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Autore: Hotaru_Tomoe    22/10/2012    17 recensioni
Raccolta di oneshot ispirate dalle fanart o prompt che ho trovato in rete su questa bellissima serie. Per lo più Johnlock centriche, con probabile presenza di slash.
Aggiunta la storia I'll be home for Christmas:Sherlock è lontano da casa per una missione, ma durante questo periodo il legame con John si rinforza. John gli chiede di tornare a casa per Natale, riuscirà Sherlock ad accontentarlo?
Questa storia, in versione inglese, partecipa alla H.I.A.T.U.S. Johnlock challenge di dicembre.
Genere: Angst, Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fanfiction nata per essere una fluff di "coccole sotto al piumone" e diventata strada facendo una emotional hurt/comfort. Il tutto ispirato da un disegno di Reapersun.


IL RIFUGIO



Ha pure un suo nido il mio cuore
sospeso nel buio, una voce;
sta pure in ascolto, la notte.
(Salvatore Quasimodo - Rifugio d'uccelli notturni)



Normalmente dormivano in camera di Sherlock: era più spaziosa e moderatamente ordinata rispetto al resto dell'appartamento; senza che mai ne avessero discusso, in breve tempo quella era diventata la loro camera.
La stanza al piano di sopra si era lentamente ma inesorabilmente trasformata in un deposito sherlockiano di prove, fotografie, ritagli di giornale e faldoni di vecchi casi. John l'aveva lasciato fare, perché cercare di arginare la sindrome da archiviazione del consulente investigativo era una lotta contro i mulini a vento.
Tuttavia ogni tanto l'ex soldato dormiva ancora in quella stanza, perché c'erano notti in cui Sherlock non riposava affatto e camminava avanti e indietro nella loro camera da letto, parlando tra sé ad alta voce, sfogliando libri e prendendo appunti su ogni superficie disponibile, pareti comprese, e John ne era troppo disturbato per prendere sonno.
C'erano volte in cui lui e Sherlock litigavano seriamente, per qualche uscita infelice del suo compagno o perché lo stesso aveva corso rischi folli durante un inseguimento e John aveva bisogno di calmarsi. Si conosceva bene e non voleva che una parola avventata dettata dalla rabbia del momento finisse per compromettere per sempre ciò che più di prezioso aveva al mondo. Il giorno seguente era tutto dimenticato, specie se Sherlock, sapendo di averla combinata grossa, lo abbracciava col viso sepolto nel suo collo, mormorando "Scusami, John."
E poi c'erano volte in cui John era terribilmente depresso e si rinchiudeva in se stesso, come quel giorno, a causa di una giornata cominciata malissimo e finita ancora peggio. Una volta tanto, però, Sherlock non c'entrava.
Quella mattina all'ambulatorio aveva dovuto comunicare i risultati della biopsia ad una sua paziente alla quale si era affezionato nel corso degli anni, una loquace e simpatica venticinquenne che doveva sposarsi l'estate successiva e che invece, probabilmente, non sarebbe arrivata alla fine dell'anno. Nonostante la guerra e il suo corredo di morte e tutti i corsi di supporto psicologico che aveva frequentato, comunicare notizie dolorose era un aspetto della sua professione che odiava e al quale non si sarebbe mai abituato.
Incredula, la ragazza lo aveva guardato come se non riuscisse a comprendere le sue parole, scuotendo appena il capo con aria assente e confusa, perché no, non poteva succedere a lei, no davvero, non in quel momento: stava per sposarsi, lei e il suo ragazzo avevano già spedito gli inviti.
Poi, improvvisamente, si era aggrappata al suo camice urlando "No, no, no, dottor Watson. No, la prego. Lapregolapregolaprego."
Il panico era dilagato in quegli occhi nocciola e quando John aveva stretto le labbra in una linea bianca muovendo appena la testa in segno di diniego, lei gli si era aggrappata addosso con forza e aveva pianto a lungo tra le sue braccia, tanto che Sarah a un certo punto si era azzardata ad aprire la porta del suo studio, salvo poi richiuderla con discrezione davanti a quella scena.
Poche volte si era sentito così impotente come medico e come uomo. Nemmeno quando in Afghanistan qualche commilitone moriva sotto i ferri nell'improvvisato ospedale da campo: ogni soldato era consapevole dei rischi che si assumeva nel momento in cui indossava la divisa. Magari non succedeva nulla per settimane in quell'inospitale deserto di pietra e vento e il giorno dopo potevi saltare in aria su una mina anticarro o finire dilaniato da un colpo di mortaio caduto sulla tua baracca. Non riuscire a salvare la vita non era mai un'idea facile da accettare per John, eppure come soldato sapeva bene che in quello scenario di odio e guerra la morte era un evento comune quanto le tempeste di sabbia.
Ma quel caso era diverso: la sua paziente non si era imbarcata in nessuna impresa pericolosa, stava semplicemente vivendo. Nulla più. E a venticinque anni la morte non dovrebbe rientrare nell'ordine naturale delle cose, no.
Lei aveva cercato di nuovo i suoi occhi, implorandolo di concederle una salvezza che non esisteva, come se fosse un dio che esaudiva le preghiere degli uomini.
Ma lui non era un dio. Davanti a tanto dolore, non era nessuno.
Il tumore al pancreas era in fase troppo avanzata, aveva già prodotto una metastasi e non c'era nulla che lui potesse fare, se non stringerla e dirle "Mi dispiace", con la consapevolezza di quanto suonassero aride quelle parole.
Quanto lui fosse inutile in quel momento.
Le lacrime di quella donna, il pensiero di tutti i suoi sogni ed i progetti che non si sarebbero mai realizzati lo avevano spossato e mentre tornava a casa sotto una pioggia incessante, John sentiva ogni goccia d'acqua che gli pesava addosso come un macigno. "Non è giusto. - continuava a ripetersi - Non è giusto."
Era arrivato a Baker Street zuppo fin nelle ossa, sfibrato nello spirito e i suoi passi stanchi lo avevano portato fin nella stanza di sopra: non voleva vedere né parlare con nessuno, gli sembrava tutto troppo faticoso.
Infine, per concludere degnamente quella orribile giornata, sua sorella gli aveva telefonato, la voce impastata dall'alcool, farfugliandogli addosso i suoi deliri da ubriaca e, sostanzialmente, incolpandolo di tutto ciò che le era andato storto nella vita.
"Pensi che la tua vita sia una merda? Prova a dirlo alla mia paziente!" aveva urlato prima di troncare la comunicazione, scaraventando con rabbia il cellulare su una sedia ingombra di panni da lavare. Si sedette nel vano della finestra ad osservare la pioggia, ancora con i vestiti grondanti d'acqua addosso. Era stanco, fottutamente stanco, esausto nel fisico e nella mente. Non aveva più la forza di fare niente, nemmeno spogliarsi, voleva solo tapparsi occhi e orecchie: non guardare, non sentire, non provare più nulla.
Sherlock entrò nella stanza qualche istante dopo, era rimasto discretamente in attesa dietro la porta in attesa che lui ed Harriet finissero di litigare; gli bastò un'occhiata al suo viso per capire che giornata avesse avuto John.
Non proferì parola, ma prese un asciugamano pulito da un cassetto e iniziò a frizionare con cura i suoi corti capelli biondi, facendo particolare attenzione a dove erano più folti e bagnati.
Finito, lo gettò a terra.
"Disordinato." lo rimproverò John con voce atona.
Sherlock non rispose, ma lo fece alzare dal davanzale e prese a spogliarlo lentamente, mandando i vestiti fradici a far compagnia all'asciugamano, poi si liberò dei propri abiti, mentre lui restava fermo. Non c'era nulla di sessuale in quell'attimo e nelle intenzioni di Sherlock, John era svuotato di ogni energia e l'ultima cosa che aveva in mente era il sesso, ma la sola idea che potessero restare completamente nudi l'uno di fronte all'altro, senza vergogna né pudore, tanto a fondo si comprendevano, gli fu di conforto.
Era vero che aveva problemi di fiducia, che era diffidente e con gli altri faticava di aprirsi. Sherlock era l'unico al quale sentiva di poter mostrare senza alcuna reticenza tutte le sue debolezze, così come Sherlock mostrava solo a lui il grande cuore che possedeva dietro quella grande mente. [1]
Quello era il vero miracolo che scorreva tra loro. Due anime e due corpi che si erano trovati.
Sherlock mosse un passo in avanti e lo abbracciò, stringendolo contro di sé. Solo in quel momento John realizzò di essere spiacevolmente ghiacciato e riprese coscienza del suo corpo, della pelle d'oca che percorreva la sua pelle e dei denti che battevano per il freddo. Sentiva Sherlock rabbrividire di tanto in tanto a contatto con il suo corpo umido e freddo, ma il suo compagno non si scostò mai; l'unico movimento che fece fu prendergli i polsi ed incoraggiarlo a posarli sulla sua schiena, quella schiena ampia e forte che in quel momento sembrava poter reggere il peso di tutta la sua tristezza.
Finalmente John si abbandonò pesante contro di lui, lasciandosi scaldare dal corpo dell'altro, rilasciò un sospiro doloroso e Sherlock annuì piano contro la sua spalla "Sì, John, Così."
Lo incoraggiò a respirare a fondo accarezzandogli le spalle, sincronizzando il ritmo del suo respiro con quello del suo dottore e ad ogni soffio di fiato che lasciava la sua bocca, John sentiva alleggerirsi il buio accumulatosi dentro di lui.
Solo quando Sherlock lo sentì più rilassato sciolse l'abbraccio, ma solo per prenderlo per mano e condurlo verso il letto. Lì, sotto il caldo piumone, gli prese le mani gelide tra le proprie, le portò alla bocca e le scaldò col suo fiato e con piccoli baci innocenti, poi lo strinse di nuovo, passandogli un braccio dietro le spalle e l'altro sulla schiena, tenendolo contro di sé.
John appoggiò un orecchio al suo petto e, sfinito, si addormentò cullato dalla più bella delle melodie, il battito del cuore dell'uomo che amava.
Sherlock lo guardò addormentarsi, rilassato e morbido fra le sue braccia, ed era deciso a restare sveglio tutta la notte a vegliare sul suo dottore, ma il ticchettio ritmico della pioggia contro il tetto e la sensazione del corpo di John che finalmente aveva ripreso ad emanare il consueto tepore, ebbero la meglio su di lui e qualche ora dopo seguì l'altro nel sonno.

La mattina dopo la tipica pioggia londinese si era trasformata in uno scrosciante temporale con tanto di fulmini che illuminavano a giorno la stanza.
Fu il prepotente brontolio di un tuono a svegliare John, sorprendendolo ancora abbracciato a Sherlock, le mani del compagno appoggiate possessivamente sulla sua schiena.
Un sorriso gli distese le labbra, mentre allontanava la testa di qualche centimetro per poter mettere meglio a fuoco il viso di Sherlock.
Il detective detestava con tutto il cuore essere osservato mentre dormiva [2] ed era capace di tenergli il broncio per tutto il giorno se, risvegliandosi, lo sorprendeva a fissarlo. E lo coglieva puntualmente in castagna: spalancava all'improvviso i suoi occhi grigi e sbuffava disappunto dalle narici. Perciò John non lo faceva spesso quanto avrebbe voluto, anche se era così bello che, potendo, avrebbe passato giornate intere solo a guardarlo.
Inoltre quella mattina il suo cuore era colmo di gratitudine per come gli era stato vicino, con l'intimità di un dolcissimo abbraccio, e stava provando un sentimento tanto dirompente che non avrebbe mai saputo tradurlo in parole. Perciò John restò a guardarlo un po' più a lungo del solito, sperando che la pioggia battente gli offrisse una copertura per prolungare quella visione ancora qualche istante.
Poi la sua mano si mosse da sola, attratta da quel viso come lo è un satellite dal suo pianeta, gli accarezzò piano i capelli e Sherlock si stiracchiò pigramente "Buongiorno John, hai dormito bene?"
"Sì." Ed era sincero. Aveva dormito benissimo, senza mai svegliarsi e senza avere incubi, il che era straordinario, ripensando alla notte passata. O forse no, forse il motivo del suo riposo tranquillo era lì, davanti ai suoi occhi e accanto al suo cuore.
Fuori da quel bozzolo di calore, piume e felicità infuriava un temporale, faceva freddo, la sua paziente era ancora una malata terminale di cancro e sua sorella continuava a bere. Ma lì, in quel letto, vicino al corpo di Sherlock, tutto era lontano.
La consapevolezza di avere in quell'uomo straordinario un porto sicuro dove rifugiarsi e trovare riparo da tutte le tempeste della vita aveva cancellato la depressione che lo aveva ghermito la sera prima. Le disgrazie sarebbero continuate ad accadere, come medico avrebbe dovuto comunicare tante altre brutte notizie, ma lui aveva Sherlock. Questo gli avrebbe dato la forza di alzarsi, sbarbarsi per bene, preparare la colazione per entrambi ed affrontare la giornata. Quella e tutte le altre a venire.
Perciò tra un attimo si sarebbe alzato e poi sarebbe andato in ambulatorio a fare il suo dovere e a seguire i suoi pazienti.
Tra un attimo.
Lo baciò sulla fronte, la mano ancora nei suoi capelli e i due indugiarono nel letto ancora un po', abbracciati, crogiolandosi l'uno nell'amore per l'altro.




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NOTE

[1] Citazione adattata da "L'avventura dei tre Garrideb".

[2] Piccolissimo omaggio a That awkward moment di Doralice.

   
 
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