“Ehi, Hermann! Quanta fretta!”
Il giovane
difensore tedesco aveva sistemato alla rinfusa la roba nel suo borsone,
chiudendolo in qualche modo, tanto che parte di un calzettone spuntava dalla
cerniera.
“Sono in ritardo! Oggi devo recuperare Mel agli allenamenti! Se non
arrivo puntuale a prenderla mia madre mi scuoia!”
Il biondino corse via,
sempre rischiando di perdersi parte della divisa per strada.
“Forza
Hermann, sali!” Karlz si allungò ad afferrare la mano che il portiere nipponico gli
tendeva dall’autobus.
“Grazie Wakabayashi!” disse affannato “Mi hai
salvato le piume! Se perdevo l’autobus, ero un uomo morto!”
“Non ti pare di
esagerare? Al massimo saresti arrivato a casa con un quarto d’ora di
ritardo!”
“Non è per quello!” rispose l’altro “Oggi
devo recuperare la mia sorellina agli allenamenti di pattinaggio. Se arrivo tardi, chi
la sente mia madre!” una strizzata d’occhio e il solito sorriso bonario “Visto che sei
di strada, ti va di accompagnarmi? Ci sono un sacco di belle ragazze!” disse con
uno sguardo d’intesa.
Dal canto suo il giapponese scosse lievemente il capo,
calcandosi il cappello sugli occhi e lasciandosi cadere sul seggiolino dietro di
se, senza rispondere.
“Allora? Scendi o no?” Hermann era sulla porta.
Quella successiva era la sua fermata. Il portiere non rispose, aveva le braccia
conserte ed il capo appena reclinato all’indietro, il viso coperto dalla
tesa del cappello. Quando le porte si aprirono, il tedesco scese,
scollando le spalle. In un attimo, si trovò accanto il giapponese, il quale con
uno scatto felino era sceso al volo dall’autobus ed ora gli camminava
accanto.
“Cambiato idea?”
Solo un sorrisetto accennato in
risposta.
“Fratellone! Sei arrivato! Ciao, Wakabayashi!”
Una ragazzina
biondissima, gli occhi azzurri enormi, più piccola del difensore di un paio
d’anni, gli si fece in contro attraversando il ghiaccio in un baleno.
“Ciao
piccola! Visto che sono venuto a prenderti! Dai, vatti a cambiare che
andiamo!”
“No, ti prego! Due minuti ancora! LEI sta per provare il libero!
rispose al fratello mentre si metteva il copri lame.
“Beh… allora aspetto
volentieri!”
“Mhmmm?”
“Ah, già! Scusa Wakabayashi, dimenticavo! Aspettiamo
un attimo! Tra poco ci godremo un bello spettacolo!”
“Sarebbe?”
“Lena
Miller… E’ la stella della nostra squadra! Ti assicuro che vale la pena perdere
il pullman per lei…”
In quell’istante una ragazza, che fino a quel
momento aveva fatto solo qualche esercizietto di riscaldamento, si portò al centro
della pista. Era vestita con una semplice tuta da allenamento nera, aderente,
decorata solo da un pattino luccicante di brillantini ricamato sulla schiena. I
lunghi capelli castani legati in una semplice coda bassa. Dava loro le spalle,
mentre si apprestava ad iniziare il suo esercizio. Le altre atlete le aveva
lasciato campo libero. La musica iniziò scoppiettante. I movimenti della giovane
ne seguivano il ritmo con raffinata eleganza. Volteggiava sul ghiaccio
con leggerezza, sul viso mille espressioni interpretavano quell’armonia.
Negli occhi… passione. Pura e semplice. Il mondo non esisteva. Si muoveva leggera
come l’aria, quasi una siloutte in controluce sul bianco abbagliante del ghiaccio.
Un salto. Perfetto. Sul suo viso un sorriso sicuro. Poi una trottola,
veloce, sempre più veloce! L’elastico che le teneva i capelli volò via. La
massa morbida color dell’autunno l’avvolse ribelle ma lei non si fermò.
Ricominciò a volteggiare sulla pista gelata come nulla fosse. L’attraversò compiendo
una serpentina su un appoggio solo, ad angelo. Gli passò davanti. I loro sguardi
si incrociarono. Un sorriso sulle labbra di lei. Poi nuovamente un salto, poi
subito un altro! Gridolini estasiati provenivano dalle ragazze che assistevano
all’esercizio. Quando si ricevette dal secondo Axel, di nuovo incontrò il suo
sguardo. Di nuovo gli sorrise.
Era rimasto incantato a guardarla. Era lei…
Eppure pareva impossibile!
Era così elegante, così agile, così sinuosa. Non
riusciva a staccarle gli occhi di dosso, attratto irrestibilmente da quell’armonia
che lei sprigionava. Poi, quel sorriso. No, non era rivolto a lui. Era
troppo intenta nel suo esercizio per averlo notato... Invece… no, di nuovo!
Questa volta gli occhi di lei lo avevano cercato, e quando avevano incrociato il
suo sguardo, un dolce sorriso le aveva illuminato il viso. Una strana sensazione
di calore gli pervase il petto, sentì il cuore battere un poco più accelerato.
Abbassò la visiera del cappellino, a nascondere il rossore che gli aveva
imporporato il volto. Sbirciò a controllare che il compagno di squadra non
avesse notato nulla. No, Hermann era tutto intento a seguire la ragazza che
continuava a disegnare ricami sul ghiaccio. La musica si spense. Le
ragazzine acclamarono la compagna, urlando e battendo le mani. Rivolse loro due
profondi inchini, per poi dirigere verso l’istruttrice timidamente, a occhi
bassi.
“Non male, eh? Cosa ti avevo detto? Chi penserebbe che un tale topo di
biblioteca possa fare certe cose! Che ne dici?”
Il portiere, per tutta
risposta, calcò ancora di più il cappello sugli occhi, facendo
spallucce.
“Brava…
Molto, molto brava…” sussurrò, voltandosi appena ad
osservare la ragazza, mentre usciva dal palazzetto seguendo l’amico.
Calda luce soffusa, un pianoforte che intonava un lento
blues in sottofondo, ottimo vino rosso, italiano, accompagnato ad una cena
assolutamente squisita. Quell’atmosfera raffinata abbinata ad una sensazione
come di tempo sospeso. Amava concedersi quei piccoli lussi, staccando in qualche
occasione dal mondo cameratesco del calcio e della squadra.
Se poi la serata
era allietata dalla piacevole presenza di una bella donna, meglio
ancora.
Alla fine Nakazawa aveva vinto. Sorrise tra se, pensando alla giovane moglie
del suo migliore amico: dolce, gentile e… tirannica! Lo era sempre stata.
Tranne che con lui. “Anego” non si era mai scontrata con l’SGGK. Si erano sempre
rispettati e guardati da lontano, come cane e gatto. Ma quando Nakazawa partiva,
nulla la poteva fermare! E quella volta, l’onda aveva travolto pure lui.
In
fondo, le doveva un favore.
Lasciò scorrere lo sguardo sull’elegante
figura che gli stava di fronte: la mano sottile e perfettamente curata sosteneva
il calice appena scostato dalle labbra carnose, truccate di rosso scuro. L’ovale
delicato del viso era incorniciato da lunghi capelli color della brace,
sapientemente raccolti in un’acconciatura semplice che lasciava libera qualche
ciocca di posarsi sulle spalle nude. Occhi di un azzurro profondo, intenso,
magnetico.
Spesso si era trovato in compagnia di donne altrettanto belle, era
vero, ma Angela Weiss aveva qualcosa di speciale. Nakazawa aveva ragione, il suo
capo non era solo una splendida donna, era dotata di un’intelligenza vivace, di
quell’ umorismo sottile che sconcerta e seduce gli uomini che lo sanno cogliere
e, soprattutto, amava e parlava con cognizione di causa di quello sport che da
tempo aveva preso il posto della sua famiglia.
A conti fatti, era soddisfatto
di aver ceduto alle continue pressioni della sua vecchia amica. Alla fine aveva
dovuto arrendersi, incastrato anche dal manager della squadra che lo aveva
obbligato a quell’intervista con la direttrice della più famosa rivista di sport
venduta in Germania. E l’intervista si era magicamente trasformata in un invito
a cena…
Angela si era presentata avvolta in un abito in seta nero che le
lasciava scoperte le spalle e metteva in risalto con sapienza le curve di quel
corpo che pareva modellato da un artista. Ne era rimasto piacevolmente colpito,
certo, ma aveva temuto che quella serata avrebbe preso la solita piega…
La
giornalista lo aveva invece sorpreso nuovamente e, dopo i convenevoli di rito,
era passata immediatamente al motivo di quell’incontro: l’intervista al miglior
portiere dei Mondiali di Germania.
Aveva silenziosamente tirato un sospiro
di sollievo. Non era assolutamente sua intenzione passare la serata con
l’ennesima cacciatrice di uomini e soldi.
“Non le sembra fuori
luogo essere considerato il miglior portiere dei Mondiali, dato che la vostra
squadra è arrivata solo fino ai quarti?” una domanda del genere, normalmente, avrebbe
ottenuto una replica sprezzante e tagliente. Posta da lei, in maniera così
semplice, diretta, senza alcun tipo di doppio senso, accusa o giudizio, lo aveva
portato a riflettere e rispondere in maniera serena e sincera.
“No,
non mi pare poi tanto strano. Ho comunque subito una sola rete, a differenza
dei miei colleghi che pur portando le loro squadre in semifinale e
finale, hanno incassato molti più goal.” era la pura e semplice verità. Anche se quel solo,
maledettissimo goal era costato caro alla sua Nazionale…
Per un istante fu
fuori da quella sala, catapultato dai ricordi tra i pali dello stadio di Monaco.
Quello stadio che lui, ormai, considerava quasi come casa sua. Udì il boato del
pubblico, le voci dei compagni in campo, rivide quell’ultima, dannatissima
azione. La sfortuna che li aveva perseguitati per tutta la partita nuovamente
aveva beffato il loro capitano. Il suo tiro era stato deviato in extremis da
Kalz, andando ad infrangersi sulla traversa ma la palla era tornata in gioco, in
mano avversaria. L’armata teutonica si era riversata nella loro metà campo,
travolgendo la difesa.
Aveva respinto Schneider.
Aveva respinto Margas.
Ma la fortuna non era dalla loro quella sera. Karl si trovava in una
posizione assolutamente improbabile per tirare.
Si svolse tutto in una
frazione di secondo.
Era ancora a terra dopo l’intervento sul tiro di
Manfred. Incrociò lo sguardo con quello gelido del Kaiser e vi lesse
determinazione. E una disperata voglia di vincere.
Karl agganciò la palla e
tirò al volo.
Sapeva di non poterci arrivare, ma saltò ugualmente, con
tutta la sua forza e sfruttando tutta la sua agilità. Mancò la sfera di un soffio
e pregò che non entrasse in rete, angolata com’era… Ma il fischio
dell’arbitro infranse le sue speranze mentre si rialzava da terra. Tre colpi di
fischietto ed il sogno nipponico di vincere i Mondiali fu definitivamente
spezzato.
“Certo, quella rete vi costò molto cara. A distanza di quasi
tre mesi, a mente fredda, ha dei rammarichi riguardo quella partita?” la domanda lo
riportò alla realtà. Avvertì gli occhi azzurri della donna fissi su di lui, e si
chiese come lei avesse potuto leggergli dentro a quel modo. No, non provava rammarichi
per quella partita. Avevano giocato splendidamente, erano stati assolutamente
all’altezza dei loro avversari, se non, addirittura, in molte occasioni
del tutto superiori. Ma nel calcio conta molto anche la fortuna. E loro,
lui, non ne avevano avuta. No, l’unico rammarico stava in quella promessa non
mantenuta... In fondo però, chi gliel’aveva fatta, non aveva
colpe.
Accostò l’ampio calice alle labbra, lasciando che l’aroma caldo del
vino gli stordisse i sensi per un secondo, per poi far sì che il gusto deciso ed
un poco violento dell’alcol lo riscotesse. Puntò il suo sguardo scuro e
penetrante in quello di lei, quasi trafiggendola. Si accorse del suo trasalire.
E si accorse pure di quella sottile crepa che aveva visto fendere la maschera di
fredda professionalità indossata dalla donna. Sorrise, implicitamente
soddisfatto, scostando il bicchiere dalla bocca e preparando una risposta
calibrata. Aveva ripreso il controllo della situazione. Non amava sentirsi in
scacco, e per quanto Angela l’avesse piacevolmente sorpreso, preferiva comunque
essere lui nella parte del gatto…
“Nessun rammarico. Giocammo dando il meglio
di noi stessi e non abbiamo nulla da rimproverarci. Tornammo a casa a testa
alta.”
“Certo…” dovette riprendere fiato e distogliere lo sguardo. Non le era mai
capitato prima. Normalmente erano gli uomini a non reggere il suo, azzurro ma
non trasparente, profondo, indagatore. Aveva creduto sarebbe stato così anche
in quella occasione. Invece aveva dovuto cedere. Non aveva creduto a quello
che le avevano raccontato di lui, dell’ascendente che aveva sul gentil sesso, del
magnetismo e del carisma che lo caratterizzava in campo e fuori. Lo aveva
incontrato una sola volta, prima dei Mondiali. Gran bell’uomo, sicuramente. Affascinante, intelligente,
di piacevole compagnia. Effettivamente in pochi le
avevano lasciato un’impressione tanto positiva. Quella sera, poi, si era dimostrato un
perfetto cavaliere, anche se piuttosto distaccato, ragion per cui aveva deciso
di girare subito la discussione sul piano professionale. Le dispiaceva un poco,
in fondo Sanae aveva spinto parecchio per l’organizzazione di quella cena, ma
all’inizio non aveva trovato gran chè interessante il suo intervistato. La sua
curiosità era stata stuzzicata da quello spiraglio che aveva notato aprirsi nella
barriera di ghiaccio di cui si faceva scudo, dopo che aveva accennato a parlare
dei compagni di squadra sparsi a giocare per il mondo. Aveva indagato,
sbirciato, dietro quella porta che, lo si capiva bene, era di solito serrata a
doppia mandata. Si stava gongolando, fiera di sé stessa. Con poche e mirate
domande era riuscita a carpire a quell’uomo, bestia nera dei suoi colleghi,
tante piccole informazioni che mai si sarebbe sognata di raccogliere.
E
adesso? All’improvviso la porta le era stata chiusa di scatto sul viso. Si era
trovato scoperta come una bimbetta con le mani nella marmellata. Quello sguardo
di lucido alabastro nero l’aveva improvvisamente inchiodata. Il gatto col topo…
“Potrei dirle che gran dispiacere mi ha dato il fatto che non sia stata la
Gemania a vincere il Mondiale…”
La voce profonda la risvegliò dalla marea di
considerazioni che l’avevano travolta. Risollevò gli occhi, trovandosi avvolta,
incatenata, in quelli profondi del giovane campione. Il calice era stato posato
e sulle labbra un sorriso accennato, lievemente ironico, diceva che l’uomo era
ben conscio di aver ripreso in mano le redini della situazione.
Fu quel
sorriso a strapparla dal dolce oblio nel quale il fascino del portiere l’aveva
fatta cadere. Il suo orgoglio si riscosse, la maschera si ricompose e la
giornalista tornò all’attacco, decisa a giocare quella partita ad armi pari e
senza esclusione di colpi. Avrebbe portato a casa quell’intervista, facendo
schiumare di rabbia i colleghi uomini che non la ritenevano degna del ruolo che
ricopriva.
“Ricordo una stretta di mano al termine di quella partita… Una
promessa, forse?”
Il lampo che percorse la notte negli occhi dell’uomo le disse
che aveva fatto centro. Un punto a suo favore.
“Una promessa… sì.
Una promessa non mantenuta. Ma non glie ne faccio certo una colpa.” era
compiaciuto. Non amava farsi intervistare, e le poche volte che aveva dovuto
acconsentire, le domande erano sempre state le stesse, insulse e banali. Quella
donna, invece, aveva centrato il punto. Non la solita storia del Giappone
rivelazione, del portiere rivelazione (quale rivelazione, poi? Lui era
considerato già da anni uno dei migliori estremi difensori della Bundesliga!).
Poche, chiare domande su quella squadra nata anni addietro, cresciuta grazie
alla caparbietà dei suoi componenti, che pur di migliorasi per realizzare il
loro sogno avevano abbandonato la madrepatria, spargendosi ai quattro capi del
mondo.
Corrette erano state le sue osservazioni su quella partita, e su
quella stretta di mano…
Karl, amico, compagno, capitano, gli aveva giurato
che avrebbe vinto quel Mondiale anche per lui, anche per loro. Per quegli amici
venuti da lontano a realizzare il sogno di una vita. Ma non era andata così.
L’unica, magra consolazione, consisteva nel fatto che quell’Italia che li aveva
travolti aveva poi sconfitto la Francia conquistando l’agognato
titolo.
“Dunque… a tra quattro anni!” le dita sottili sollevarono il calice
in segno augurale, mentre l’azzurro degli occhi era percorso da un lampo di
soddisfazione. Aveva ottenuto quello che voleva.
“Ai prossimi Mondiali…” un
cenno del capo e nuovamente un sorriso accennato, gli occhi neri che non si staccavano
da quelli zaffiro della donna. Provava gusto ad avere di fronte avversari
di quel calibro. Avversario… si, tale la riteneva! Angela Weiss aveva
fatto di tutto per scavare nel suo io. Non si era limitata ad intervistare il
portiere. Lei voleva conoscere e far conoscere l’uomo.
Non amava quel genere
di interviste, di solito, ma… Angela era riuscita a toccare le corde giuste
senza risultare morbosamente curiosa come erano invece i suoi colleghi o peggio,
le sue colleghe.
Forse per quello le aveva concesso più di ciò che non
avrebbe mai pensato di raccontare ad un giornalista. E, tutto sommato, la cosa
non gli dispiaceva.
“E un punto a Sanae…” le labbra rosse piegate in un
sorriso divertito, accompagnato da uno sguardo di sensuale
complicità.
“Già...” sorrise tra sé. Alla fine era lì anche per
quello…
“Penso che domani le farò avere un mazzo di fiori e un biglietto
di ringraziamento.” non le sfuggì la sottile ironia e neppure l’implicito invito
a continuare la conversazione andando a trattare di tutt’altri argomenti.
Ringraziò mentalmente l’amica e si preparò per la nuova battaglia. Sarebbe stato
uno scontro piacevole, non ne aveva dubbi, con quell’uomo dal fascino magnetico
ma dall’animo riservato. Lei non si sarebbe accontentata di una conoscenza
superficiale, no.
Vino dolce, greco, color dell’ambra accompagnò
l’ultima e più interessante parte della serata.
Ricordi di quand’erano
ragazzini, l’amore per lo sport. La storia di una carriera in continua
evoluzione, costellata di vittorie e riconoscimenti, e quella di una carriera
interrotta. Dallo studio, dalle responsabilità e dagli incidenti. Si scoprirono
più simili di quanto pensavano.
Un’ultima, maliziosa domanda.
“Nessuna donna, in tutti questi anni,
che sia riuscita a far batter seppur per un secondo, il freddo cuore dell’SGGK?”
un sorriso seducente che intendeva chiaramente un doppio
fine.
Soppesò con cura quelle parole.
Soppesò la persona che aveva
davanti.
Ripercorse quella serata e le sottili emozioni che aveva provato ad
avere di fronte finalmente una donna che gli sapeva tener testa, come desiderava
da tempo. Ma…
Si dovette arrendere all’evidenza.
Scosse leggermente
il capo, socchiudendo gli occhi, la solita maschera sprezzante sul volto “No,
nessuna. Mai.”
La verità. Pura e semplice. Non amava mentire e comunque non
ce ne sarebbe stata ragione.
Eppure, il riconfermarsi di quella
consapevolezza era stata una stilettata fredda nel petto.
“Peccato…” negli
occhi azzurri sincero dispiacere.
“Vorrei farle leggere l’articolo prima di
pubblicarlo…” quell’affermazione improvvisa lo sorprese non poco.
“Desidero solo avere la certezza di
mandare in stampa un articolo che faccia piacere non solo ai lettori, ma
soprattutto all’intervistato…”
L’ampio atrio vuoto e luminoso l’accolse silenzioso
ancora una volta.
Chiuse il portone alle sue spalle e fece scorrere lo sguardo
lungo le pareti e sui mobili eleganti ma severi che arredavano quell’enorme
sala vuota… come il suo cuore. Quella similitudine lo colpì
all’improvviso.
Qualcuno sarebbe mai stato in grado di riempire quel
vuoto?
Ripensò alle parole della giornalista.
Serrò gli
occhi, appoggiandosi pesantemente con le spalle al portone, il capo
reclinato all’indietro. Ora non c’era nessuno che poteva vederlo, nessuno rischiava
di carpire quel piccolo segreto. Si rilassò, sospirando, lasciando che l'inespressiva maschera
di ghiaccio che sempre nascondeva i sentimenti più intimi scivolasse
via.
Cercò nei meandri di quel suo cuore solitario una minuscola scatolina
chiusa a chiave, uno di quei tesori che si mettono da parte quando si è giovani
e si conservano per tutta la vita.
L’aprì, lasciando che il ricordo
s’insinuasse piano nella sua mente.
Quegli occhi.
Quel sorriso.
Quel
calore che gli riscaldava il petto mentre il cuore cominciava a battere
veloce.
Un’espressione dolce, serena, sciolse finalmente i lineamenti severi
del suo viso.
Riaprì gli occhi, guardandosi nuovamente attorno.
Il buio
non era più tanto opprimente, la luce della luna lo scostava con soffice
delicatezza.
Sorrise.
Sì, c’era ancora speranza che qualcuno riuscisse a
riempire quel vuoto.