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Autore: Glenda    19/10/2012    1 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IX

 

 

 

 

 

Ma un'ombra mi è rimasta e mi accompagna lieve come il volo di una nuvola, e quando, con le nobili forme danzanti dell'antilope nella vastità soffocante dell'aria d'oro, mi ha rasserenato, ancora mi tenta:

- Solo la morte è seria.

- Giovine moderno, guardati intorno...Anche la vita è seria

 

(G. Ungaretti)

 

 

 

 

Filippo morì durante un furioso temporale d'inverno, la notte tra il tre e il quattro dicembre.

Quando arrivai là, avvertito non so più come o da chi, l'ambulanza era chiusa - sul lato della strada il guardrail sfondato e i resti della macchina andata in fiamme.

Non avevo l'ombrello, faceva freddo, ero tutto bagnato. Desiderai che non succedesse più niente, che la pioggia mi inzuppasse fino alle ossa, che mi facesse sentire pesante, così pesante da poter non capire più nulla, stendermi e dormire, solo dormire, essere pieno di quel liquido greve che mi avrebbe ingombrato, mi avrebbe schiacciato per terra e non mi avrebbe lasciato più muovere...

Camilla arrivò dietro di me con la sua giacca per ripararmi: glielo impedii.

C'era un po' di gente sparpagliata qua e là, intorno al luogo dell'incidente...soccorritori, poliziotti e curiosi...

L'ambulanza non se ne voleva ancora andare via, la sua sirena stava zitta e mi costringeva ad ascoltare solo lo scroscio d'acqua sulla strada...sulla mia testa...incessante...incessante...

Sentii la voce di un tizio che parlava ad un poliziotto, un giovane con gli occhi un po' languidi, alto e lungo. Disse - Si chiamava Filippo Scizio, aveva venticinque anni - .

Venticinque anni...

Guardai il riflesso dei fanali specchiarsi nelle pozze: tra auto e lampioni c'era luce dovunque, luce a giorno, innaturale, ne rimanevo abbagliato e non vedevo quasi nulla...O forse era quel velo d'acqua che si era steso sui miei occhiali? Avrei dovuto muovere le braccia - le braccia che stavano inerti lungo i fianchi, paralizzate - per pulirli...tirare fuori dalla tasca il fazzoletto...

...Pensai ai miei fazzoletti...Pensai a poche ore prima, che non pioveva, che l'aria era fresca e Filippo mi stava salutando sul portone dell'ufficio...

Barcollai. Mi accorsi che le gambe si erano intorpidite e non riuscivano più a tenermi in piedi, le orecchie ronzavano come assalite da uno stormo di zanzare, e intanto la tachicardia si stava sprigionando tutta insieme e mi sembrava che l'aria non mi arrivasse ai polmoni...

Ebbi paura: chiesi aiuto, mi misi a gridare che stavo male, che stavo soffocando, ma la voce uscì fuori come un sussurro sottile, impercettibile...

...Non vedevo più niente...

Qualcuno alle spalle mi sorresse, e mi stese piano per terra. Sentii la mia mano che affondava in una pozza, mentre un uomo mi teneva il polso dell'altra e ripeteva - Su, su, Mattia, coraggio...non è niente, respira, stai calmo... -

Sentii anche la voce di Milly che mi chiamava Dido, cercai di riaprire gli occhi per vederla ma non mi riuscì. Per cui li tenni chiusi, stretti, sempre più stretti, e mi abbandonai a quello strano torpore che forse era provvidenziale, che forse mi avrebbe salvato...

 

Mi svegliai stordito di primo mattino, in una stanzetta linda con una luce grigiastra ma intensa, tagliata a spicchi dalle tende su tutte le pareti. Le ante della finestra erano semi aperte e da là proveniva uno spiffero gelido che mi aveva intorpidito il braccio rimasto fuori dalla coperta.

Mi ci volle un po' per rimettere insieme l'accaduto, avevo la testa confusa e le orecchie fischiavano ancora. Vidi sul comodino una mascherina a ossigeno ed ebbi un sussulto al ricordo dello spavento provato, quasi mi mancava il fiato di nuovo, avevo davvero temuto chissà che cosa...Ma, in fondo, che cosa sarebbe potuto accadermi?

Morire anche io?

...Avevo paura della morte, ma forse a spaventarmi era sempre stato piuttosto il suo pensiero, quel pensiero: che potesse portarsi via le persone di cui avevo bisogno, che senza di loro non ci fosse proseguo, non ci fosse vita.

Che Filippo se ne era andato davvero.

Che quella era davvero una Fine.

Bussarono alla porta: era Camilla.

Io mi ero già sollevato a sedere sul letto e mi alzai per andarle incontro. Ci abbracciammo senza una parola, zitti come se il nome di Filippo fosse impronunciabile, fosse una specie di tabù. Le chiesi invece degli altri, di Rino, le confidai le mie preoccupazioni riguardo alla salute e lei mi riferì che i medici volevano tenermi sotto osservazione per qualche giorno.

Quando se ne fu andata mi rimase solo l'amaro di quella naturalezza indifferente, da cui mi sollevò quasi subito l'arrivo di un medico, con la sua brava cartella clinica sotto braccio e il camice bianco, che se non altro - pensai - mi avrebbe obbligato a rispondere a domande tecniche e di routine su malattie passate e presenti senza che io potessi provarne frustrazione. E poi era liberatorio sentirsi trattare da malati, il male rendeva tutto più tollerabile, attenuava la consapevolezza di quel che era successo e i sensi di colpa - se c'erano, se c'era motivo che ce ne fossero, se mai fosse vero che si provano sempre e comunque, di fronte alla morte..

- Ha mai sofferto di attacchi di panico, signor Loira? -

Il dottore era seduto su un panchetto a tre piedi vicino al bordo del letto su cui me ne stavo inerte, gambe penzoloni e schiena curva verso di lui.

- No - risposi - E non mi era mai capitata una cosa del genere. Ma la tachicardia, quella sì. Ce l'ho da quando sono entrato alle superiori... -

- Che tipo di tachicardia? Battiti irregolari o solamente accelerati? -

- Entrambi. A volte ho il classico "tuffo al cuore". Mi sveglia anche di notte. -

- Si è mai sottoposto a delle analisi? -

- No, mai -

Rimasi tutto il giorno in ospedale per una serie di accertamenti: fui sballottato continuamente da una saletta all'altra, non mi diedero alcun tempo, sul momento, di pensare.

- Il suo cuore non ha nulla - credette di rincuorarmi il dottore - ma lei soffre di una forma di ansia, signor Loira. Dovrebbe - (la frase di rito) - tenerla sotto controllo... -

- Avrei bisogno di uno psicologo, non di un medico, lo so... - ammisi

- Lei ha bisogno anche di un medico - mi sorrise, cordiale - affinché la persuada di essere perfettamente sano -

Fui tentato di dirgli che avrei preferito scoprire di essere malato, invece: ma in fondo era una cosa inutile...In fondo io sapevo benissimo quale fosse stato il motivo del mio malessere, lo sapevo dal momento stesso che avevo perso i sensi, come una donnicciola, sulla strada, abbagliato dalle luci riflesse nelle pozze - anche lui, certo, doveva saperlo.

- Lei conosceva bene Filippo Scizio? - chiese, con una nota di partecipazione

- Si - risposi, assente - era il mio migliore amico... -

Volevano trattenermi un giorno ancora per ulteriori analisi: rifutai, e firmai per uscire. Lo sentii come atto di coraggio, ne avevo bisogno, volevo sentirmi forte, convincermi che sarei stato in grado di superare il dolore che mi aspettava...

Mi riportò a casa Cianetti, in macchina. Fu molto, molto premuroso e gentile. Ma anche con lui, della disgrazia non facemmo parola.

 

"Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero, per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l'abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica, e non si è sofferto"...

Ricordavo di aver sentito quello stato d'animo appena lettolo, molto tempo prima, molto prima che esistesse, per me. E così anche in quel momento non fui capace di risparmiarmi di fare i conti con la letteratura, o di avere un pensiero che fosse soltanto mio.

Fu per questo che accettai di suonare l'adagio di Albinoni al funerale: per rompere una catena, per non negarmi fino alla fine il diritto al dolore vero.

In realtà, all'inizio, quando i membri dello staff me lo avevano chiesto, avevo rifiutato. Poi credo che a persuadermi ci si mise di mezzo proprio Filippo. Incredibile - mi dicevo - mi perseguitava anche ora, come quando andava via e la minaccia della sua assenza mi costringeva a dire sempre si, ad accondiscendere alla sua volontà con la stessa rassegnazione in fondo soddisfatta con cui, in sua presenza, mi fingevo condannato all'obbedienza e volentieri, passo passo, gli andavo dietro.

Sperai di non commuovermi, avevo paura che se fossi scoppiato a piangere non sarei riuscito più nemmeno a leggere le note sullo spartito.

Invece, piansi dall'inizio alla fine, non lessi niente di niente, e scoprii di conoscere il pezzo a memoria, e di essere persino capace di improvvisare a orecchio laddove non ricordavo.

Ripensai a tutte le volte che Filippo mi aveva spinto a sedere al suo pianoforte e aveva insistito perché gli suonassi quell'adagio lì, sempre quello. Naturale che dovevo averlo imparato, alla fine...

Che strano, però...non me ne ero mai accorto, e pensare che avrei potuto sbalordirlo con una prestazione mnemonica straordinaria, come la prima volta che, a casa sua, avevo strimpellato Pachelbell...

Ma no...Filippo non si stupiva: Filippo diceva "bravo, complimenti", così, francamente e senza problemi...Ero io quello che restava a bocca aperta, che si sorprendeva sempre, che amava guardare e ammirare, senza essere capace di dire niente...Anche in quella situazione sarebbe stato diverso, se fosse stato me: certo non avrebbe suonato coi lucciconi agli occhi e Camilla accanto che cercava di asciugarmeli perché non mi si appannassero gli occhiali...Avrebbe trovato qualcosa da dire: avrebbe trovato parole grandi per me...sarebbe stato assoluto, totale, solenne...

Era un terribile scherzo del destino. Lui per me era sempre stato tutto ciò a cui avrei voluto somigliare: lui era la solarità, lo scatto, l'energia, la luce abbagliante cui non ci si può sottrarre, lui era la guida, il punto di riferimento...e nulla di tutto questo aveva mai avuto occasione di sentirsi dire da me! Era capitato semmai il contrario: era capitato che fosse lui a far complimenti, schietto e spontaneo com'era sia nell'amare che nell'odiare...quando di sicuro, se fossi stato sincero io, avrei potuto tessere per ore le sue lodi, senza bisogno di sporadici momenti di intimità e confidenza. E magari lui, invece di insuperbirsi più di quanto non fosse già pieno di sé, avrebbe potuto pensare che quel suo vicino di casa che parla sottovoce e non sa stringere la mano, non dicesse così perché aveva scarsa personalità e si sentiva inferiore, ma solo perché gli voleva molto bene.

...E io, gli avevo davvero voluto bene?

...Ma si può gioire e soffrire per un anno intero a causa di una persona senza voler bene?

 

Uscii dalla chiesa tra i primi, respirai un po' di silenzio e di cielo grigio, e poi vidi Alberto, in piedi vicino al cancello, vestito di scuro, con la cravatta lucida stretta intorno al collo, i capelli un po' increspati dall'umidità che parevano più del solito spruzzati di borotalco. Elodì, poco distante, era appoggiata alla ringhiera, la sua testolina bionda stava china sul lastricato, sulle pieghe morbide della gonna all‘antica.

Alberto venne verso di me ed io, che mi ero appena calmato, ebbi di nuovo una gran voglia di piangere: gli andai incontro e lo abbracciai forte, nascondendo la faccia sulla sua spalla e prendendo a singhiozzare così forte, che lui si vide costretto a bisbigliare una frase di circostanza che forse avrebbe volentieri sostituito con un rispettoso silenzio - Su Mattia, non piangere... -

Mi carezzò anche sulla testa, con un gesto affettuoso, quasi impercettibile, e insolito, da parte sua, considerato che era abituato a trattarmi come un intellettuale di prestigio piuttosto che come un giovane di vent'anni che avrebbe potuto essere suo figlio.

Credo apprezzai quella dolcezza proprio perché veniva da lui, che, chissà come, avvertivo essere l'unica persona a pensare quel che pensavo, a sentire quel che sentivo lì, in quel frangente; se a fare lo stesso fosse stato Cianetti, o anche Camilla, o addirittura Rino, probabilmente mi avrebbe solo infastidito.

Alberto no, invece...Di Alberto avevo bisogno.

Guardai la sua faccia dimessa, due occhi un po' incavati e una profonda ruga che accompagnava il suo mezzo sorriso consolatorio partendo dal labbro fino alla narice corrispondente, che per una volta irrideva, cattiva, alla sua figura di adulto mai invecchiato, abusiva in quel volto giovanile e sempre tanto giocondo.

Non mi sarei mai immaginato, se non fosse capitato disgraziatamente di doverlo vedere, un Alberto D'orsi rassegnato e sofferente, toccato dal segno del tempo.

Questo - mi dissi - con Filippo non sarebbe mai successo. Questo almeno la morte aveva portato (inutile corollario a tutte le "fini definitive"): che Filippo Scizio ora sarebbe rimasto per sempre il giovane sicuro e entusiasta, aggressivo e mai arrendevole che avevo conosciuto, e che l'ultimo giorno della sua vita (ahi, la mia dannata attenzione alle date!) aveva riso in faccia a me e alle mie domande pseudo-filosofiche esclamando trionfante e con noncuranza "Non ci ho mai pensato".

 

Non ci aveva mai pensato. Non ci aveva mai pensato e io invece ci pensavo sempre. E ora lui non c'era più, e io invece sì, lì, solo, nella mia stanza che dava sulla strada e sulla sua finestra, in compagnia di quella folla di pensieri inutili.

Chissà dov'era, chissà se c'era un aldilà da cui potesse affacciarsi per sentirmi, chissà se c'era anche Dio, quel dio in cui forse avevo creduto quand'ero più piccolo, e con che criterio sceglieva chi doveva rimanere e chi se ne doveva andare.

Erano pensieri così stupidi, così banali che c'era da vergognarsi a riempirci pagine d'agenda, ma io lo feci lo stesso: volli sempre, giorno dopo giorno, che ingombrassero bene non solo quelle pagine ma anche la mia testa. Era bello, era bene attaccarsi a questo frasario, a queste domande scontate, a quegli assurdi sensi di colpa, a quegli interrogativi futili del tipo "perché lui non io", perché se avessi smesso di pensare, se avessi fatto come diceva lui, allora fuori da quei pensieri sarebbe finito tutto davvero, avrei trovato il vuoto, ed avevo tanta paura di sentire che sensazione dava.

Fu così che passai dicembre, senza vedere più nessuno tranne Camilla e Alberto, che aveva voluto rimanere per un po' di tempo qui, credo per farmi compagnia, magari invitato dalla stessa empatia che avvertivo io nei suoi confronti.

Con Rino, dopo l'incidente non ci eravamo scambiati altre parole che le due frasette di saluto con cui discretamente s'accomiatò da noi partendo per il "suo" posto - Non pensavo ci sarei tornato così presto. Ma ho bisogno di star...solo - e scandì una ad una quelle quattro lettere - Mi farò sentire presto -

Anche a me sarebbe piaciuto partire, sparire per un po' da quella città dove ogni angolo, ogni incontro, persino lo sguardo sconosciuto di un passante che camminava troppo sicuro, con la fronte troppo alta e assolata sui nostri marciapiedi, erano un ricordo: mi trattennero la presenza di Alberto, l'illusione di poter combinare ancora qualcosa per l'università prima della fatidica scadenza di gennaio, le condizioni economiche e il fatto che a casa mia, tra gente estranea a tutto ciò che mi era successo in quell'anno infinito, non volessi proprio tornare.

Ma al di là di questo, o sopra a questo, sopra a tutto il resto, c'era anche un altro motivo che mi impediva di allontanarmi da lì, un motivo che in principio non aveva avuto voce in capitolo, e che invece con il passare del tempo e il sostituirsi del dolore vero e proprio con stati di lenta apatia, aveva cominciato a imporsi alla mia attenzione in maniera pressante: Mauro Nissori, con la sua Lefis e le sue minacce.

Non avevo intenzione di continuare a tenere i piedi dentro un film, e tutte le volte che l'idea si intrufolava tra le altre cercavo di convincermi che fossero solo pericolose bizzarrie messe in moto da una fantasia resa fervida dalla troppa tensione, o dalla mia voglia di darmi delle risposte e di trovare dei capri espiatori al destino: eppure proprio non riuscivo, per quanto mi sforzassi, a non collegare l'incidente di Filippo a ciò che lui in persona mi aveva confidato proprio la sera prima. Mi dissi anche che doveva trattarsi di una strategia difensiva del mio cervello volta a costruire una realtà parallela complicatissima da sostituire a quella vera, e che, proprio in virtù della sua inverosimiglianza, mi avrebbe fatto soffrire meno; ma più passavano i giorni, più avrei desideravo mettere qualcuno a parte di tutto questo, senza trovarne il coraggio.

Intanto era quasi Natale, le vie della città illuminate erano belle come l'anno prima: atmosfera di festa e gente piena di pacchetti...i negozi aperti la domenica pomeriggio...

Per me, quell'anno, di vacanze non si sarebbe parlato. Non riuscivo a concepire l'idea del riposo nel mezzo d'un lungo periodo di insana apatia. Festa o non festa, così stavano le cose: nulla sarebbe cambiato. Era ormai almeno un mese che non godevo più dei salutari stacchi dalla fatica, perché non conoscevo più i ritmi canonici di alternanza tra riposo e lavoro.

Tutto era scombussolato: la morte di Filippo aveva distrutto all'improvviso anche gli schemi in cui si divideva e diveniva gestibile la mia vita.

Avevo avuto sempre bisogno di schemi: gli ultimi, però, potevo davvero dire che li avesse creati lui, come aveva modellato a suo arbitrio, me non invitus, molte altre cose, e lo aveva fatto così bene, con tal sottigliezza, che non riuscivo a rendermi conto che, in fondo, erano relativamente vicini i tempi in cui la mia esistenza aveva funzionato diversamente.

Lontanissimi, purtroppo, cominciavano ad apparirmi invece gli ultimi mesi divisi con Filippo: presente c'era solo quel Natale senza ferie, irrisione crudele alla mia venerazione per le grandi ricorrenze, e la domanda se ci fosse ancora spazio per salvare qualcosa, per far sì che, passata quella parentesi, superato il trauma - io pacificamente assopito nei ritmi di un equilibrio nuovo - non mi restasse davvero solo questo: che Filippo non c'era più, che era sparito per sempre dalla mia vita senza che fosse cambiato niente.

 

Il "Cambio Rotta" aveva sospeso le pubblicazioni e persino gli incontri della redazione: in luogo del numero di dicembre era stato stampato un fascicoletto commemorativo con una foto di Filippo seduto alla scrivania, scattata due anni prima che lo conoscessi quando - mi raccontò Cianetti - erano tutti pieni d'entusiasmo all'idea di fondare una rivista, entusiasmo che poi solo Filippo aveva mantenuto fino alla fine.

Sull'ultima delle quattro scarne facciate si avvertivano i gentili lettori che il "Cambio Rotta" avrebbe cessato per il momento di uscire causa "scomparsa del direttore" che ancora veniva elogiato con parolone di cordoglio che neppure lui, qual superbone convinto che era, avrebbe osato riferire a se stesso senza provar vergogna.

Quanto all'esitante "per il momento", tutti sapevano bene che si sarebbe trattato di un momento permanente.

Anche il processo, ovviamente, saltò: Nissori si mise in contatto telefonico niente meno che con me, si rammaricò del "disgraziato caso" e mi annunciò che "venuta meno la ragione del diverbio" né lui né la Lefis (onestissime persone!) avevano intenzione di "infierire" sui "reduci del Cambio rotta", e, anzi, personalmente si augurava che un "tanto valido strumento al servizio della cultura" riprendesse presto la sua attività.

Io gli risposi con freddezza, quasi con un pizzico di cattiveria, e conclusi invitandolo a non farsi sentire mai più. E anche per tutto il tempo di quella telefonata non riuscii per un attimo a separare quella voce insopportabile con quanto era successo, quasi che la stessa voce volesse smentire una colpa, e testimoniasse come la Lefis avesse un ruolo di primo piano in quella tragedia paradossale.

...Ma perché? - Mi domandavo - Era per caso preferibile convincermi che Filippo fosse morto per un banale danno ecologico, per un fottuto processo, per scelta di altri uomini piuttosto che per il volere di un destino più grande, di un'oscura, sconfinata fatalità?

No, non era preferibile: era una fine molto meno sublimata, molto meno dignitosa, e, a pensarci, non era neppure eroica...ma sarebbe stata senz'altro quella che Filippo avrebbe scelto per sé: morire per un'idea, per la sua idea. E in fondo, cosa di più romantico, di più adatto a lui, di più coraggioso poteva esserci che andare incontro alla morte "lottando per qualcosa"? Più me lo ripetevo, e meno mi parevano inverosimili i miei pensieri, anche se sapevo che questo avrebbe portato con sé una conseguenza inevitabile, alla quale sempre più cominciavo ad accorgermi di non potermi sottrarre: che l'assenza di Filippo mi avrebbe condannato ad averlo presente per sempre, e mi avrebbe costretto ad agire in ogni occasione come mi avrebbe imposto lui, nello stesso modo in cui mi aveva "convinto" a suonare al suo funerale.

Non mi ero mai ribellato alle sue scelte e ora non potevo farlo più.

Era quasi buffo: Filippo che nella vita - e nel nostro rapporto - si era improvvisato mille cose, pubblicista, amministratore, critico letterario e musicale, meteorologo, psicanalista e persino investigatore, era stato prima di tutto, nei miei confronti, un veggente, la sera che, all'università, mi aveva minacciato citando Orazio: "Usque tenebo, persequar"...

Ora davvero mi avrebbe “tenuto fino all'ultimo“, mi avrebbe “perseguitato“.

Lui era la strada segnata, era quello che sarebbe stata la mia vita da quel momento in poi.

Ma, alla fin fine, non era ciò che avevo sempre voluto, camminare spedito a testa alta, per le vie dritte, insieme a Filippo?

Ma mano che me ne convincevo, e il "cammino intrapreso" diventava finalmente sensato, finalizzato - persino - a tutto questo, cominciavo anche a chiedermi se fosse stato giusto o meno sopprimere il "Cambio Rotta" senza neppure lasciargli una chance di sopravvivenza. Il padre di Filippo aveva fatto sapere che il figlio teneva talmente tanto a quella sua rivistina che volentieri ci avrebbe finanziato ("Oh, naturalmente non dovete sentirvi obbligati!"), se solo avessimo voluto continuare, e anche Alberto aveva provato a farmi presente che Filippo sarebbe stato felice che la sua "grande impresa" non fosse cessata con lui, ma visto come mi ero mostrato elusivo in proposito, non aveva osato insistere.

Per tutto il tempo che rimase qui, non gli confidai niente, né cosa pensassero Cianetti e gli altri, né io che intenzioni avessi.

Anche perché ancora non ne avevo...

Ma il giorno prima della sua partenza, mi arrivò una cartolina di Rino (non si era "fatto vivo presto" - come invece aveva garantito - ma per via di quella nostra intesa quasi telepatica l'avevo capito fin dal principio): era una foto di un bellissimo paesaggio sbattuto dal vento, accompagnato sul retro da poche righe delle sue, sgangherate, quasi spezzate in versi, scarne e spigolose:

"Un giorno mi dicesti che la vita era triste, ed io ero così impegnato a pensare quanto lo fosse la mia che non avevo mai pensato che con la sola presenza si potesse rendere un po' meno triste quella degli altri. Ed ora che Filippo non c'è più mi sembra quasi impossibile...Non è giusto, vero?"

Seppi solo più tardi come queste parole avessero un riferimento concreto, cui Rino volutamente non accennò, ma quel giorno, messe lì così, dietro quel vento di tempesta che pareva proprio rispecchiare il paesaggio che vedevo dalla mia finestra - pioggia e grandine tormentosi di gennaio - sembrava un Monitum ("che vien dagli dei per ammonire", diceva nel mio aprile solare il professore di latino) rivolto esplicitamente a me.

Ed in effetti, ora che mi ci faceva pensare: no, non era affatto giusto. E per fortuna non era neanche impossibile.

 

Nel pomeriggio Alberto ed io uscimmo. Avevamo deciso di passeggiare tutto il giorno senza meta 'armati' solo di ombrelli e di biglietti dell'autobus. Gli avevo detto che quella giornata di pioggia battente e intensamente profumata di asfalto annaffiato mi pareva avesse un misterioso potere catartico.

Capitava spesso che il mio umore si adattasse al tempo, ma in quell'occasione credo fu il tempo ad adeguarsi al mio stato d'animo, e non viceversa. E volevo proprio sfruttare quell'insperata coincidenza.

Del resto, già dal mattino, di punto in bianco, mi ero detto che dovevo essere capace di regalarmi una giornata che fungesse da frontiera tra due periodi attigui ma diversi. In fondo era trascorso più di un mese, l'indomani Alberto se ne sarebbe andato, forse al suo posto sarebbe tornato Rino, di lì ad una settimana si apriva il primo appello, e poi sarebbero ricominciati i corsi: a quel punto non sarebbe stato più possibile continuare a rimandare il rientro nella vita consueta.

Così scelsi quel giorno, che, a prescindere dalla retorica o dalla troppo insistita attenzione agli eventi, penso di poter ricordare come uno dei più importanti della mia vita, un po' perché lo volli, un po' perché successe.

Alberto, come sempre, aveva preso su di sé la mia stranezza, e si mostrava entusiasta come se fosse stata un'idea sua. Salimmo sul 17 C ed arrivammo fino al capolinea: mi ero spesso proposto di percorrere il tragitto da un capolinea all'altro, una volta, ma fino ad allora non mi ero ancora sentito in diritto di concedermi quella perdita di tempo.

Gran danno - mi dissi - non me ne era venuto: il posto non era certo granché...Niente di niente tranne due tristi viali, sotto tristi alberi, strapazzati da grigia pioggia, al lato dei quali scorreva un Arno d'un brutto colore marrone verdastro, gonfio per gli acquazzoni dell'ultimo mese...insomma, una desolazione totale.

Ma faceva lo stesso: per passeggiare così, sotto la pioggia, un posto valeva l'altro...anzi, a ben pensarci, quasi quasi quella sorta di scenario da "discesa agli inferi" poteva sembrare scelto apposta...

- Non sembra nemmeno lo stesso Arno che scorre tanto pacifico sotto Ponte Vecchio - disse Alberto

- Già, proprio per niente -

Ci infilammo nei sentieri sotto gli alberi, con le scarpe che affondavano nel fango: l'odore di umido mi scese fin nei polmoni e mi diede una strana sensazione di sollievo...sollievo, soprattutto, da quel nuovo malanno - l'ansia che mozza il fiato - che s'era da un po' crudelmente aggiunto alla mia tachicardia, e a cui non desideravo finire con l'affezionarmi, così come era accaduto per quest'ultima.

Ma respiravo bene quel giorno. Le chiome degli alberi intrecciate in reti ossute sopra di noi sembravano un pergolato impermeabile, che lasciava passare solo pochi schizzi delle secchiate d'acqua che si rovesciavano a scroscio, solo poco prima, sui nostri ombrelli; sentivo forte il rumore di grosse gocce che si rompevano sull'asfalto lì accanto: mi ricordai della prima volta che mi ero stupito di come potessero essere grosse le gocce, un giorno che le avevo viste dipingere a enormi pois il selciato polveroso davanti casa.

Era la stessa sensazione di freschezza, lo stesso benessere, anche se sapevo che sul viale attiguo s'offriva uno spettacolo ben diverso: un secondo fiume sporco che scivola su ghiaia e asfalto neri; sull'altro lato dell'argine macchine frettolose a tergicristalli sguainati e fanali accesi per difendersi da tutto quel grigiore...all'imbrunire lampioni irreggimentati a ugual distanza a evidenziare invernalmente coni lucidi di pioggia...

L'Arno sciabordava rumoroso alla nostra sinistra, e a destra c'era silenzio, tranne il tic tic delle poche gocce che arrivavano sui nostri ombrelli, finché non arrivammo in una piazzetta aperta, di nuovo in balia di un acquazzone sempre più violento.

- Dove siamo? - chiese Alberto.

- Non lo so - dissi, e lo precedetti ad osservare, da un parapetto, il fiume che si rovesciava in una cascata di spuma bianca in netto contrasto con quel colore sempre più marrone, sempre più fangoso.

Poi mi guardai intorno e detti in un “Ah!“ di scoperta, scorgendo la strada sopraelevata che passava poco distante di lì

- Siamo al viadotto dell‘Indiano! Se troviamo il modo di arrivare lassù torniamo indietro con il 5! - e sorrisi, come se stessi parlando di un'eventuale grande emozione - Sai, non ci sono mai salito! -

- Sul viadotto? -

- No. Sul 5! -

Passammo un ponticino, ci inoltrammo in stradicciole sterrate sconosciute, e arrivammo ad una pensilina pedonale proprio al di sotto della strada sopraelevata. Lì ci fermammo, al riparo dalla pioggia, e, a tratti, anche dal suo rumorino nervoso, ogni volta che una macchina sfrecciava veloce sopra la nostra testa e rovesciava giù dal ponte schizzi e confusione.

L'Arno, però, non taceva un istante col suo gorgoglio continuo: là sotto il flusso della cascata si annodava in ghirigori contorti, e dall'alto lo vedevamo arrotolarsi su se stesso e poi sciogliersi, trascinando con sé tronchi, erba, bottiglie vuote e altri rifiuti di vario genere e natura.

Eppure trovavo gradevole quella pensilina, così incerta e sospesa tra un fangoso largo fiume e un imponente viadotto trafficato.

Avevamo chiuso gli ombrelli, e il mio, che dondolava appeso al manico di corda infilato al polso, mi aveva bagnato una gamba fino quasi al ginocchio.

S'era chiacchierato talmente tanto durante il tragitto che ora stavamo zitti e io mi lasciavo frustare le mani dal freddo, tenendole parallele, ben serrate, sulla ringhiera del ponticello....

...Da quanti giorni pioveva?

Ancora una volta avevo perso il conto, ma tutta quell'acqua mi aveva davvero gonfiato la testa e la sentivo pulsare come un martello tra la fronte e il naso quando chinavo il capo verso il basso.

- Mattia - disse Alberto - tu l'hai mai visto quel film con Robin Williams...quello dove citano sempre Whalt Whitman? -

- L'attimo fuggente? - azzardai

- Ecco, bravo, quello lì...Sai, io non posso dire che Whitman sia proprio il mio poeta, ma mi ha sempre incuriosito quel discorso del "barbarico yawp" che risuona "sui tetti del mondo"...A quanto ho capito dovrebbe essere una sorta di grido liberatorio, o di ribellione, che so...e mi domandavo se funzionasse davvero, se non possa essere salutare, per esempio, adesso, scagliare un bello yawp a viva voce giù nell'Arno - ridacchiò - scusa, sai...ma l'unica volta che ho pensato di provare a gridarne uno per la rampa delle scale, un giorno che mi era andato tutto a rovescio, Elodì mi minacciò che se avessi svegliato la bambina mi avrebbe torto il collo! -

Risi anch'io

- Se è una richiesta, tranquillo: non ho figli che dormono! -

- Sicuro? -

- Fidati! -

Tossì due o tre volte, si schiarì la voce, finse di gonfiare il petto in un poderoso respiro e poi, sporgendosi pericolosamente dalla pensilina, facendo leva su ambo le braccia, cacciò un grido lungo che più che uno yawp poteva suonare come uno strascicato "oohh!!", ma che, amplificato dalla volta del viadotto, vibrò echeggiando da ogni parte

- Alla faccia, che voce! -

- Molto virtuoso vero?...Forse un giorno mi si apriranno le porte della lirica!...Comunque è stato molto bello -

- Ah si? -

- Provati! -

- No, grazie. Whitman non è nemmeno il mio poeta! -

- Beh, ma potremmo inserire una modifica, e invece di gridare suoni senza senso potremmo buttare giù in Arno tutte le cose o persone che ci restano sullo stomaco! -

- E magari con una pietra al collo per affogarle? -

- Perché no? -

- Te che ci butteresti? -

- Vediamo... -

Esitò un attimo, poi prese di nuovo fiato, urlò contro vento

- Gli straordinari di domenica!!! -

Scoppiai a ridere all'idea che il primo desiderio di Alberto potesse veramente essere il liberarsi di qualche ora di lavoro straordinario, ma il gioco cominciava a coinvolgermi, e lo imitai

- Va bene - dissi - sta a me - e, raccolta la voce, sollevando l'ombrello al cielo come uno stendardo, esclamai:

- l'esame di letteratura! -

Alberto non mi lasciò neanche finire

- le pellicole bruciate! -

E io, a ruota

- la bolletta del telefono! -

- le scale quando sei stanco! -

- L'umidità di Firenze! -

- La nebbia di Torino! -

- Rino quando vuol farmi correre! -

- E i colleghi che mi chiamano alle sette del mattino! -

- L'inverno! -

- La fatica! -

- La timidezza! -

- La tristezza! -

- Mauro Nissori! -

- E anche la sua Lefis! -

Quest'aggiunta complice mi fece sorridere

- Senti Alberto - chiesi - che pensi direbbe Filippo se sentisse queste scemenze? -

- Penso - mi rispose tra il solenne e l'affettuoso - che ci chiamerebbe lamentevoli, e ci direbbe che lui, al nostro posto, non avrebbe pensato alle cose da buttare via ma alle cose da salvare -

- E tu...cosa salveresti? -

- Io avrei salvato lui. Salverei la mia famiglia, mia moglie, mia figlia, i miei genitori, e salverei te, e tutte le persone a cui tengo... -

Sorrise

- E' naturale no? E te? -

- Anch'io... - mormorai, meditabondo - Anch'io, certo...E poi...salverei anche il "Cambio Rotta" -

Mi era venuta voglia di dirlo all'improvviso, anche se già da qualche giorno me lo chiedevo: ma lì, quella sera, in quella strana situazione, mi pareva di avere miracolosamente a disposizione uno di quegli attimi che sono fatti per le decisioni importanti, in cui tutto pare chiaro come il sole.

Alberto annuì, senza parlare, e tutto per qualche minuto fu in silenzio, anche il viadotto, assopito in una breve tregua con le ruote della vetture in corsa.

Se non fossi scettico di fronte alle rivelazioni improvvise e alle grandi formule di salvazione, potrei affermare che per me in quel piccolo spazio di tempo successe qualcosa. Invece, probabilmente fu solo il normale chiudersi di un processo, di una sorta di itinerario di formazione, il naturale maturarsi delle esperienze di un intensissimo anno di vita.

Sia come si vuole, mi piacque convincermi - allora come oggi - che, se un "punto e a capo" doveva esserci, quello avrebbe dovuto collocarsi lì.

E poi ventun anni erano così pochi per decidere della propria vita?

Prima ancora che me ne rendessi conto un mio pensiero si era già materializzato in parole: "Son proprio stupido" avevo detto, e Alberto si era voltato a guardarmi, stupito.

Io, sfuggendo l'imbarazzo, lo fissai a mia volta, e, con il timbro di voce di chi sta per compiere un'impresa importante, e grande, e inaspettata...

- Alberto - chiesi - come si fa per fare una denuncia? -

 

La catena telefonica aveva funzionato molto bene perché c'erano proprio tutti, tranne Rino, ad attendermi nella sala delle riunioni. Il mio esordio dev'esser stato del tipo "ci ho pensato molto", perché ricordo che m'aspettavo di sentirmi chiedere "a cosa?" e invece nessuno disse nulla. E poi neppure era vero, ci avevo pensato poco o niente: questa volta avevo agito d'istinto sul serio, ero impazzito, ero finito fuori dal tempo una volta per tutte, e più di quanto fossi sempre stato quando affondavo il naso tra i miei libri e mi scordavo del mondo.

Era cambiato tutto davvero: ora sapevo che da quando avevo conosciuto Filippo la mia vita aveva realmente "cambiato rotta", ed ora, senza lui, non poteva più cambiarla di nuovo.

- Ci ho pensato molto - ripetei - e credo che dovremmo continuare la pubblicazione del "Cambio Rotta". Filippo sarebbe stato...molto contento...Penso che avrebbe detto che, ci fosse o meno lui, la rivista avrebbe dovuto sempre uscire tassativamente... -

Non ci fu bisogno di insistere molto: pareva che la mia proposta non avesse fatto altro che dar voce a quella che era l'esigenza di tutti. Le questioni tecniche furono messe a punto sbrigativamente e fissammo già una riunione per il mattino successivo.

- C'è un'altra cosa che devo dirvi - aggiunsi però io, serio, quasi solenne, e tacqui per aspettare che tutti gli sguardi fossero concentrati su di me - Ho sporto denuncia contro la Lefis. L'ho accusata di smaltimento non autorizzato di sostanze tossiche. -

  
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