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Autore: iusip    30/04/2007    7 recensioni
Questa ff è una AU, ambientata nel periodo in cui Ryo combatte come soldato nel Sud America. Shinichi Makimura è padre di due bambini, un maschio e una femmina. Soltanto la bambina sopravvive al massacro che colpisce la famiglia. Dopo 20 anni, Ryo Saeba e Kaori Makimura si incontrano di nuovo. Ma, questa volta, SENZA SANGUE. (Ispirato al romanzo omonimo di Baricco.) Buona lettura.
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Hideyuki Makimura/Jeff, Kaori/Greta, Ryo Saeba/Hunter
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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Aveva appena dieci anni, ma già conosceva il significato della parola morte.

Morte, era quella contro cui doveva combattere ogni giorno.

Morte, era la punizione che doveva infliggere ai suoi nemici.

Morte, era ciò che lo circondava.

Gli avevano detto che l’Inferno è quel posto dove Dio manda i suoi soldati dopo che sono morti, ma lui, che affrontava vivo un Inferno al giorno, aveva capito subito che Dio non esisteva.

Alvaro, che voleva diventare un prete ma era stato costretto ad arruolarsi nell’esercito, lo ammoniva sempre, dicendogli che non doveva dire così, che Dio lo ascoltava sempre, che lui era ancora in tempo per andare in Paradiso, e che se continuava ad essere blasfemo ci sarebbe finito per davvero, all’Inferno.

Ma lui rispondeva sempre che niente sarebbe stato peggio di quella giungla disseminata di cadaveri e di brandelli di carne, e Alvaro taceva, e lui capiva di avere ragione.

La notte, mentre scivolava in un sonno irrequieto interrotto dai gemiti dei feriti e dal ronzio insistente delle zanzare, si chiedeva sempre il motivo di quella guerra.

Quando rischi la tua vita ogni giorno, vuoi almeno sapere per cosa stai combattendo, vuoi sapere se quel qualcosa giustifica in qualche modo gli schizzi di sangue che ti finiscono sulla faccia quando uccidi un uomo inginocchiato ai tuoi piedi, che piange e ti supplica di risparmiarlo, di farlo per sua moglie e per i suoi figli che lo aspettano da qualche parte, chissà dove.

Ma quando chiedeva ai grandi perché stessero combattendo, loro lo guardavano, con una saccenza che celava l’imbarazzo del non sapere, e gli rispondevano che non erano cose per lui, che doveva attenersi agli ordini senza fare troppe domande, che lui era solo un bambino e che certe cose non poteva ancora capirle.

Lo prendevano per stupido, senza sapere che lui stupido non era.

E soprattutto, lo prendevano per un semplice bambino, senza capire che lui non era un semplice bambino.

Se lo fosse stato, non avrebbe dovuto imbracciare un fucile più alto di lui e guardare la morte negli occhi ogni fottuto giorno della sua vita.

Se lo fosse stato, avrebbe avuto una mamma che lo avrebbe abbracciato, che gli avrebbe raccontato storie prima di andare a letto, che avrebbe sacrificato perfino la propria vita per lui, così come facevano le mamme del villaggio che loro cercavano di espugnare senza successo da qualche mese a quella parte.

Gli ripetevano che la guerra stava per finire, che il villaggio era ormai in mano loro, che rimanevano soltanto degli sparuti gruppi di guerriglieri che ancora lo difendevano e che andavano eliminati.

I suoi superiori lo incaricavano spesso di controllare il villaggio.

Nessuno avrebbe mai sospettato di un bambino, così poteva passeggiare indisturbato per le strade del villaggio, per scoprire dove si erano rifugiati i guerriglieri e per individuare le falle e i punti deboli del loro piccolo esercito di guerriglia.

Ed era in quelle occasioni che vedeva bambini come lui passeggiare mano nella mano con le loro mamme, baciarle e abbracciarle incuranti della guerra in corso, e con la sua innocenza di bambino intaccata ormai da troppi combattimenti, si chiedeva perché a lui non fosse stata concessa quella felicità che riusciva a percepire solo di riflesso.

Inizialmente, quelli dell’esercito, per fomentare la sua ira e spingerlo a uccidere senza pietà, gli avevano detto che erano stati i guerriglieri del villaggio a uccidere i suoi genitori e a privarlo dell’amore di una mamma.

Ma solo due mesi prima aveva scoperto la verità sulla morte dei suoi genitori.

Era una sera piovosa di una giornata particolarmente negativa per loro.

Durante uno scontro a fuoco con i guerriglieri del villaggio, almeno una decina dei loro uomini erano stati feriti in maniera grave.

Sei non erano sopravvissuti alla notte, e uno di questi era Alejandro, un ragazzo di 18 anni che lui considerava un fratello maggiore.

Lo aveva assistito per tutta la notte, ascoltando i suoi gemiti e i suoi deliri, cercando di nascondere le lacrime che gli rigavano il viso sporco, perché ai combattenti come lui non era lecito affezionarsi a nessuno e soprattutto non era lecito piangere.

Piangere era segno di debolezza, e chi è debole è destinato a soccombere.

Questo era quello che gli ripetevano ogni giorno da cinque anni.

Poco prima di esalare l’ultimo respiro, Alejandro gli aveva fatto cenno di avvicinarsi.

Aveva accostato l’orecchio alle sue labbra livide, cercando di contenere i brividi e di ignorare il tanfo di morte che aleggiava nella stanza.

Ed era stato allora che Alejandro gli aveva rivelato la verità.

I suoi genitori erano morti in un incidente aereo, di cui lui era l’unico sopravvissuto. I guerriglieri del villaggio non c’entravano niente.

L’aereo si era schiantato in quella giungla sperduta del Sud America, dove già era in corso la guerra civile tra l’esercito sudamericano e i ribelli del villaggio di Pueblo.

Il capo dell’esercito, Shin Kaibara, aveva setacciato l’aereo alla ricerca di armi o viveri, ma ci aveva trovato lui, un bambino di appena cinque anni.

Così aveva deciso di tenerlo con sé, di allevarlo come un soldato e di istruirlo all’arte di tutti i combattenti: quella della guerra e della morte.

A poco a poco si era affezionato a quegli uomini burberi e poco avvezzi all’amore, ed era arrivato alla conclusione che combattere dalla loro parte contro i ribelli del villaggio era una sorta di dovere per lui, un modo per ringraziare quegli uomini che lo avevano salvato dalla fame e dagli animali.

Le ultime parole che Alejandro gli aveva sussurrato prima di morire, però, avevano incrinato questa sua convinzione.

Quelle parole lo perseguitavano durante il giorno, mentre sentiva le urla di soldati agonizzanti, e durante la notte, quando, verso l’alba, si aggiornava la lista dei feriti ma soprattutto quella di coloro che non erano sopravvissuti alla notte.

E così soldati, che prima di tutto erano uomini, con i loro desideri, le loro paure nascoste, i loro amori, le loro aspirazioni, erano ridotti a nomi su un foglietto a quadretti, nomi scritti non con l’inchiostro nero della penna, ma con quello rosso del sangue versato.

Ryo, non ne vale la pena, credimi. Lascia stare, finchè sei in tempo. Quando avranno sterminato anche l’ultima donna e l’ultimo bambino di quel villaggio, non gli resterà altro da fare che guardarsi le mani insanguinate e chiedersi il perché. E non lo troveranno, ne sono sicuro. Vattene, Ryo. Vattene.

Poi, Alejandro aveva chiuso gli occhi, mentre un rivoletto di sangue colava dall’angolo della sua bocca screpolata, e non li aveva riaperti mai più.

Quella notte si era arrampicato sul ramo di un grosso albero e aveva pianto come un moccioso, vergognandosi della sua debolezza, perché i deboli, come gli diceva sempre suo padre Shin, erano destinati a soccombere.

E si era domandato il senso del discorso di Alejandro, si era chiesto fino a che punto le sue parole fossero dettate dalla consapevolezza di stare per morire e di non poter più realizzare le sue aspirazioni.

Il dubbio, strisciante come una serpe, si era diffuso lungo le sue vene di bambino cresciuto troppo in fretta, suscitandogli un senso di colpa che lo dilaniava.

Solo il giorno prima, Shin gli aveva detto che rimaneva un’ultima “missione” da compiere, prima che il villaggio fosse finalmente sottomesso.

E voleva che anche lui vi partecipasse.

Tu sei il migliore con il fucile, figlio mio. La tua mira è imbattibile e ci servirà tutta la tua abilità, per questa missione., gli aveva detto.

Era la prima volta che Shin lo portava con sé, in genere, il suo compito era soprattutto quello di sorvegliare il villaggio, di montare il turno di guardia di notte oppure di provvedere al cibo.

Gli era capitato di sparare poche volte, e quasi sempre per difesa personale.

Però aveva un’ottima mira, una dote naturale che Shin non aveva mancato di notare durante il duro periodo di allenamento a cui l’aveva sottoposto.





Adesso Ryo Saeba è steso su una branda consunta, e pensa che parteciperà alla missione con Shin.

Lo deve fare per suo padre, che ha fiducia in lui.

Ma è arrivato alla conclusione che Alejandro aveva ragione.

Così ha deciso anche che quella sarà l’ultima volta che partecipa ad una battaglia di qualsiasi genere.

Sa che suo padre la prenderà male e che sarà deluso, ma sente che quella non è la sua strada.

Forse potrà diventare qualcuno nella vita, realizzare non solo i suoi sogni, ma anche quelli di tutti coloro che sono morti prematuramente prima di lui.

Come Alejandro che voleva diventare un pilota di aerei, Rafael che voleva sposarsi con la sua Tita, Pedro che voleva aprire un ristorante messicano a New York e Josè che voleva comprare una casa a Malibù.

Lui può fare questo e molto, molto di più.

Stringe nel palmo il foglietto accartocciato su cui è scritto il nome dell’ultimo uomo che sarà costretto ad uccidere.

Chiede silenziosamente perdono ad un Dio a cui non crede.

Cerca di dormire, perché domani sarà una giornata dura per tutti.

Shin gli ha detto che quell’uomo è un osso duro.

Cullato dal cicaleccio dei grilli, scivola gradualmente in un sonno privo di sogni.

Le dita della sua mano si distendono.

Il foglietto stropicciato cade per terra, volteggiando brevemente.

Si posa sul pavimento freddo e sporco di terra.

Un solo nome vi è scritto, tracciato con lettere sottili e precise.

Shinichi Makimura.





Salve, spero che questa nuova ff vi piaccia! Sarà molto breve, al massimo altri 3-4 capitoli, e mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate, perchè se non vi piace la cancello e mi dedico alle altre ff che ho in sospeso. Vi ringrazio in anticipo e buona lettura.
  
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