Sociopatia
Dio, la terra brucia da quelle parti, raggi di sole bucano
la tenda verde che ricopre l’armeria. Enormi fornaci fondono metallo a
temperature inimmaginabili, Abigail si sfila la giacca di jeans lasciandola su
di uno sgabello in legno. E’ una che legge, legge di tutto ma in qualche modo
ha sempre trovato affascinanti, molto più di altro, quegli enormi tomi
enciclopedici sul medioevo, sull’epoca del ferro e del fuoco e della pece dai
torrioni.
Non ricorda nulla che possa spiegare quel suo innato
interesse, sa solo che sotto il letto, in camera sua, nasconde un enorme arco
di legno intagliato affiancato da una faretra rivestita in pelliccia che
custodisce febbrilmente una decina di frecce dalla punta affilata e dalla coda
piumata. In quella stanza l’arco non è l’unico cimelio di quel genere, c’è un
po’ di tutto in realtà, centinaia di oggetti che cozzano tra di loro in una
confusione di colori e odori; odore, le piace terribilmente l’odore che si
respira in quelle quattro mura della sua stanza, è odore di passato, odore di
qualcosa che è resistito alla fame insaziabile del tempo che distrugge e
ricrea, odore di qualcosa che sa di ricordi. I suoi e quelli di chi ha lasciato
la propria impronta su oggetti andati perduti e raccolti da una ragazza dai
capelli rossi alla ricerca di storie da rendere proprie.
Adora i mercatini delle pulci, quel loro sistema caotico di
ordinare i ricordi per forma o per colore o per consistenza, l’odore che le
ricorda casa e gli stessi venditori che hanno l’ aspetto sputato a ciò che
vendono. Con le loro rughe agli angoli degli occhi, gli uomini con la barba
bianca sotto il mento e il cappello sul capo, le donne con lunghe trecce grigie
morbidamente accomodate su di una spalla; profumano di tempo che ha smesso di
scorrere, di quell’eternità che resiste a qualsiasi legge fisica e non, sono
istanti catturati qua e là e resi immutabili, destinati a restare i soli
profeti di non una sola vita ma di centinaia di vite che hanno visto passare
davanti ai loro occhi.
A Parigi aveva comprato una di quelle medagliette che si
aprono, era tornata nell’alloggio e, allungata sul letto, aveva aperto il
ciondolo e scoperto una curiosa sorpresa. I precedenti proprietari avevano
dimenticato di cancellare i loro bei visi sorridenti dalle facce interne della
medaglia; due visi in bianco e nero si sorridevano rispettivamente, come
costretti dalla simmetria del ciondolo, i cardini come asse simmetrico a
dividerli o ad unirli, dipende da come si voglia vedere la cosa. In fondo è
sempre una questione di punti di vista. Abigail ci aveva visto un nome e un
indirizzo, incisi sul retro del ciondolo, e la possibilità di entrare a far
parte di una storia che l’aveva voluta coinvolgere e far cadere nella sua rete
di ricordi e vite separate.
Così aveva bussato ad una porta rosso fuoco ed era entrata
in punta di piedi in un ampio salotto, si era seduta su di una poltrona morbida
in tweed e aveva aspettato. Aveva detto di essere una studentessa e di aver
trovato un piccolissimo cimelio di quella che credeva la padrona di casa. Un
anziano signore l’aveva raggiunta poco dopo e salutata con un sorriso pieno di
gratitudine, si era chiesta perché la ringraziasse o perché durante l’intera
conversazione non aveva fatto che ascoltarla sorridendo e annuendo rilassato e
alla fine, solo alla fine, aveva capito. Gli aveva mostrato la medaglietta e
lui l’aveva presa con mano tremante aprendo le due facce e scoprendo un
contenuto che i suoi occhi avevano visto centinaia di volte, magari in quello
stesso salotto, o in camera da letto o in bagno la mattina dopo essersi
sciacquato il viso assonnato e stanco. Se l’era stretta al petto e non l’aveva
lasciata per tutto il tempo del suo racconto. Abigail non aveva staccato gli
occhi di dosso dal vecchio, si era avvicinata e dopo qualche minuto stringeva
il suo braccio con il bisogno febbrile di infondere calore ad un’anima così
viva costretta in un corpo non adatto a lei, freddo e vecchio.
Si erano scambiati gli indirizzi con la promessa di
scriversi. Le aveva lasciato la medaglietta con la richiesta di portarla sempre
con lei in modo che i suoi occhi e quelli della donna a cui sorrideva nella
foto potessero vedere ciò che non avevano avuto né modo né tempo di vedere.
Abigail lo aveva abbracciato e si era legata la catenina al collo per non
toglierla più se non per farsi la doccia.
Quella medaglietta rappresenta il bisogno di ricordi e
sensazioni e vite di cui riempirsi. L’arco e quella catenina fanno parte di lei
e lei fa parte di loro secondo una sorta di predestinazione, uno lo ha trovato
per caso, seguita da ricordi dimenticati resi sensazioni e puro istinto e
l’altra ha trovato lei, sperduta in ricordi non suoi, trovata come i topi
trovano le briciole di pane per strada, o come una persona trova l’anima che la
completa. Caso, un caso fottutamente preciso ma solamente caso.
Quando Aàron le passa l’arco quel maledetto istinto sbuca
fuori da chissà dove e riattiva meccanismi spenti da tempo e di cui,
ovviamente, non ricorda nemmeno l’esistenza. Scioglie i muscoli del braccio e
saggia il legno, il peso, le venature, sussurra il suo odore e il suo colore e
poi con lo sguardo analizza la corda e i punti di ancoraggio al legno.
“Sai usarlo?”
Abigail afferra la corda con due dita e la mette in
tensione, chiude un occhio e osserva il suo indice puntato verso la faccia
spavalda di Aàron.
“Sembra di si”
“Sembra quasi una sfida, la tua”
“Potrebbe esserlo”
“Ma sentila!”
Abigail si sente sicura con il legno tra le mani, in fondo
non è molto diverso dallo scattare una foto. Tenere stretto in pugno un
istante, lasciare la corda o il meccanismo della biottica e catturare il
perfetto centro del mirino. La punta della freccia affonda nel cerchio rosso
con precisione maniacale squarciando lo strato di compensato che esplode in una
miriade di schegge e pagliericcio che satura l’aria. Il bersaglio come un
volto, la freccia come il diaframma, l’istante come l’istantanea. Sorride
soddisfatta quando Aàron la guarda sbigottito.
Vorrebbe spiegargli volentieri come ha fatto ma non lo sa
nemmeno lei. Il suo istinto, l’occhio perfettamente in linea con la punta della
freccia, non sa nemmeno se quello che fa lo fa bene, sa solo che vuole il
centro e che deve averlo a tutti i costi, conscia dell’importanza di un singolo
istante non vuole farlo scappare via, non vuole perderlo e lasciarlo in mani di
chi non saprebbe che farsene. E’ suo e deve coglierlo, così scocca una freccia,
poi un’altra e un’altra ancora, non si fermerebbe mai, come non smetterebbe mai
di scattare, il terrore di perdere immagini e storie e occhi la fa sentire
male, vuota.
Si siede su uno sgabello alto con un boccale di birra
accostato alle labbra e osserva: la linea morbida e perfetta
spalla-gomito-polso; il collo in tensione; le mano stretta attorno al legno
possessivamente, le dita accarezzano le venature e si fermano sul nodo
centrale, l’indice si lega attorno allo spessore dell’arco e forma una base
d’appoggio per il corpo della freccia; Indice e medio tendono l’arco e sfiorano
la coda del dardo, le piume gli accarezzano la guancia, lo zigomo sporgente di
Aàron s’imporpora di esitazione; gli occhi fissi sul bersaglio si chiudono nel
preciso istante in cui la freccia fende l’aria. Abigail si copre la bocca con
una mano smorzando quel sussurro che le esce dalla gola troppo acuto. Il cuore
le batte frenetico nel petto, l’adrenalina scorre nel sangue e gli occhi
diventano due pozze nere.
“E’ sempre stato il migliore e il bello è che non sapeva
nemmeno di esserne capace. Un giorno ha preso l’arco e ha cominciato a provare,
il giorno dopo non sbagliava un colpo, il cerchio al centro è una sua
esclusiva. E’ l’unico momento in cui quel diavolo chiude gli occhi e si
abbandona ad una pace che credo il suo corpo non abbia mai avuto modo di
conoscere.”
Abigail non ha bisogno di voltarsi, riconosce il suono della
voce di Imre a pochi centimetri dal suo orecchio, il suo respiro le sfiora la
guancia e si mescola al sussurro che senza sosta squarcia millimetri d’ aria
intorno alle sue labbra.
“Quando chiude gli occhi, è come se smettesse di piovere
nelle sue pupille, lo sguardo diventa limpido. Ecco guarda, poco prima di
chiudere gli occhi..hai visto?”
Si volta e guarda Imre dritto negli occhi.
“Non stavi guardando”
Non è un rimprovero solo un’osservazione. Imre conosce lo
sguardo di Aàron, ha osservato per anni quei nuvoloni grigi caricarsi fino a
scoppiare e riversare la loro forza nel corpo dell’amico, sa di come le sue
mani tremano incapaci di contenere quell’immensa scarica di energia, c’era
quando Aàron decideva di rincorrere qualcosa solo per il gusto di non
lasciarselo sfuggire.
Rincorre la vita, in tutte le sue forme, la rincorre fino
allo sfinimento, fino a cadere riverso a terra senza più nemmeno la forza di
respirare. Vive fino a rischiare di uccidersi ma si salva sempre, nell’attimo
in cui la tempesta sta per esplodere nei suoi occhi, nell’attimo in cui il
fulmine sta per squarciare le pupille nere, la pioggia comincia a scendere e a
scaricare quegli ammassi grigi di nuvole che rimpiccioliscono fino a diventare
piccole macchie indistinte.
Ciò che non conosce Imre sono gli occhi di Abigail, grigi
come quelli del suo amico ma nemmeno lontanamente paragonabili, come due mondi
estremamente simili ma profondamente diversi. Quando lei punta gli occhi su di
lui si sente strappare dal petto qualcosa, come se con quel suo sguardo
scavasse lentamente in lui. Riesce a vedersi, vede il suo viso fissare beota le
iridi di lei, si specchia e si accorge di non essersi mai guardato per davvero
in vita sua, nota cose che non sapeva nemmeno di avere.
Poi capisce. Quando Abigail sussurra il suo nome e lui
abbassa lo sguardo sulle sue labbra, solo per un secondo, un piccolissimo
secondo, si rende conto che il suo riflesso negli occhi della ragazza è la somma
di ciò che lei vede in lui. Parole sussurrate, messe a caso, senza il ben ché
minimo ordine. Prima il naso, poi le orecchie, poi il colore della sua pelle e
dei suoi capelli, il suono della sua voce e poi le sue vibrazioni. Vibrazioni?
Che diamine sono le vibrazioni? Si guarda la mano che tamburella contro la
gamba il ritmo delle parole di Abigail e capisce di che diavolo di vibrazioni
parla.
La stronza! Quella fottuta stronza!
“Che stai facendo?”
“Scusa?”
“Non sei idiota, hai capito. Guardami e dimmi che stai
facendo.”
Abigail sorride. Guardami, come se non avesse fatto altro da
quando l’aveva presa all’aeroporto e trasportata in quel posto uscito dalle
scatole dei cereali per bambini. Guardami, come se i suoi occhi non fossero ad
un centimetro dal suo naso in cerca dell’unica storia che Abigail sa di non
poter lasciarsi sfuggire. Guardami, come se ci fosse realmente bisogno di
chiederglielo. Ma obbedisce, lo guarda, una volta, due, lo guarda ancora fino a
quando le sue labbra smettono di sussurrare e lo sguardo di lui si sposta negli
occhi di lei.
“Perché hai smesso?”
“Di fare cosa?”
“Di sussurrare come una dannata parole senza senso.”
“Non sono senza senso.”
“Lo sono per chi ti guarda e non capisce quello che dici.
Sembri sociopatica.”
“Sarei sociopatica?”
“Sembri, ho detto sembri.”
“E tu sembri un po’ troppo sicuro di te Imre, cos’è che ti
fa parlare con così tanta sicurezza?”
“Dico solo quello che pensano gli altri.”
“Gli altri.”
“…”
“Tu cosa pensi?”
“Non importa quello che penso io.”
“Però dovrei tenere conto di quello che dicono gli altri..”
“Non ho detto questo!”
“No tu hai detto esattamente questo.”
“Senti, sono solo curioso. Parli da sola e non fai altro che
scattare foto.”
“Si da il caso che io sia fotografa. Sai no? Quei tipi
strani che vanno in giro con un aggeggio diabolico dalla forma strana e che non
fanno che scattare, scattare, scattare..”
“Hai capito cosa intendevo.”
“Fai le domande sbagliate Imre.”
Imre vuole solo che parli, vuole dare il testo a quel ritmo
di sussurri che le esce dalla gola, le aprirebbe la bocca e le infilerebbe un
braccio per l’esofago, le strapperebbe le parole direttamente dal diaframma,
dove nasce quel suono cantilenante, e la costringerebbe a trasformare le sue
cazzo di foto in fottute parole.
E questo solo perché vuole farle provare la sensazione di
essere stati scoperti, di aver smascherato la sua insensata ossessione e
disarmarla. Vuole disarcionarla e metterla con le spalle al muro per un
confronto alla pari. I suoi sussurri con le sensazioni che lo uccidono e che si
trasformano in vibrazioni.
Tutto solo perché non è stato capace di trattenere il maledetto bisogno di tamburellare le dita sui jeans sbiaditi.
***
Io sono troppo, e quando dico troppo intendo veramente troppo, stanca. E devo stirare, e lavare i piatti, e mettere a posto casa, e mi sa che non lo faccio..mi metto a letto e leggo un libro, con i piedi sul muro e le gambe per aria, giusto per aiutare il pranzo a risalire su..giusto perchè non ce la faccio veramente nemmeno a muovere un passo. Ho perso il ritmo ed è solo il terzo giorno.
Bien, per una volta sono tutti e tre insieme, cioè prima solo Abi e Aàron ma poi risbuca anche Imre. Sono legata a quel ragazzo come con nessun altro, so che lo dico spesso dei miei personaggi, ma Imre rispecchia molti lati delle persone che mi girano intorno che ho assorbito e resi miei, nel tempo. Le sue manie, la sua musica, sono tutti ricordi o sensazioni, quel ragazzo è nato da un qualcosa assolutamente indefinito, come Abi, infatti si completano quasi. Realtà e finzione mischiati insieme, non so se esserne spaventata o incuriosita.
Bien, io mi eclisso, vado a bere un pò d'ace e finisco di vedere New Girl, geniale, davvero troppo geniale.
Tante coccole.
Lis