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Autore: eos75    13/05/2007    1 recensioni
Ricordi di scuola tornano prepotenti nella vita dell' SGGK, portando un con loro malinconia e una dolce sensazione, come se niente sia ancora perduto per quel cuore chiuso a doppia mandata che si ritrova nel petto. Troverà la donna in possesso della chiave giusta per aprirlo? Forse lo aiuterà un vecchio libro...
Genere: Romantico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Genzo Wakabayashi/Benji
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ehi, Hermann! Quanta fretta!”
Il giovane difensore tedesco aveva sistemato alla rinfusa la roba nel suo borsone, chiudendolo in qualche modo, tanto che parte di un calzettone spuntava dalla cerniera.
“Sono in ritardo! Oggi devo recuperare Mel agli allenamenti! Se non arrivo puntuale a prenderla mia madre mi scuoia!”
Il biondino corse via, sempre rischiando di perdersi parte della divisa per strada.
“Forza Hermann, sali!”  Karlz si allungò ad afferrare la mano che il portiere nipponico gli tendeva dall’autobus.
“Grazie Wakabayashi!” disse affannato “Mi hai salvato le piume! Se perdevo l’autobus, ero un uomo morto!”
“Non ti pare di esagerare? Al massimo saresti arrivato a casa con un quarto d’ora di ritardo!”
“Non è per quello!” rispose l’altro “Oggi devo recuperare la mia sorellina agli allenamenti di pattinaggio. Se arrivo tardi, chi la sente mia madre!” una strizzata d’occhio e il solito sorriso bonario “Visto che sei di strada, ti va di accompagnarmi? Ci sono un sacco di belle ragazze!” disse con uno sguardo d’intesa.
Dal canto suo il giapponese scosse lievemente il capo, calcandosi il cappello sugli occhi e lasciandosi cadere sul seggiolino dietro di se, senza rispondere.
“Allora? Scendi o no?” Hermann era sulla porta. Quella successiva era la sua fermata. Il portiere non rispose, aveva le braccia conserte ed il capo appena  reclinato all’indietro, il viso coperto dalla tesa del cappello.  Quando le porte si aprirono, il tedesco scese, scollando le spalle. In un attimo, si trovò accanto il giapponese, il quale con uno scatto felino era sceso al volo dall’autobus ed ora gli camminava accanto.
“Cambiato idea?”
Solo un sorrisetto accennato in risposta.
“Fratellone! Sei arrivato! Ciao, Wakabayashi!”
Una ragazzina biondissima, gli occhi azzurri enormi, più piccola del difensore di un paio d’anni, gli si fece in contro attraversando il ghiaccio in un baleno.
“Ciao piccola! Visto che sono venuto a prenderti! Dai, vatti a cambiare che andiamo!”
“No, ti prego! Due minuti ancora! LEI sta per provare il libero! rispose al fratello mentre si metteva il copri lame.
“Beh… allora aspetto volentieri!”
“Mhmmm?”
“Ah, già! Scusa Wakabayashi, dimenticavo! Aspettiamo un attimo! Tra poco ci godremo un bello spettacolo!”
“Sarebbe?”
“Lena Miller… E’ la stella della nostra squadra! Ti assicuro che vale la pena perdere il pullman per lei…”
In quell’istante una ragazza, che fino a quel momento aveva fatto solo qualche esercizietto di riscaldamento, si portò al centro della pista. Era vestita con una semplice tuta da allenamento nera, aderente, decorata solo da un pattino luccicante di brillantini ricamato sulla schiena. I lunghi capelli castani legati in una semplice coda bassa. Dava loro le spalle, mentre si apprestava ad iniziare il suo esercizio. Le altre atlete le aveva lasciato campo libero. La musica iniziò scoppiettante. I movimenti della giovane ne seguivano il ritmo con raffinata  eleganza. Volteggiava sul ghiaccio con leggerezza, sul viso mille espressioni interpretavano quell’armonia. Negli occhi… passione. Pura e semplice. Il mondo non esisteva. Si muoveva leggera come l’aria, quasi una siloutte in controluce sul bianco abbagliante del ghiaccio. Un salto. Perfetto. Sul suo viso un sorriso sicuro. Poi una trottola, veloce, sempre più veloce! L’elastico che le teneva i capelli volò via. La massa morbida color dell’autunno l’avvolse ribelle ma lei non si fermò. Ricominciò a volteggiare sulla pista gelata come nulla fosse. L’attraversò  compiendo una serpentina su un appoggio solo, ad angelo. Gli passò davanti. I loro sguardi si incrociarono. Un sorriso sulle labbra di lei. Poi nuovamente un salto, poi subito un altro! Gridolini estasiati provenivano dalle ragazze che assistevano all’esercizio. Quando si ricevette dal secondo Axel, di nuovo incontrò il suo sguardo. Di nuovo gli sorrise.
Era rimasto incantato a guardarla. Era lei… Eppure pareva impossibile!
Era così elegante, così agile, così sinuosa. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, attratto irrestibilmente da quell’armonia che lei sprigionava. Poi, quel sorriso. No, non era rivolto a lui. Era troppo intenta nel suo esercizio per averlo notato... Invece… no, di nuovo! Questa volta gli occhi di lei lo avevano cercato, e quando avevano incrociato il suo sguardo, un dolce sorriso le aveva illuminato il viso. Una strana sensazione di calore gli pervase il petto, sentì il cuore battere un poco più accelerato. Abbassò la visiera del cappellino, a nascondere il rossore che gli aveva imporporato il volto. Sbirciò a controllare che il compagno di squadra non avesse notato nulla. No, Hermann era tutto intento a seguire la ragazza che continuava a disegnare ricami sul ghiaccio. La  musica si spense. Le ragazzine acclamarono la compagna, urlando e battendo le mani. Rivolse loro due profondi inchini, per poi dirigere verso l’istruttrice timidamente, a occhi bassi.
“Non male, eh? Cosa ti avevo detto? Chi penserebbe che un tale topo di biblioteca possa fare certe cose! Che ne dici?”
Il portiere, per tutta risposta, calcò ancora di più il cappello sugli occhi, facendo spallucce.
“Brava… Molto, molto brava…”  sussurrò, voltandosi appena ad osservare la ragazza, mentre usciva dal palazzetto seguendo l’amico.

 

 

 

Calda luce soffusa, un pianoforte che intonava un lento blues in sottofondo, ottimo vino rosso, italiano, accompagnato ad una cena assolutamente squisita. Quell’atmosfera raffinata abbinata ad una sensazione come di tempo sospeso. Amava concedersi quei piccoli lussi, staccando in qualche occasione dal mondo cameratesco del calcio e della squadra.
Se poi la serata era allietata dalla piacevole presenza di una bella donna, meglio ancora.
Alla fine Nakazawa aveva vinto. Sorrise tra se, pensando alla giovane moglie del suo migliore amico: dolce, gentile e… tirannica! Lo era sempre stata. Tranne che con lui. “Anego” non si era mai scontrata con l’SGGK. Si erano sempre rispettati e guardati da lontano, come cane e gatto. Ma quando Nakazawa partiva, nulla la poteva fermare! E quella volta, l’onda aveva travolto pure lui.
In fondo, le doveva un favore.
Lasciò scorrere lo sguardo sull’elegante  figura che gli stava di fronte: la mano sottile e perfettamente curata sosteneva il calice appena scostato dalle labbra carnose, truccate di rosso scuro. L’ovale delicato del viso era incorniciato da lunghi capelli color della brace, sapientemente raccolti in un’acconciatura semplice che lasciava libera qualche ciocca di posarsi sulle spalle nude. Occhi di un azzurro profondo, intenso, magnetico.
Spesso si era trovato in compagnia di donne altrettanto belle, era vero, ma Angela Weiss aveva qualcosa di speciale. Nakazawa aveva ragione, il suo capo non era solo una splendida donna, era dotata di un’intelligenza vivace, di quell’ umorismo sottile che sconcerta e seduce gli uomini che lo sanno cogliere e, soprattutto, amava e parlava con cognizione di causa di quello sport che da tempo aveva preso il posto della sua famiglia.
A conti fatti, era soddisfatto di aver ceduto alle continue pressioni della sua vecchia amica. Alla fine aveva dovuto arrendersi, incastrato anche dal manager della squadra che lo aveva obbligato a quell’intervista con la direttrice della più famosa rivista di sport venduta in Germania. E l’intervista si era magicamente trasformata in un invito a cena…
Angela si era presentata avvolta in un abito in seta nero che le lasciava scoperte le spalle e metteva in risalto con sapienza le curve di quel corpo che pareva modellato da un artista. Ne era rimasto piacevolmente colpito, certo, ma aveva temuto che quella serata avrebbe preso la solita piega…
La giornalista lo aveva invece sorpreso nuovamente e, dopo i convenevoli di rito, era passata immediatamente al motivo di quell’incontro: l’intervista al miglior portiere dei Mondiali di Germania.
Aveva silenziosamente tirato un sospiro di sollievo. Non era assolutamente sua intenzione passare la serata con l’ennesima cacciatrice di uomini e soldi.
“Non le sembra fuori luogo essere considerato il miglior portiere dei Mondiali, dato che la vostra squadra è arrivata solo fino ai quarti?”  una domanda del genere, normalmente, avrebbe ottenuto una replica sprezzante e tagliente. Posta da lei, in maniera così semplice, diretta, senza alcun tipo di doppio senso, accusa o giudizio, lo aveva portato a riflettere e rispondere in maniera serena e sincera.
“No, non mi pare poi tanto strano. Ho comunque subito una sola rete, a differenza dei miei colleghi che pur portando le loro squadre in semifinale e finale, hanno incassato molti più goal.” era la pura e semplice verità. Anche se quel solo, maledettissimo goal era costato caro alla sua Nazionale…
Per un istante fu fuori da quella sala, catapultato dai ricordi tra i pali dello stadio di Monaco. Quello stadio che lui, ormai, considerava quasi come casa sua. Udì il boato del pubblico, le voci dei compagni in campo, rivide quell’ultima, dannatissima azione. La sfortuna che li aveva perseguitati per tutta la partita nuovamente aveva beffato il loro capitano. Il suo tiro era stato deviato in extremis da Kalz, andando ad infrangersi sulla traversa ma la palla era tornata in gioco, in mano avversaria. L’armata teutonica si era riversata nella loro metà campo, travolgendo la difesa.
Aveva respinto Schneider.
Aveva respinto Margas.
Ma la fortuna non era dalla loro quella sera. Karl si trovava in una posizione assolutamente improbabile per tirare.
Si svolse tutto in una frazione di secondo.
Era ancora a terra dopo l’intervento sul tiro di Manfred. Incrociò lo sguardo con quello gelido del Kaiser e vi lesse determinazione. E una disperata voglia di vincere.
Karl agganciò la palla e tirò al volo.
Sapeva di non poterci arrivare, ma saltò ugualmente, con tutta la sua forza e sfruttando tutta la sua agilità. Mancò la sfera di un soffio e pregò che non entrasse in rete, angolata com’era… Ma il fischio dell’arbitro infranse le sue speranze mentre si rialzava da terra. Tre colpi di fischietto ed il sogno nipponico di vincere i Mondiali fu definitivamente spezzato.
“Certo, quella rete vi costò molto cara. A distanza di quasi tre mesi, a mente fredda, ha dei rammarichi riguardo quella partita?” la domanda lo riportò alla realtà. Avvertì gli occhi azzurri della donna fissi su di lui, e si chiese come lei avesse potuto leggergli dentro a quel modo. No, non provava rammarichi per quella partita. Avevano giocato splendidamente, erano stati assolutamente all’altezza dei loro avversari, se non, addirittura, in molte occasioni del tutto superiori. Ma nel calcio conta molto anche la fortuna. E loro, lui, non ne avevano avuta. No, l’unico rammarico stava in quella promessa non mantenuta... In fondo però, chi gliel’aveva fatta, non aveva colpe.
Accostò l’ampio calice alle labbra, lasciando che l’aroma caldo del vino gli stordisse i sensi per un secondo, per poi far sì che il gusto deciso ed un poco violento dell’alcol lo riscotesse. Puntò il suo sguardo scuro e penetrante in quello di lei, quasi trafiggendola. Si accorse del suo trasalire. E si accorse pure di quella sottile crepa che aveva visto fendere la maschera di fredda professionalità indossata dalla donna. Sorrise, implicitamente soddisfatto, scostando il bicchiere dalla bocca e preparando una risposta calibrata. Aveva ripreso il controllo della situazione. Non amava sentirsi in scacco, e per quanto Angela l’avesse piacevolmente sorpreso, preferiva comunque essere lui nella parte del gatto…
“Nessun rammarico. Giocammo dando il meglio di noi stessi e non abbiamo nulla da rimproverarci. Tornammo a casa a testa alta.”
“Certo…” dovette riprendere fiato e distogliere lo sguardo. Non le era mai capitato prima. Normalmente erano gli uomini a non reggere il suo, azzurro ma non trasparente, profondo, indagatore. Aveva creduto sarebbe stato così anche in quella occasione. Invece aveva dovuto cedere. Non aveva creduto a quello che le avevano raccontato di lui, dell’ascendente che aveva sul gentil sesso, del magnetismo e del carisma che lo caratterizzava in campo e fuori. Lo aveva incontrato una sola volta, prima dei Mondiali. Gran bell’uomo, sicuramente. Affascinante, intelligente, di piacevole compagnia. Effettivamente in pochi le avevano lasciato un’impressione tanto positiva. Quella sera, poi, si era dimostrato un perfetto cavaliere, anche se piuttosto distaccato, ragion per cui aveva deciso di girare subito la discussione sul piano professionale. Le dispiaceva un poco, in fondo Sanae aveva spinto parecchio per l’organizzazione di quella cena, ma all’inizio non aveva trovato gran chè interessante il suo intervistato. La sua curiosità era stata stuzzicata da quello spiraglio che aveva notato aprirsi nella barriera di ghiaccio di cui si faceva scudo, dopo che aveva accennato a parlare dei compagni di squadra sparsi a giocare per il mondo. Aveva indagato, sbirciato, dietro quella porta che, lo si capiva bene, era di solito serrata a doppia mandata. Si stava gongolando, fiera di sé stessa. Con poche e mirate domande era riuscita a carpire a quell’uomo, bestia nera dei suoi colleghi, tante piccole informazioni che mai si sarebbe sognata di raccogliere.
E adesso? All’improvviso la porta le era stata chiusa di scatto sul viso. Si era trovato scoperta come una bimbetta con le mani nella marmellata. Quello sguardo di lucido alabastro nero l’aveva improvvisamente inchiodata. Il gatto col topo…
“Potrei dirle che gran dispiacere mi ha dato il fatto che non sia stata la Gemania a vincere il Mondiale…”
La voce profonda la risvegliò dalla marea di considerazioni che l’avevano travolta. Risollevò gli occhi, trovandosi avvolta, incatenata, in quelli profondi del giovane campione. Il calice era stato posato e sulle labbra un sorriso accennato, lievemente ironico, diceva che l’uomo era ben conscio di aver ripreso in mano le redini della situazione.
Fu quel sorriso a strapparla dal dolce oblio nel quale il fascino del portiere l’aveva fatta cadere. Il suo orgoglio si riscosse, la maschera si ricompose e la giornalista tornò all’attacco, decisa a giocare quella partita ad armi pari e senza esclusione di colpi. Avrebbe portato a casa quell’intervista, facendo schiumare di rabbia i colleghi uomini che non la ritenevano degna del ruolo che ricopriva.
“Ricordo una stretta di mano al termine di quella partita… Una promessa, forse?”
Il lampo che percorse la notte negli occhi dell’uomo le disse che aveva fatto centro. Un punto a suo favore.
“Una promessa… sì. Una promessa non mantenuta. Ma non glie ne faccio certo una colpa.” era compiaciuto. Non amava farsi intervistare, e le poche volte che aveva dovuto acconsentire, le domande erano sempre state le stesse, insulse e banali. Quella donna, invece, aveva centrato il punto. Non la solita storia del Giappone rivelazione, del portiere rivelazione (quale rivelazione, poi? Lui era considerato già da anni uno dei migliori estremi difensori della Bundesliga!). Poche, chiare domande su quella squadra nata anni addietro, cresciuta grazie alla caparbietà dei suoi componenti, che pur di migliorasi per realizzare il loro sogno avevano abbandonato la madrepatria, spargendosi ai quattro capi del mondo.
Corrette  erano state le sue osservazioni su quella partita, e su quella stretta di mano…
Karl, amico, compagno, capitano, gli aveva giurato che avrebbe vinto quel Mondiale anche per lui, anche per loro. Per quegli amici venuti da lontano a realizzare il sogno di una vita. Ma non era andata così. L’unica, magra consolazione, consisteva nel fatto che quell’Italia che li aveva travolti aveva poi sconfitto  la Francia conquistando l’agognato titolo.
“Dunque… a tra quattro anni!” le dita sottili sollevarono il calice in segno augurale, mentre l’azzurro degli occhi era percorso da un lampo di soddisfazione. Aveva ottenuto quello che voleva.
“Ai prossimi Mondiali…” un cenno del capo e nuovamente un sorriso accennato, gli occhi neri che non si staccavano da quelli zaffiro della donna. Provava gusto ad avere di fronte avversari di quel calibro. Avversario… si, tale la riteneva! Angela Weiss aveva fatto di tutto per scavare nel suo io. Non si era limitata ad intervistare il portiere. Lei voleva conoscere e far conoscere l’uomo.
Non amava quel genere di interviste, di solito, ma… Angela era riuscita a toccare le corde giuste senza risultare morbosamente curiosa come erano invece i suoi colleghi o peggio, le sue colleghe.
Forse per quello le aveva concesso più di ciò che non avrebbe mai pensato di raccontare ad un giornalista. E, tutto sommato, la cosa non gli dispiaceva.
“E un punto a Sanae…” le labbra rosse piegate in un sorriso divertito, accompagnato da uno sguardo di sensuale complicità.
“Già...” sorrise tra sé. Alla fine era lì anche per quello…
“Penso che domani le farò avere un mazzo di fiori e un biglietto di ringraziamento.” non le sfuggì la sottile ironia e neppure l’implicito invito a continuare la conversazione andando a trattare di tutt’altri argomenti.  Ringraziò mentalmente l’amica e si preparò per la nuova battaglia. Sarebbe stato uno scontro piacevole, non ne aveva dubbi, con quell’uomo dal fascino magnetico ma dall’animo riservato. Lei non si sarebbe accontentata di una conoscenza superficiale, no. 
Vino dolce, greco, color dell’ambra accompagnò l’ultima e più interessante parte della serata.
Ricordi di quand’erano ragazzini, l’amore per lo sport. La storia di una carriera in continua evoluzione, costellata di vittorie e riconoscimenti, e quella di una carriera interrotta. Dallo studio, dalle responsabilità e dagli incidenti. Si scoprirono più simili di quanto pensavano.
Un’ultima, maliziosa domanda.
“Nessuna donna, in tutti questi anni, che sia riuscita a far batter seppur per un secondo, il freddo cuore dell’SGGK?” un sorriso seducente che intendeva chiaramente un doppio fine.
Soppesò con cura quelle parole.
Soppesò la persona che aveva davanti.
Ripercorse quella serata e le sottili emozioni che aveva provato ad avere di fronte finalmente una donna che gli sapeva tener testa, come desiderava da tempo. Ma…
Si dovette arrendere all’evidenza.
Scosse leggermente il capo, socchiudendo gli occhi, la solita maschera sprezzante sul volto “No, nessuna. Mai.”
La verità. Pura e semplice. Non amava mentire e comunque non ce ne sarebbe stata ragione.
Eppure, il riconfermarsi di quella consapevolezza era stata una stilettata fredda nel petto.
“Peccato…” negli occhi azzurri sincero dispiacere.
“Vorrei farle leggere l’articolo prima di pubblicarlo…” quell’affermazione improvvisa lo sorprese non poco.
“Desidero solo avere la certezza di mandare in stampa un articolo che faccia piacere non solo ai lettori, ma soprattutto all’intervistato…”


L’ampio atrio vuoto e luminoso l’accolse silenzioso ancora una volta.
Chiuse il portone alle sue spalle e fece scorrere lo sguardo lungo le pareti e sui mobili eleganti ma severi che arredavano quell’enorme sala vuota… come il suo cuore. Quella similitudine lo colpì all’improvviso.
Qualcuno sarebbe mai stato in grado di riempire quel vuoto?
Ripensò alle parole della giornalista.
Serrò gli occhi, appoggiandosi pesantemente con le spalle al portone, il capo reclinato all’indietro. Ora non c’era nessuno che poteva vederlo, nessuno rischiava di carpire quel piccolo segreto. Si rilassò, sospirando, lasciando che l'inespressiva maschera di ghiaccio che sempre nascondeva i sentimenti più intimi scivolasse via.
Cercò nei meandri di quel suo cuore solitario una minuscola scatolina chiusa a chiave, uno di quei tesori che si mettono da parte quando si è giovani e si conservano per tutta la vita.
L’aprì, lasciando che il ricordo s’insinuasse piano nella sua mente.
Quegli occhi.
Quel sorriso.
Quel calore che gli riscaldava il petto mentre il cuore cominciava a battere veloce.
Un’espressione dolce, serena, sciolse finalmente i lineamenti severi del suo viso.
Riaprì gli occhi, guardandosi nuovamente attorno.
Il buio non era più tanto opprimente, la luce della luna lo scostava con soffice delicatezza.
Sorrise.
Sì, c’era ancora speranza che qualcuno riuscisse a riempire quel vuoto.
 

 


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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