescente. Non appena l’auto sulla quale viaggiavano si accostò al ciglio della strada, il giovane ne uscì rapido. Fece solo qualche passo e, chinatosi su se stesso, vomitò anche l’anima, e pensare che non aveva quasi toccato cibo.
La madre lo raggiunse sollecita: “Forse oggi è stato un po’ troppo,” commentò, mentre il figlio, riprendendo fiato, si appoggiava alla fiancata del Mercedes. Stava per dirle qualcosa, ma un altro conato lo obbligò a chinarsi nuovamente. Il padre, intanto, preoccupato, aveva fatto il giro dell’auto. Luke ne registrò distrattamente la presenza come un’ombra scura che entrava nel suo campo visivo. La reazione fu istintiva, incontrollabile. Scattò indietreggiando in maniera scomposta, rischiando quasi di perdere l’equilibrio.
“Luke, che ti prende?!” esclamò Eliza, stupita dall’inaspettata reazione. Il figlio tremava violentemente, fissando il padre come se non lo riconoscesse. “Luke, Luke guardami…,” gli disse mettendosi tra lui e l’uomo, obbligandolo a spostare il suo sguardo su di lei, “è papà. Stai guardando papà. Stai tranquillo,” scandì imponendosi la calma. Lo abbracciò. Seguì un lungo e teso silenzio. Poi, finalmente, Luke emise un profondo sospiro e lei sentì il corpo inizialmente rigido del figlio rilassarsi.
“Scusa,” disse questi con un filo di voce, decisamente imbarazzato. “Scusami papà, non so davvero cosa mi sia preso,” aggiunse separandosi dalla donna. Si sedette stancamente sul sedile posteriore dell’auto, i piedi ancora sul selciato, fissando i suoi genitori, contrariato con sé stesso per aver rivelato loro la sua debolezza.
Fu Dominic questa volta a rompere il silenzio: “Ascoltami, ragazzo mio. Non puoi continuare così, hai bisogno dell’aiuto di uno specialista.” Luke ebbe un gesto d’impazienza, ma il padre fu pronto ad intervenire: “Non ti inquietare, voglio solo che consideri la cosa con lucidità e che tu sappia che puoi contare anche sul nostro aiuto. Tua madre e io vogliamo che tu possa ritrovare al più presto la tua serenità,” aggiunse posandogli una mano sulla spalla. “Torniamo a casa, adesso,” concluse.
Mentre i suoi salivano in macchina, Luke si sistemò meglio sul sedile, si strinse addosso il leggero giubbetto, si sentiva ancora lo stomaco sottosopra.
“Tutto a posto?!” chiese Eliza, forse intuendo qualcosa. Il figlio si limitò a un cenno affermativo con quello sguardo imbronciato negli occhi che gli aveva visto tante volte fin da piccolo.
“Mamma, Papà vi prometto che penserò a quello che ci siamo detti, ma voi promettetemi che non direte niente a Diego, almeno per il momento.”

* * * * * * *  

Diego saliva le scale che portavano alle camere cercando di fare il più silenziosamente possibile, alla fine avevano fatto quasi l’alba, si sentiva esausto, e aveva finito anche per bere troppo per i suoi standard, proprio lui che era praticamente astemio. Arrivato davanti alla porta della sua camera fece per entrarvi, ma all’ultimo momento sembrò ripensarci.
Vide che la porta della stanza del fratello non era chiusa, ma solo accostata. Non seppe nemmeno lui perché, ma si ritrovò in piedi vicino al letto di Luke che sembrava dormire un sonno inquieto, anzi, a giudicare dal suo stato di agitazione, doveva essere proprio un incubo, uno dei tanti che avevano preso a tormentarlo. Si avvicinò ancora, indeciso se svegliarlo, sapeva che nel sonno il fratello riviveva spesso ciò che gli era successo qualche mese prima, in quella particolare dimensione onirica che modifica gli avvenimenti rendendo possibile ogni cosa. Proprio in quel momento lo sentì pronunciare il suo nome con una nota disperata nella voce. Ruppe gli indugi, accese la lampada sul comodino e lo scosse energicamente. Luke si svegliò subito, alzandosi a sedere.
“Stai bene?! Ti agitavi,” esordì Diego vagamente imbarazzato.
“Certo, era solo un brutto sogno,” rispose padrone di sé, scacciando le ultime suggestioni del sonno.
“Tu, piuttosto, sembri un cadavere. Che ore sono?” chiese cercando l’orologio.
“Abbiamo fatto mattina!” lo precedette il più giovane a voce un po’ troppo alta.
“No sigar come un’aquila altrimenti sveglierai i vecchi!” si affrettò ad aggiungere Luke. “Non sarai mica ciucco, vero?!” e gli riservò uno dei suoi sguardi inquisitori.
“Io, io no,” rispose l’altro ridacchiando. “Magari solo un po’, è bastato poco!” aggiunse ridendo a voce ancora più alta. Iniziò a indietreggiare, si sentiva un po’ stupido e a disagio, in fondo era più brillo di quello che pensava: “Scusami, non volevo svegliarti, è solo che…,” si interruppe incapace di continuare.
“Che cosa?” lo incoraggiò Luke. Diego rispose con un’alzata di spalle, inciampò su sé stesso e cadde a terra goffamente. “Scemo, che combini!” esclamò il maggiore, alzandosi e raggiungendolo con l’intento di aiutarlo a rialzarsi. Seduto per terra, imperterrito, l’altro continuava a ridere e Luke divertito lo osservava, alla fine si risolse a chinarsi; il fratello si aggrappò a lui rendendo di fatto impossibile rialzarsi per entrambi. A Luke venne in mente quando, da bambini, Diego era solito stringerlo a quel modo, neanche avesse avuto paura che potesse scomparire come neve al sole. “Sei decisamente ciucco, caro mio,” commentò, stringendo anche lui il fratello a sé. Il più giovane smise di ridere, ma non accennò a staccarsi.
“Dai, forza, andiamo a letto,” lo esortò, non ottenne nessuna risposta. “Ehi, non ti sarai mica addormentato?!”
Sentì il fratello sospirare: “Luke…, mi dispiace, mi dispiace tanto, se non avessimo litigato quel giorno, tu non saresti rimasto solo e quell’uomo…,” si interruppe.
“Che dici, noi litighiamo spesso sui pezzi, non era diversa da altre volte.”
“Sì, invece. Sono stato proprio uno stronzo quel giorno,” singhiozzò.
“Non è stata colpa tua,” lo obbligò a guardarlo. Diego era sull’orlo del pianto, sicuramente per l’effetto dell’alcool, ma non solo. “E’ stato un caso, ha visto l’occasione e ne ha approfittato, punto…, poteva capitare benissimo a te, te l’ho già spiegato.” Si fissarono a lungo. Luke si domandò quanto il fratello fosse cosciente del pericolo che anche lui aveva corso e, soprattutto, del pericolo che ancora stavano correndo. Si alzò porgendogli la mano, Diego la afferrò e si ritrovarono uno di fronte all’altro.
“Fatti un sonno adesso, compare!” Lo accompagnò in camera, lo aiutò a spogliarsi e a mettersi a letto. Diego si addormentò non appena ebbe posato il capo sul cuscino. Luke si trattenne ancora un po’, una miriade di pensieri vorticavano nella sua testa, guardando il fratello dormire non poteva fare a meno di pensare che doveva affrontare la situazione e, se necessario, stare all’erta per entrambi. Uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
“Mamma, da quanto sei qui?!” chiese sorpreso.
La donna sorrise: “In effetti da un po’, ti ha buttato giù dal letto, vero?”
“Già,” fece Luke sorridendo a sua volta.
“Che ne dici, vista l’ora, facciamo una bella colazione?” chiese allora con aria complice, cingendo con un braccio la vita del figlio.
“Senti, a proposito dello specialista…, credi che papà abbia qualche idea?!”
“Mmh, non so, ma conoscendo tuo padre non lo escluderei.” E si avviarono giù per le scale.

* * * * * * *  

“Papà, vorrei che mi accompagnassi in un posto,” Luke si era avvicinato al padre che, seduto sul divano del salone, stava leggendo il quotidiano.
“Va bene, quando vuoi andare?”
“Quando hai tempo, anche ora, se non hai di meglio da fare.”
Dominic Marten posò il giornale accanto a sé e alzò lo sguardo sul figlio che gli aveva posato una mano sulla spalla.
“Posso sapere dove?”
Luke lo guardò esitante: “Non ti arrabbiare,” prese fiato come se dirlo gli costasse un grande sforzo, “al cimitero.”
Dominic gli rimandò uno sguardo perplesso ma non sorpreso: “Quel cimitero? Sei sicuro?”
Luke annuì più rilassato. Non gli aveva chiesto “perché?” solo se era sicuro.
“Vuoi che guidi io o te la senti?”
“Guida pure tu, se non ti dispiace.”
Questo voleva dire che mettersi al volante gli risultava ancora faticoso e Dominic lo accontentò di buon grado.
Il viaggio trascorse silenziosamente, interrotto solo da commenti sul traffico. Ogni tanto Dominic lanciava un’occhiata al figlio, ma Luke era del tutto tranquillo.
Il tragitto richiese una mezz’ora; il cimitero, infatti, era quello di un paese della provincia. Una volta arrivati, Luke scese e si diresse senza esitazioni verso l’ingresso e, all’interno, svoltò verso sinistra. Dominic, nel seguirlo, restò un po’ indietro, pensieroso. Per essere la prima volta che tornava in quel posto e considerato che la volta precedente era notte, mostrava una sicurezza che quel luogo doveva avergli inciso nella mente.
Quando lo aveva raggiunto – Dominic era sicuro di dove fosse – Luke era accucciato davanti a una lapide chiara ornata con un angelo portatore di luce.
Senza guardare suo padre, Luke spiegò: “Nessuno, ora, le porta dei fiori.”
A Dominic sfuggì un suono che voleva essere di commozione, ma che il figlio interpretò come sconcerto. Si alzò di scatto e gli mise le mani sulle braccia tese ad accoglierlo.
“Non preoccuparti, so che lei non è qui, ma non volevo che si sentisse ancora più sola.”
Il signor Marten fu sul punto di abbracciare il figlio dopo quella risposta un po’ inquietante, ma Luke si era già voltato. Oltre il parapetto che correva lungo il perimetro del piccolo cimitero, sul lato ovest, si vedevano in lontananza creste di montagne, qualcuna ancora bianca; lo sguardo del giovane sembrava vagare su di esse: “Non le avevo notate quella notte…, c’erano solo tante stelle,” aveva sussurrato.
Poi arrivò la domanda che suo padre si aspettava da tempo, chiedendosi solo quando gli sarebbe stata posta: “E’ qui che mi hanno trovato?”
Naturalmente nessuno meglio di Luke sapeva com’erano andate le cose, ma suo padre capì quello che, in realtà, aveva voluto dire. Solo in quel momento, forse, suo figlio stava ricomponendo quello che era successo e noto a tutti con quello che aveva provato lui e che, fino ad allora, ne era rimasto separato, conservato in un recesso della mente, probabilmente per difesa.
Voleva anche dire: “Chi mi ha trovato?”
Il signor Marten spinse dolcemente suo figlio verso una panchina sul bordo del vialetto. Era rivolta verso l’orizzonte e il prato che era dentro continuava anche fuori, lasciando le lapidi alle spalle. Si sedette e Luke fece altrettanto. Radunò i pensieri e anche il coraggio che gli era necessario; pur non essendo stato presente, lui stesso si era fatto raccontare accuratamente quel momento e ora si trovava a doverlo trasmettere alla vittima, suo figlio, assieme a tutti i pensieri che la sua mente aveva prodotto, similmente a una intossicazione, quando gli era stato riferito il ritrovamento. Luke capì che gli stava chiedendo uno sforzo doloroso, ma aveva bisogno di sapere per colmare i buchi di tempo e di senso nella narrazione che lo riguardava.
“E’ stato il custode. La mattina, poco prima delle otto. Eri steso proprio qui, al centro del vialetto. Sulle prime, ha pensato che potessi essere uno di quei teppistelli che entrano per fare una bravata e che fossi ubriaco. Sembravi addormentato, con le braccia larghe, come se fossi caduto dal cielo. Ti ha scosso per svegliarti e cacciarti fuori e si è ritrovato il sangue sulle mani. Con il giubbotto di pelle nera e la scarsa luce non se n’era accorto subito. Ti ha puntato la torcia in faccia e ti ha toccato per sentire se eri ancora caldo e poi è corso a chiamare aiuto, prima i Carabinieri e poi l’ambulanza del paese; qui, per fortuna ce n’è sempre una fissa. Forse è questo che ti ha salvato la vita, era freddo quella notte o, forse, la coperta che ti ha messo addosso. E’ un uomo rude ma buono, ha perso un bel po’ di tempo con me quando sono venuto a parlargli. Ha tenuto lontani i primi curiosi e ti ha indicato ai soccorritori che ci hanno messo un bel po’ a stabilizzarti. Hanno dovuto inserirti l’ago nella vena del collo perché per il freddo e la perdita di sangue avevi le vene collassate. Si vede ancora il segno, doveva darti parecchio fastidio perché te lo strofinavi di continuo, perfino nel sonno, anche dopo giorni che te l’avevano tolto…,” si era passato una mano sugli occhi. “Comunque…, noi era dalla sera prima che aspettavamo tue notizie. Quando Andy ha trovato la chitarra e la tua borsa nel garage e ha avvertito gli altri, Diego era fuori di sé. Abbiamo capito subito che era successo qualcosa di grave, ma questo no.”
Luke si accorse che il padre stava liberamente deviando dal discorso principale ma, malgrado fosse scosso, comprese che ne aveva bisogno e lo lasciò continuare, limitandosi a battergli una mano sulla gamba. Erano seduti vicini, spalla a spalla, ognuno alle prese con i propri fantasmi che non potevano più rimandare.
“Quando il comandante della stazione ci ha avvertiti, tua madre si è arrabbiata al punto che ha cercato di prendere il Mercedes e lasciarci a piedi, borbottando che eravamo lenti. Sai quanto sta alla larga dalla mia macchina, e per fortuna, perché ha preso le chiavi sbagliate,” si era concesso un risolino.
“Comunque…, il comandante ci ha riferito dove ti avevano portato, ma noi non ti abbiamo visto se non nel tardo pomeriggio. Uno dei chirurghi del pronto soccorso ci ha informati sommariamente sulle tue condizioni e poi siamo saliti ad aspettare vicino alle sale operatorie finché, dopo più di tre ore, la dottoressa che ti ha seguito, e che faceva parte dell’equipe chirurgica, è uscita e ci ha dato notizie più precise, fra le quali che avevi perso così tanto sangue che stavano provvedendo a trasfonderti ma permettendoci di entrare in rianimazione almeno per vederti. Il povero Andy, che è venuto subito e ha aspettato con noi, con uno slancio eroico, ha chiesto se c’era bisogno di sangue e la dottoressa gli ha risposto che, al momento, erano riforniti ma che, se voleva, c’era una unità di donatori presente ogni mattina al centro prelievi. Spero di non dover più ripetere un’esperienza simile,” si era lasciato sfuggire e Luke sapeva che era perché si era quasi sentito male. “Da qui in poi sai tutto. Tua madre non ti ha mai lasciato, neanche quando ha saputo che non eri più in pericolo; Diego era una tigre in gabbia e ha dormito persino in macchina e io ho fatto la spola tra casa, caserma e ospedale, tenendo a bada la stampa e i fans, pazzi furiosi, ma almeno, tra i fans ce n’erano di sinceramente rispettosi e che ti facevano gli auguri. Ah, anche Henry, poi, mi ha dato una mano con la gente fuori. Ecco, più o meno è tutto qui.”
“Grazie, papà. Diego si sente ancora in colpa per quello che è successo, mentre io vorrei che non ci sprecasse sopra altri pensieri e, invece, fosse più prudente.”
Rimasero per lunghi minuti in silenzio a godersi l’aria pulita della primavera inoltrata e il tiepido sole che riusciva a scaldarla anche lì, dove tutto doveva essere immobile, mentre i maggiolini piegavano rumorosamente gli steli dei fiori di campo che crescevano tra le lapidi.
“Possiamo andare, se vuoi,” disse quando si sentì pronto. “Forse dovrei ringraziare il custode.”
“E’ una buona idea, anche se l’ho già fatto io.”
“Mi spiace di non aver pensato ai fiori,” si rammaricò.
“Se le accendi questo, pensò andrà bene lo stesso,” disse suo padre, tendendogli un piccolo cero che aveva preso all’interno della cappella quando erano entrati.
Si era allontanato, voltandosi più in là a guardare suo figlio che inseriva il lumino tra le mani dell’angelo: “Purché tu ritrovi un po’ di pace, ragazzo mio,” gli aveva rivolto di cuore quel pensiero.

* * * * * * *  

Appena messo piede in casa, Diego si rese conto che c’era tensione. Eliza gli venne incontro piuttosto agitata: “Diego, dove sei stato, eravamo così in pensiero!”
“Andiamo mamma, sono andato solo fino al negozio di musica per sostituire una corda della mia chitarra.”
“Non sarebbe stato poi tanto grave, se avessimo almeno potuto contattarti al cellulare,” aggiunse suo padre inserendosi nella conversazione. Diego estrasse il telefono dalla tasca del giubbotto. Il display risultava spento, forse la batteria. “E’ più di mezz’ora che tentiamo di chiamarti,” spiegò la madre seria.
“Mi dispiace, non mi ero accorto che fosse spento,” disse sorpreso.
“Mi sembrava di averti fatto un discorsetto sulla prudenza, ma vedo che non ha sortito granché. In ogni modo, quello più arrabbiato è tuo fratello, ti consiglio di farci due chiacchiere,” concluse Dominic, rimandando qualsiasi altra discussione.
In camera sua, Luke stava maltrattando una delle sue chitarre acustiche, era furioso e non riusciva a credere che suo fratello fosse così… stupido! Aveva passato una mezz’ora infernale, cercando di tenere a bada la sua immaginazione che già lo vedeva steso chissà dove in una pozza di sangue.
Poi lo aveva visto rientrare, del tutto inconsapevole di ciò che avevano passato e, mentre una parte di lui tirava un sospiro di sollievo, un’altra montava per la rabbia! Stupido, stupido, stupido! Così si stava accanendo su una delle sue ‘amiche’, quella più tosta, per cercare di recuperare la lucidità.
Proprio in quel momento, Diego mise la testa dentro la stanza. Luke scattò come una molla. Trascinò il fratello dentro e si chiuse la porta alle spalle. “Sentiamo genio, qual è la scusa stavolta?” chiese brusco, alludendo alle volte precedenti.
“Luke, capisco che tu sia arrabbiato, ma non ti sembra di esagerare, non possiamo mica blindarci in casa, non è giusto!” esordì Diego.
“Prudenza, ti ho chiesto solo di usare un po’ prudenza, ma tu sembri impermeabile alla cosa,” lo zittì deciso e aggiunse, sempre più alterato, “a cosa diavolo ti serve il telefonino se poi lo tieni spento!”
“Andiamo Luke, per favore…,” tentò di giustificarsi esasperato il minore.
“Per favore…, oh sì, questa è un’ottima strategia! Nel caso te lo trovassi davanti, te la consiglio caldamente,” concluse ironico.
“Penso di essere in grado di badare a me stesso,” si difese l’altro imbronciato.
“Cosa, badare e te stesso, ma sei scemo allora… Non sai di cosa stai parlando!” Incapace di credere a tanta ingenuità da parte del fratello, mancava poco che gridasse e questo era piuttosto insolito da parte sua. Diego non replicò, ma il suo sguardo parlava da solo, tradiva ostinazione e insofferenza. Luke si impose la calma. Posò entrambe le mani sulle spalle del minore e respirò a fondo: “No, che non lo sai, non sei tu quello a cui ha puntato la pistola in faccia. Che l’ha guardato negli occhi mentre sparava.” Scosse la testa: “Diego, è successo tutto in un attimo, non ho potuto fare niente per oppormi e sono qui solo perché ho avuto fortuna, ho avuto la classica botta di culo!” lo lasciò andare.
“Luke…,” ma il maggiore non lo lasciò continuare: “Vuoi fare il duro, vuoi fare finta che non sia successo niente?! Bene, allora tanto vale che esci in giardino, ti metti sulla fronte un bell’adesivo con sopra scritto ‘Shoot me’”, accompagnò quelle sue parole con un colpetto a due dita sulla fronte del fratello, “e tanti saluti!” La sua voce si era di nuovo pericolosamente alterata, ma dopo quella frase tacque, fissandolo imbronciato a sua volta.
Diego ne sostenne lo sguardo a lungo e, quando lo abbassò, sospirò: “Luke…, Luke, mi dispiace,” disse con un filo di voce.
“Non serve che tu mi dica che ti dispiace. Dimostrami che hai capito.” Diego si limitò ad un cenno affermativo del capo. Per Luke, che conosceva il significato di certi sguardi e silenzi del suo ombroso fratello, valeva più di tante parole. Alla fine si abbracciarono.

* * * * * * *  

Non appena entrò nel locale per prendere un pedale per la distorsione da collegare alla chitarra elettrica, si sentì afferrare e sbattere violentemente contro la parete. Chiunque fosse, lo stava tenendo premuto contro i pannelli di legno trattato che fungevano da isolante acustico, torcendogli il braccio destro dietro la schiena e impedendogli di fatto di guardarlo in viso, ma Diego non aveva bisogno di vederlo per sapere che si trattava dell’uomo che pochi mesi prima aveva quasi ucciso suo fratello.
“Finalmente il più giovane dei fratelli Marten,” sussurrò una voce sgradevole al suo orecchio.
“Tu sei quello che ha sparato a mio fratello,” disse tutto d’un fiato, cercando di voltarsi e di vederne i lineamenti.
“Già, tuo fratello ha più vite di un gatto, ma questa volta non farò lo stesso errore,” commentò inesorabile. Quell’uomo era forte, molto forte e la sua stazza, da sola, bastava a immobilizzarlo. Diego stava sperimentando sulla propria pelle quello che Luke aveva cercato pazientemente di fargli comprendere. Si sentì afferrare e sbattere con violenza contro la parete laterale una, due volte. Il terzo urto ebbe il potere di stordirlo, anche se non abbastanza da impedirgli di tirare qualche calcio alla cieca; qualcuno dovette andare a segno, perché lo sentì gemere, ma l’unico risultato ottenuto fu quello di far infuriare il suo aggressore. Il pugno che lo raggiunse al viso lo fece cadere rovinosamente a terra, ma non ebbe il tempo di preoccuparsi dello zigomo dolorante, né di altro, perché le mani dell’uomo si serrarono attorno alla sua gola come una morsa. Tra suppellettili e scatoloni rovesciati, schiacciato sul pavimento dal corpo di X, venne preso dal panico per l’impossibilità di muoversi. Presto si rese conto di non riuscire più a respirare e, nonostante i disperati tentativi per liberarsi, sentì che le forze venivano meno e la vista cominciare ad annebbiarsi. Sarebbe morto così, a pochi passi dagli altri riuniti a provare e, per ironia della sorte, in un ambiente considerato a prova di bomba!
X aumentò la stretta, avrebbe presto avuto la meglio sul giovane uomo che lottava sotto di lui: in fondo nessuno dei due fratelli Marten si poteva definire un ‘lottatore’, non ne possedevano né la corporatura, né la tecnica. Nonostante ciò, Diego lo sorprese riuscendo ad assestargli un forte colpo alle orecchie che ebbe il potere di stordirlo e di far guadagnare al giovane dieci secondi di tempo prezioso. Troppo intento e frastornato, non si accorse di quello che avveniva alle sue spalle, i tre colpi ben assestati arrivarono inaspettati. L’uomo si accasciò sulla sua vittima.

Luke lasciò cadere l’asta di metallo che aveva usato per colpire il loro stalker, provocando un rumore infernale. In preda a uno strano presentimento, aveva finito per seguire il fratello nel magazzino, ma la scena che si era trovato davanti lo aveva sorpreso per la sua repentinità e aveva dovuto agire in fretta, afferrando il primo oggetto che gli era sembrato adatto allo scopo. Si chinò su di loro e, non senza difficoltà, spostò il corpo dell’uomo da quello del fratello, afferrò Diego per la spalla e lo trascinò lontano dall’aggressore. Aveva perso conoscenza e non rispondeva ai suoi richiami. Si accorse con terrore che non respirava. Cercò la carotide per trovare il battito cardiaco. Con sollievo, lo sentì quasi subito, affrettato e superficiale. Lo scrollò ripetutamente: “Diego…, Diego svegliati, non puoi farmi questo!” Mise in pratica quello che aveva imparato nel corso da soccorritore che aveva frequentato anni prima. Reclinò la testa del fratello all’indietro, gli aprì la bocca, gli chiuse il naso fra indice e pollice e soffiò un po’ d’aria nella sua bocca. Al secondo tentativo lo sentì reagire. Diego aprì gli occhi di scatto e cominciò a tossire.
“Sì, respira, respira…!” lo esortò, mentre lo aiutava a sollevarsi a sedere.
“Luke…, Luke!” sembrava quasi incredulo. Non appena lo sguardo di Diego cadde sull’uomo steso non lontano, lo vide irrigidirsi e cercare scompostamente di allontanarsene.
“Sta’ tranquillo è svenuto, ci penso io, tu respira!” intervenne per calmarlo. Si alzò e si guardò attorno. Individuò subito due matassine elettriche per i collegamenti con le casse sullo scaffale vicino alla porta, valutò che fossero sufficientemente flessibili e robuste per ciò che doveva fare. Poi si chinò sull’uomo e gli immobilizzò sia i polsi che le caviglie, per ultimo si assicurò che i nodi tenessero. Quando ebbe finito, si alzò in piedi e lo fissò a lungo assorto, non riusciva a capire bene quali fossero i suoi sentimenti nei confronti di quell’individuo, uno strano miscuglio di pena e rabbia.
Diego, intanto, si era alzato a sua volta e lo aveva raggiunto malfermo sulle gambe: “Per favore, usciamo,” lo pregò con un filo di voce. Luke guardò suo fratello, lo sguardo ancora sconvolto, probabilmente sotto shock, aveva rischiato di perderlo; si domandò con angoscia cosa sarebbe successo se fosse arrivato solo un istante dopo, si domandò se lo avrebbe odiato quanto lui odiava loro. “Luke…,” ripeté questi, quasi una supplica febbrile.
“Sì, andiamo,” gli disse aiutandolo a raggiungere la porta. Diego uscì, ma Luke restò con il dito immobile sull’interruttore per un attimo che parve interminabile; alla fine sospirò, e lasciò cadere il braccio, non lo avrebbe lasciato al buio come aveva fatto lui, il buio ingigantisce i fantasmi e certo nella psiche di X ce n’erano tanti, non riusciva a essere bastardo fino in fondo. Si chiuse la porta alle spalle dando due giri di chiave.

La Polizia subito avvisata arrivò immediatamente e l’uomo venne prelevato e portato al comando per gli opportuni adempimenti. Ai due fratelli non rimase altro che assistere, muti testimoni, al suo arresto, anche se Luke non avrebbe mai più dimenticato la lunga, penetrante occhiata che X riservò loro.
Non appena la ‘pantera’ della Polizia se ne fu andata, Diego si rivolse al maggiore, “Senti un po’, sbaglio o mi hai baciato?!” nonostante l’accaduto, l’espressione sul viso provato era distesa in un sorriso complice.
Luke lo guardò, sorridendo a sua volta: “Adesso sai quanto ti voglio bene, fratellino,” disse, accompagnando le sue parole con una leggera e affettuosa pacchetta sulla spalla del minore. La sua espressione però tornò seria osservando le occhiaie che vedeva accentuarsi sotto gli occhi del fratello. “Diego, è meglio se vediamo un dottore adesso,” concluse prendendolo per un polso e avviandosi al parcheggio.

* * * * * * *  

L’attesa al pronto soccorso si rivelò più lunga del previsto, Diego aveva rifiutato l’ambulanza, non gli sembrava di sentirsi poi così male, così Luke aveva preso la macchina, lo aveva sistemato sul sedile del passeggero accanto al suo, allungandosi, prima di partire, per allacciargli le cinture di cui lui si era proprio dimenticato e lo aveva accompagnato insieme a Andy. Già immaginava lo scalpore che la cosa avrebbe destato non appena si fosse saputo ciò che era successo, aveva già sperimentato quanto potesse essere forte la pressione mediatica intorno a loro quando Luke era stato ferito e ne era infastidito al solo pensiero. In ogni modo, pur di tenere la mente occupata, andava bene tutto. Continuava ad avere davanti agli occhi il viso alterato di quell’uomo mentre lo teneva inchiodato al pavimento.
“Ehi…, sono arrivati.” Andy gli stava indicando i loro genitori.
Eliza li raggiunse per prima: “Santo cielo, Diego, stai bene?” Si era chinata e guardava preoccupata il vistoso livido sul viso del figlio. Diego si limitò a farle un cenno affermativo con la testa, abbozzando un debole sorriso; si domandò cosa avrebbe pensato dei lividi che aveva sul collo, si era preoccupato di nasconderli con la sciarpa grigio chiara che portava sempre, anche se, per la verità, non sapeva nemmeno lui il perché.
Erano stati interrotti quasi subito dall’arrivo dell’investigatore. Li aveva raggiunti al Pronto Soccorso, come aveva detto loro mentre portava via X, ma fece solo poche domande, in effetti soprattutto a Luke, e si congedò quasi subito, raccomandandosi di presentarsi in centrale appena possibile.
“E’ stata una brutta avventura, non c’è che dire, ma adesso è tutto finito,” aveva commentato mentre già guadagnava l’uscita rispondendo a una chiamata dei suoi uomini.
Luke lo guardò allontanarsi, aveva una strana espressione assorta sul viso che colpì Diego per la sua intensità, che suo fratello temesse non fosse così?
Quella sera c’era parecchio via vai, l’andirivieni di tre ambulanze aveva fatto sì che i tempi di attesa, nonostante le sollecitazioni dell’investigatore, si prolungassero ulteriormente, mettendo a dura prova la loro pazienza e resistenza.
Alla fine, esasperato, Diego era sbottato: “Basta, sono stufo, voglio andare a casa!” Fece per alzarsi, ma la mano di Dominic lo obbligò a restare seduto.
“Manca poco Diego, adesso vado a sentire,” si alzò, in effetti il figlio aveva una brutta cera, era il caso di farsi valere, in fondo era pur sempre reduce da un’aggressione.
“Sono ore che aspettiamo. Ho bisogno di stendermi,” si lamentò tra sé il giovane, scuotendo la testa e portandosi la mano sugli occhi, la luce lo disturbava. La madre gli passò un fazzoletto sulla fronte. Diego stava sudando e questo non le piaceva, per questo gli aveva procurato una bottiglietta d’acqua perché almeno bevesse, ma le condizioni della gola gliel’avevano reso doloroso e aveva desistito quasi subito.
Proprio in quel momento lo chiamarono. Si mosse con lentezza, Luke lo aiutò ad alzarsi, ma si accorse subito che il fratello non stava in piedi. “Diego?!” esclamò.
Lui si aggrappò al suo braccio, girava tutto terribilmente, sentì le gambe cedere e, nonostante facesse resistenza, si ritrovò in ginocchio, mentre Luke lo teneva perché non cadesse.
“Non si preoccupi, lo faccia distendere,” disse il dottore che li aveva chiamati e che si era avvicinato vedendo la scena. Luke lo aiutò a stendersi e il medico gli sollevò le gambe. Questa semplice manovra fu sufficiente a farlo riprendere. Guardò il fratello e i suoi un po’ stranito ma più sollevato: “Non vi preoccupate, sto già meglio adesso.”
Il dottore fece un cenno a un’infermiera che arrivò con un lettino. Diego vi venne trasferito per poi essere portato velocemente oltre la porta scorrevole. A Luke e ai suoi genitori non rimase altro che attendere.

Fecero il giro come gli era stato spiegato, fu loro indicato un box protetto da tende. Diego era ancora steso sul lettino anche se con il busto sollevato. Era cosciente, la manica sinistra era arrotolata oltre il gomito, era stato inserito un ago-cannula attraverso il quale veniva somministrata una fleboclisi di soluzione fisiologica per reidratarlo; con l’altra mano si teneva una borsa del ghiaccio sul livido che ormai si era esteso all’occhio. I lividi sulla gola, ora esposti, erano impressionanti, si vedevano con chiarezza le impronte delle dita dell’aggressore. Luke percepì distintamente alla sua destra Eliza irrigidirsi alla loro vista e trattenere il respiro e la cinse con il braccio, prevenendo di poco il padre, ben conscio di ciò che lui stesso stava provando.
“Come stai,” chiese Dominic avvicinandosi.
“Pa’, vogliono ricoverami, io invece voglio tornare a casa.”
“Si tratta solo di questa notte, ha avuto un leggero collasso,” intervenne il dottore. “Ad ogni modo, abbiamo fatto una radiografia per escludere una frattura allo zigomo e una ecografia al collo, è risultato tutto a posto, ma sarebbe più prudente monitorare l’evoluzione. Il riflesso della deglutizione è mantenuto, il dolore dovrebbe scomparire in una decina di giorni, come pure i lividi. Gli ematomi daranno fastidio per un po’, ma, dato che non c’è commozione, sarà possibile, in caso di necessità, prendere degli analgesici.”
Tutti gli occhi si puntarono su Diego che, per tutta risposta, gettò le gambe oltre il lettino e ne scese senza problemi: “Andiamo a casa,” disse semplicemente.
“Come vuole, in tal caso ci sono un po’ di moduli da firmare. La dimettiamo non appena terminata la flebo. Mi raccomando, però, al primo sintomo sospetto ritorni subito qui e domani si faccia in ogni caso vedere dal suo medico di famiglia.” Il dottore gli riservò una lunga occhiata di valutazione e solo quando Diego gli fece un cenno affermativo con il capo, ignorando la perplessità dei suoi, si fece strada alla volta della segreteria.

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Era stato molto indeciso se accettare o no quell’incontro, in famiglia la cosa aveva destato parecchio sconcerto e anche una certa preoccupazione, Diego e sua madre erano fortemente contrari, suo padre come sempre era più possibilista, ma non gli aveva nascosto la sua perplessità.
La richiesta era arrivata attraverso gli avvocati con una lettera cortese alcuni giorni prima, lui l’aveva letta più volte per convincersi se assecondare o no a quello che aveva l’aria di un vero e proprio appello.
Alla fine si era ritrovato seduto ad aspettare nella sala colloqui del carcere, forse perché anche lui sentiva che doveva mettere ancora la parola fine a tutta quella storia.

Si guardò attorno un po’ teso, domandandosi per l’ennesima volta cosa diavolo ci facesse in quella sala. Lo stanzone dai muri intonacati di bianco ormai ingrigito conteneva un certo numero di tavoli, quasi tutti segnati e consumati dall’uso, con la loro dotazione di sedie spaiate per permettere a ‘ospiti’ e visitatori di colloquiare più o meno comodamente seduti. La luce penetrava da tre grandi finestre fornite di sbarre che testimoniavano dove si trovavano insieme all’agente della Polizia penitenziaria dall’aria annoiata in sosta vicino alla porta d’ingresso. In quel momento non erano in molti a ricevere visite, una coppia alla sua sinistra tre tavoli in là, piuttosto riservata e silenziosa e un’altra seduta davanti a lui, tutta l’opposto della prima.
Passò ancora qualche minuto senza che accadesse nulla e poi finalmente lo vide; l’uomo che aveva quasi ucciso lui e suo fratello entrò nella sala. X lo cercò con lo sguardo e individuatolo si diresse verso di lui con passo pesante. Gli si fermò di fronte e per un lungo momento nessuno dei due parlò, si limitarono semplicemente a guardarsi, valutandosi a vicenda. Luke pensò che era lo stesso uomo e nello stesso tempo non lo era, c’era qualcosa di diverso che non sapeva individuare ma forse, a pensarci bene, la stessa cosa si sarebbe potuta dire anche di lui, quella vicenda li aveva cambiati tutti.
“Devo essere sincero, non credevo che saresti venuto,” esordì X sedendosi.
“Sincerità per sincerità, sono stato in dubbio fino all’ultimo,” rispose, stupito di quanto si sentisse calmo in realtà, dopo il primo comprensibile momento di intensa emozione non appena lo aveva visto entrare. Calò un silenzio imbarazzato che fu Luke a rompere con la domanda che, in fondo, X si aspettava: “Perché ha voluto vedermi?”
L’uomo si guardò attorno prima di rispondere: “In questo posto hai modo di pensare molto, il tempo scorre lentamente e le cose assumono un altro peso, diverso.” Spostò lo sguardo sul giovane seduto davanti a lui: “Gli psicologi qua dentro ti riempiono la testa di tanti paroloni, ma io sono sempre stato un uomo semplice che lavorava duro, non ho studiato e di queste cose ne capisco poco,” fece una lunga pausa. Luke non sapeva cosa pensare, una parte di lui si rendeva conto che mettersi a nudo così con uno sconosciuto non era facile, un’altra parte era diffidente, il pensiero che volesse ottenere uno sconto di pena era più che legittimo e giustificato da un residuo di paura, ma sapeva che il proposito di chiedere perdono alla vittima era parte del processo di recupero.
“Non mi aspetto che tu capisca,” continuò, quasi gli avesse letto nella mente, “ma sentivo il bisogno di dirti che mi dispiace di tutto, e che pagherò il mio debito. Mi sono accanito su persone che non c’entravano nulla. La vita di mia figlia non è stata facile e se lei trovava un po’ di sollievo seguendo il suo gruppo preferito, avrei dovuto capirla.” A quelle parole, Luke non poté fare a meno di avere un moto di sincera pena per quella giovane i cui sogni erano stati interrotti così bruscamente.
“Mi dispiace molto per sua figlia, non si dovrebbe morire così giovani, senza aver avuto la possibilità di seguire i propri sogni, o almeno l’occasione di metterli alla prova,” pensando a un amico che aveva subito la stessa sorte.
“Lo so, me lo dicesti anche allora, ma non ti ascoltai. Ero troppo accecato dall’odio,” assentì l’uomo abbassando gli occhi. Inaspettatamente, posò su di lui uno sguardo così penetrante da suscitargli un brivido: “Mi hanno riferito che sulla sua tomba ci sono sempre fiori freschi, sembra che qualcuno non li faccia mai mancare, mi domando chi sia.” Il giovane non riuscì a rimanere impassibile e una lieve increspatura delle labbra ne tradì il segreto. Per la prima volta Luke vide l’ombra di un sorriso su quel viso che pareva esserne incapace, ma nessuno dei due sentì la necessità di aggiungere altro.
“Be’, quello che dovevo dire l’ho detto. Ti ringrazio per avermi ascoltato,” fece per alzarsi, ma sembrò ripensarci, accennando ancora a parlare, ma la voce di Luke si sovrappose per un attimo alla sua.
“Perché non mi ha finito?”
Gli occhi dell’uomo si dilatarono, mostrando un disagio non inaspettato ma che avrebbe preferito gli fosse stato risparmiato, poi si abbassarono.
“Oh, in quel momento l’avrei fatto, credimi. Devi la mia esitazione all’arrivo del custode che al sabato arriva presto per aprire ai lapidari, mi ha disturbato, era più tardi di quello che avevo pensato. Ma quando si è allontanato avrei ancora potuto,” un guizzo di furbizia primitiva balenò, senza dare modo a Luke di registrarlo coscientemente, in quegli occhi cupi e a loro modo spaesati, “però ormai mi girava per la testa la promessa che hai mantenuto.”
“Come?” chiese Luke perplesso.
Sì, quella che mi hai fatto sulla tomba di mia figlia, prima che...,” lasciò volutamente la frase sospesa e continuò, “hai protetto tuo fratello, come io avrei dovuto proteggere mia figlia.”
Un’immagine che si era formata nella sua mente quando aveva letto i verbali del processo e spesso tornava a tormentarlo come un fantasma senza consistenza, si impose per un attimo davanti a suoi occhi, cancellando tutto il resto. Quello che X aveva appena detto era vero, almeno in parte. Il fatto di non essere morto l’aveva distolto dal nuovo obiettivo. Sapeva che, nonostante tutto, era stato lui la preda, sapeva di aver corso un rischio notevole, inconsapevole di correrlo, in particolare quella volta che erano rimasti a discutere fuori dal cancello del ritardo di Diego e suo fratello l’aveva piantato lì ad aspettarlo un’altra mezz’ora buona. Avrebbe potuto prenderli entrambi in un colpo solo, li aveva mancati per un’indecisione, per un soffio e quel soffio lui, quella notte, l’aveva sentito come ora sentiva l’alito di quell’uomo dall’altra parte del tavolo. Il mescolarsi di quel dato di fatto con la sensazione di dovere la vita anche al caso, invece di inquietarlo, spazzò via quel momento di gelo e lo riportò nella realtà solida.
Prepotenti i ricordi tornarono in tutta la loro forza, chissà se con il tempo sarebbe mai riuscito a fare pace con loro o per lo meno a controllarne l’onda?
“Sì, sono grato al destino che me lo ha permesso.” aggiunse. Già, il destino. Si era spesso domandato, specialmente nelle lunghe ore di veglia notturna, quando il sonno sembrava non voler giungere a portare il suo ristoro, cosa sarebbe successo se non fosse arrivato in tempo, se Diego fosse…, morto. Era sicuro che lo avrebbe odiato, forse anche lui avrebbe meditato vendetta, anzi, ne era certo. Cos’altro avrebbe scoperto di sé stesso che mai avrebbe immaginato?
“Dì anche a lui che mi dispiace,” disse alzandosi e prendendo così definitivamente congedo. Luke si limitò ad un cenno affermativo della testa.

Era felice di essere vivo. Lo pensò con forza mentre rientrava nella luce del sole.
Aveva quasi raggiunto la sua auto, quando vide che Diego, poggiato alla fiancata, lo stava aspettando.
“Come hai fatto a capire che sarei venuto qui?!” chiese una volta avvicinatosi, non celando il suo stupore.
“Non lo so, forse un’intuizione. Mi sono fatto accompagnare da Pietro e, quando ho visto la tua macchina, ho capito che non mi sbagliavo. Adesso però devi darmi un passaggio, sono appiedato,” concluse sorridendo. Tutto sommato Diego appariva di buon umore, anche se sapeva che suo fratello aveva incontrato l’uomo che aveva tentato di uccidere entrambi senza che lui fosse d’accordo.
“Non voglio sapere come è andata, anzi no. Lo voglio sapere!” aggiunse ripensandoci. Luke lo guardò indulgente: “E’ andata bene, almeno per me, ma spero anche per lui. Te ne parlo strada facendo. Andiamo a casa adesso,” disse agitando le chiavi. Diego sorrise, uno dei suoi rari sorrisi aperti: “Sì, ho giusto un paio di accordi che devo farti assolutamente sentire,” gli rivelò aprendo la portiera.
“Allora cosa aspettiamo!” esclamò Luke e salirono in macchina.


Fine

I fatti rappresentati nella seguente opera, pubblicata senza alcuno scopo di lucro, e i dialoghi ivi contenuti sono unicamente frutto dell’immaginazione e della libera espressione artistica degli autori.
Ogni similitudine, riferimento o identificazione con fatti ispirati a persone, nomi o luoghi reali è puramente casuale e non rappresentativa della realtà. Tutto il progetto è stato curato per non arrecare involontaria offesa per la dignità e la sensibilità di alcuno.
  
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