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Autore: voiceOFsoul    16/10/2012    3 recensioni
Cris, uno studente universitario fuori sede, si ritrova dopo un anno a non aver ancora trovato nessuno con cui condividere la sua esperienza. La sua vita, però, sta per avere una svolta. Sia in facoltà che a casa le cose cambieranno e nelle sue mani si intrecceranno molti destini.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario
Capitoli:
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Aprii la porta di casa già spazientito. Avevo fatto una veloce carrellata di chi poteva essere il maleducato che bussava in quel modo, rischiando quasi di buttar giù la porta, ma ciò che vi trovai al di là mi sorprese. Era fermo davanti alla porta, col braccio ancora alzato per bussare l'ennesima volta. Al vedermi sorrise obliquamente. Fu un sorriso carico di odio e sadica felicità. Mi riportò indietro di un paio d'anni, all'ultima volta che ci eravamo incontrati.
- Signor Liotta, buongiorno. Che piacere trovarla in casa. -
- Il piacere è tutto suo, Capitano. - Accennai un saluto, imitandone distrattamente uno militare.
- Saranno almeno tre anni che non ci vediamo e mi saluti così? Eravamo abituati a vederci spesso. Non ti sono mancato? -
- Sono felice di aver lasciato la vita di prima. Mi dispiace che a lei sia dispiaciuto. - 
Allungai il collo per vedere chi ci fosse alle sue spalle. Due agenti erano ben visibili. A qualche passo di distanza un altro agente era in piedi accanto ad un ragazzo seduto di spalle. 
- Ancora non mi ha detto chi cerca. - Tornai a fissarlo negli occhi. 
Rise. Sguaiatamente. Sembrava quasi che la domanda gli facesse particolarmente piacere, che la aspettasse. 
- Te, coglione! - Disse sottovoce.
Si spostò rapidamente. Due agenti che non avevo visto, sbucarono dai lati della porta d'ingresso e mi furono addosso prima che me ne rendessi conto. Mi gettarono a terra, mi rivoltarono e mi ammanettarono con le mani dietro la schiena. Non ebbi neanche il tempo di gridare. Quando tentai di farlo uno dei due si premurò immediatamente di premermi un pezzo di stoffa sulle labbra soffocando la mia voce, mentre l'altro si occupava del mio stomaco con quattro calci ben assestati. Il dolore mi tolse il fiato e la voglia di gridare. Mi sollevarono da terra strattonandomi, riportandomi davanti al Capitano che mi guardava. Si vedeva lontano un miglio che stava godendo come un maiale in accoppiamento. Mi prese per la maglia attirandomi verso di lui.
- Puoi aver cambiato vita, ma sei sempre il solito coglione. E stavolta ti faccio marcire in galera. -
Mi spinse fuori, mentre i due agenti che mi avevano atterrato iniziavano rumorosamente a frugare casa, accompagnati dai due che erano rimasti alle spalle del Capitano. 

- Che succede Cris? Chi era? - 
Mia madre arrivò dalla cucina ancora con in mano una piccola colonna di vestiti appena stirati. Vedendo il corridoio pieno di agenti che aprivano a spallate le porte per poi precipitarsi dentro le stanze a cercare chissà cosa, le venne un colpo. Lasciò cadere i vestiti in terra, distruggendo tutto il lavoro fatto. Mi corse incontro, ma il Capitano le impedì di avvicinarsi. 
- Vita santa, che diavolo succede? - Esclamò fissandolo impaurita.
- Abbiamo il sospetto che Cristiano ne abbia combinata un'altra. E' arrivata una soffiata anonima, ma purtroppo con i suoi precedenti dobbiamo eseguire dei controlli immediatamente. -
- Che cosa avrebbe fatto, sentiamo! Mio figlio è tornato oggi a casa. Non avrebbe avuto il tempo materiale di far nulla. -
- Capitano, l'abbiamo trovata! - La voce di uno degli agenti interruppe l'inutile arringa difensiva di mia madre. 
L'agente era sulla porta di camera mia e teneva Meg per il braccio. L'avevano svegliata e trascinata via dal letto degli agenti che erano tutt'altro che umani e delicati: era talmente impaurita che respirava affannosamente e piangeva senza emettere un singolo rumore. 
Il Capitano si voltò a regalarmi un altro sorriso di goduria. - Signor Cristiano Liotta, lei è in arresto per il rapimento e il sequestro della qui presente signorina. - 
- Cosa? Ma siete pazzi? - Gridai non reggendo più la situazione.
Il Capitano richiamò due agenti che vennero a tenermi fermo. - Portatelo in caserma. Se oppone resistenza, sedatelo. - Alzò il sopracciglio e capii chiaramente che quel sedativo sarebbe stato a base di pugni e calci e sarebbe arrivato anche se mi fossi dimostrato mite come una pecora. 
Mi lasciai trascinare verso la macchina mentre sentivo le urla di mia madre che si ribellava e il Capitano che, con voce pietosa, le diceva che gli dispiaceva ma vi era costretto. Passando accanto all'agente in piedi, diedi un'occhiata sfuggente al ragazzo seduto. Il fatto che fosse Jeff col viso cosparso di finte lacrime non mi sorprese affatto.


Stanza semi vuota, dalle pareti grigie, arredamento ridotto a un grande tavolo bianco e una sedia di metallo. Non era cambiato nulla dall'ultima volta che mi ci avevano tenuto dentro. Forse solo io. Il Capitano da più di due ore mi teneva seduto, ancora in manette, parlando di tutto meno che di Meg. Mi aveva solo detto che il "suo ragazzo", che altri non era se non quel bastardo bugiardo di Jeff, la cercava da più di un mese e l'aveva vista con me alla stazione, da ciò aveva dedotto che ero stato io a "rapirla" e che quello in stazione era un semplice spostamento per non fare individuare il luogo del sequestro. In pratica, quelle che lui chiamava prove, non erano altro che congetture facilmente smontabili. Ma il Capitano non era cambiato di una virgola e il suo desiderio di vedermi tra le sbarre era solo aumentato. Lo dimostrava il fatto che non aveva fatto altro che parlare del passato, di tutto quello che avevo combinato prima di cambiare vita. Delle zuffe nei bar, dei piccoli furti di alcolici nei supermercati. E poi di Giacomino, ovviamente.
Il suo unico nipote. Il mio migliore amico del tempo, il mio compagno di cazzate. E di cazzate, giuro, che ne abbiamo fatte parecchie. Fin quando non arrivò quel fatidico giorno che lo lasciò morto tra le mie braccia per salvarmi la pelle. Un coglione a cui avevo scopato la ragazza era venuto a cercarmi con coltello in mano. Non credo che volesse davvero uccidermi, probabilmente si sarebbe accontentato di sfregiarmi il volto. Ma Giacomo aveva bevuto troppo per rendersene conto, l'aveva aggredito e quel coltello se l'era beccato in piena giugulare. I soccorsi non ebbero neppure il tempo di arrivare. Mi segnò dentro. Decisi di smetterla con l'aggressività. Ci diedi un taglio sul serio. Ma per il Capitano io ero e rimanevo l'unica causa della morte di Giacomo.

Qualcuno venne a bussare alla porta. Un agente lo chiamò fuori dalla stanza per qualche istante e lasciò la porta semi aperta. Intravidi in corridoio mio padre, paonazzo in viso, visibilmente imbarazzato ed arrabbiato. Più la prima che la seconda. 
- Signorina si fermi, non può entrare lì! - Sentii urlare. 
Pochi istanti dopo Meg si era precipitata dentro la stanza venendomi ad abbracciare in lacrime. 
- Meg, che ci fai qui? -
- Non voglio che ti portino via! Non hai fatto niente. Ho provato a dirgli che è tutta un'invenzione di Jeff, te lo giuro. - Continuava a singhiozzare.
Un agente venne a staccarmela di dosso. - Sindrome di Ginerva, signorina. Sindrome di Ginevra! - Continuava a ripetere.
- E' Stoccolma! - Gli urlai, estremamente irritato dal modo in cui la trattava. - Idiota. - Sibilai infine.

Altre tre ore passarono prima che qualcuno si degnasse di rientrare nella stanza. La sera fuori doveva già essere calata ed il mio stomaco brontolava per la fame e si contorceva per il nervosismo. Alla porta della monotona stanza che rischiava di farmi impazzire, si presentò un uomo in giacca e cravatta. Dietro di lui arrivò il volto di mio padre, sempre colorato dalla vergogna. L'uomo mi disse di alzarmi e chiamò dentro un agente per liberarmi dalle manette. Mentre lo facevano lo guardai a lungo finché non lo riconobbi. Era uno degli avvocati che curavano l'impresa di mio padre e che spesso era venuto a tirarmi fuori dai guai. Era la prima volta che me lo meritavo davvero, ma il suo atteggiamento come pure quello di mio padre non cambiò di una virgola. Uscendo dalla stanza, con i polsi finalmente liberi, mi ritrovai ancora una volta il Capitano. Non sorrideva, però.
- E così l'hai scampata ancora una volta, vero? - Mi disse in tono amaro.
- Capitano, si ricordi cosa rischia. - Fece l'avvocato.
Il Capitano si zittì e abbassò lo sguardo.
- Capitano. - Lo chiamai io utilizzando un tono docile che non avevo mai usato con lui. - Sono innocente davvero. La ragazza le ha raccontato tutto, lo so. -
- Cristiano stai zitto. - Mi interruppe mio padre, stizzito. 
- Io amo quella ragazza non potrei mai farle del male. -
- Cristiano ti ho detto di star zitto! - Ripetè avvicinandomisi. 
- Mi dispiace per suo nipote. - A quelle parole il Capitano divenne bianco come un cencio e sbarrò gli occhi in modo evidente. - Ho sofferto molto anche io, glielo giuro. Ma non sono più quella per... - 
Le parole mi morirono in bocca. Mio padre mi diede uno schiaffo in pieno viso senza che avessi il tempo di accorgermene. Lo guardai esterrefatto. Non si permetteva di farlo quasi da quando avevo lasciato i pannolini. - Ti ho detto di star zitto! Quando imparerai ad ubbidire a tuo padre? - Fare il buon padre ferito dal figlio ribelle gli era sempre piaciuto.
Mi massaggiai un attimo la guancia. Guardai il Capitano che cercava di riprendere la sua compostezza, poi l'avvocato impassibile a guardar per aria, infine quel viscido mezzo uomo che risultava essere mio padre. 
- Quando avrò un padre, forse imparerò. Tu pensa a fare i bagagli. E non dimenticare niente che qui non ti ci vogliamo più vedere. - Gli dissi.
Vidi che la sua volontà era quella di darmi un altro ceffone, ma si trattenne, diventando ancor più violaceo in viso. Salutai con un cenno il Capitano e presi a camminare da solo verso l'uscita. Sentii mio padre giustificarsi col Capitano, dicendogli che "quando non ti si permette di raddrizzarli da piccoli poi ci devi perdere le speranze", alludendo come logico a dar la colpa al polso poco rigido di mia madre. Uscii fuori senza dargli retta e mi avviai verso la sua macchina, aspettando che mi raggiungessero.

Dall'altra parte della strada c'era la macchina di Diana. La raggiunsi. Meg uscì fuori dallo sportello del lato passeggero e mi saltò in dosso. Era ancora scossa, ma finalmente non piangeva più. Diana scese dall'auto in modo più tranquillo e mi venne ad abbracciare. 
- Dov'è Bepi? - Le chiesi.
La vidi un po' rattristarsi. - Sta dormendo sul sedile posteriore dell'auto. - La guardai dubbioso e si affrettò a spiegare. - Si è agitato alla notizia di quello che era successo, poi tua madre nella disperazione gli ha anche detto di tuo padre e si è agitato ancora di più. -
La cosa mi preoccupò. - Non avrà mica avuto una crisi! -
- Fortunatamente l'abbiamo scongiurata. Però i sedativi hanno fatto effetto e sta ancora dormendo. -
Mi avvicinai al finestrino e lo vidi rannicchiato sul sedile. Non volli svegliarlo. Tornai vicino a Meg. 
- Ci facciamo una passeggiata? - Le domandai dopo averle baciato la punta del naso. 
Annuì.
- Però prima passa da casa. Tua madre sarà preoccupatissima. - Disse Diana risalendo in auto.

   
 
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