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Autore: iusip    13/05/2007    1 recensioni
Questa ff è una AU, ambientata nel periodo in cui Ryo combatte come soldato nel Sud America. Shinichi Makimura è padre di due bambini, un maschio e una femmina. Soltanto la bambina sopravvive al massacro che colpisce la famiglia. Dopo 20 anni, Ryo Saeba e Kaori Makimura si incontrano di nuovo. Ma, questa volta, SENZA SANGUE. (Ispirato al romanzo omonimo di Baricco.) Buona lettura.
Genere: Romantico, Triste, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Hideyuki Makimura/Jeff, Kaori/Greta, Ryo Saeba/Hunter
Note: Alternate Universe (AU), What if? (E se ...) | Avvertimenti: nessuno
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“Makimura! Vieni fuori con le mani in alto, ti ho detto! Altrimenti per te e per i tuoi bambini sarà la fine!”

“Vai a farti sfottere, Kaibara!”

Shinichi si asciugò le lacrime sulla manica della maglietta di cotone che indossava.

Adesso non era più il momento di piangere, era il momento di combattere, e di morire, se fosse stato necessario.

Lanciò un fucile a Hideyuki e gli ordinò di nascondersi nel fienile.

“Ma papà, io voglio combattere al tuo fianco. Non voglio nascondermi come un coniglio.”

Dall’esterno una raffica di colpi si abbatté contro la casa, mandando in frantumi una delle finestre.

“Vai, ti ho detto! Non accetto discussioni.”

Spronato dal tono perentorio e disperato della voce del padre, Hideyuki si diresse verso la porta posteriore, da cui si poteva accedere direttamente al fienile.

Si rintanò in un cantuccio, pensando a suo padre e a sua sorella, e cominciò a piangere.

Era contento di essere solo, almeno così nessuno avrebbe potuto prenderlo in giro per la sua debolezza.

Il padre gli aveva detto di aspettare che tutto fosse finito e, comunque fossero andate le cose, di uscire dal fienile solo quando i nemici se ne fossero andati.

Poi doveva correre a riprendere Kaori dalla botola nella cantina, e insieme dovevano fuggire dal quel villaggio maledetto.

“Ultimo avvertimento, Makimura. Esci, o saremo costretti a venire a prenderti. E per te sarà la fine.”

In risposta, Shinichi cominciò a sparare attraverso la finestra rotta, abbassandosi poi quando i nemici rispondevano al fuoco, per evitare di essere ferito o ucciso da uno dei proiettili vaganti.

Avrebbe difeso quella casa a costo della vita, quei porci non avrebbero mai profanato quel luogo in cui aveva vissuto felice con Amy, prima, e con i suoi bambini, poi.

Ricaricò rapidamente il fucile e, approfittando di un momento di distrazione tra i nemici, cominciò nuovamente a sparare.

Un uomo lanciò un grido di dolore imprecando, evidentemente era riuscito a ferirne uno.

Da quello che era riuscito a vedere, gli uomini erano in tre.

C’era Kaibara, il suo braccio destro Martinez e il bastardo che aveva decapitato sua moglie, un americano di nome Eddie Brown.

Per un attimo gli era sembrato di vedere un bambino di nemmeno 10 anni, ma evidentemente si era sbagliato.

Pensò a sua figlia, che in quel momento si trovava qualche metro sotto i suoi piedi.

Lei avrebbe meritato una vita migliore, un padre migliore…

Di nuovo quel senso di oppressione, che gli impediva quasi di respirare, che gli creava un nodo doloroso in gola.

Per un attimo dimenticò la sparatoria, dimenticò la vendetta, davanti ai suoi occhi aveva solo il viso di sua figlia che gli sorrideva e gli diceva “ti voglio bene, papà.”

Poi, però, un proiettile sibilò vicino al suo orecchio, e la cruda realtà gli ripiombò addosso con tutto il suo insopportabile peso.

Scaricò un’altra cartuccia contro il capo dell’esercito e i suoi leccapiedi, sempre attento a non esporsi abbastanza.

Quelli erano soldati, sapevano il fatto loro.

Ma anche lui era un soldato, ed era un soldato animato dalla vendetta.

Improvvisamente, sentì la fredda canna di un fucile premergli contro la nuca.

“Non muoverti, Makimura.”

Era la voce di un bambino.

Ruotò lentamente il busto, ritrovandosi a fissare gli occhi neri come la morte di un bambino di nemmeno 10 anni.

Il bambino che aveva avuto l’impressione di vedere poco prima.

Era stato davvero silenzioso, non si era minimamente accorto della sua presenza, se non quando gli aveva premuto il fucile contro il collo.

“Getta il fucile, o ti sparo.”

“Calma, ragazzo. Calma.”

Ryo Saeba caricò il fucile.

“Gettalo, ti ho detto.”

Cautamente, capendo che la sua vita era finita, Shinichi posò il fucile sul pavimento.

Il ragazzo lo allontanò con un calcio.

Fuori, gli uomini dell’esercito continuavano a sparare.

“L’ho preso, Shin”, gridò Ryo, per farsi sentire al di sopra del rumore assordante delle detonazioni.

Immediatamente Kaibara e i suoi uomini smisero di sparare, sfondarono la porta ed entrarono nella casa.

Quando vide Makumura inginocchiato per terra, con le mani incrociate dietro la nuca e il fucile di Ryo puntato in testa, Shin sorrise.

“Bravo, ragazzo. Sono orgoglioso di te, lo sapevo che eri il migliore.”

Si avvicinò al guerrigliero, sferrandogli un calcio in pieno viso.

“Ci hai fatto perdere molto tempo, lo sai, Makimura?”

Shinichi sollevò la testa.

Del sangue colava dal suo labbro che già cominciava a gonfiarsi.

Sorrise, e il suo volto si contrasse grottescamente.

“Non ho paura di te, Kaibara. Potrai uccidermi, ma non sottomettermi, ricordatelo.”

Questa volta il calcio di Shin lo colpì nello stomaco, facendogli sputare saliva rossa.

“Lasciate in pace mio padre, bastardi.”

Shinichi sollevò immediatamente la testa, per la prima volta davvero terrorizzato.

Suo figlio era sulla porta posteriore, stringendo spasmodicamente un fucile tra le mani.

“Hide…vattene via! Immediatamente!”

Hideyuki caricò il fucile, puntandolo verso Shin Kaibara.

Urlando, di rabbia, di dolore, di disperazione, Shinichi vide suo figlio morire.

Una raffica di colpi, sparati da Shin, sollevarono Hideyuki da terra e lo scaraventarono contro la porta.

Il corpo si accasciò lentamente, striando la porta di legno con il sangue, accartocciandosi come uno spaventapasseri bruciato.

“No! No! No!”

Shinichi cominciò a dimenarsi, animato da una forza sovrumana.

Si avventò contro Kaibara, gettandolo per terra ed estraendo un pugnale dallo stivale.

“Sei morto, Kaibara.”

Ryo sollevò il fucile.

Sapeva cosa doveva fare.

Prese la mira, mentre la sua mente continuava a mostrargli l’immagine di un bambino della sua età che si accasciava senza vita davanti agli occhi di suo padre.

“Questa è la guerra, figliolo”, gli aveva detto una volta suo padre.

La guerra non distingue tra uomini, donne, vecchi e bambini.

Tutti sono uguali, agli occhi della terribile Signora.

Era la prima volta che gli tremavano le mani mentre impugnava un’arma.

Chiuse gli occhi, ormai vedeva chiaramente la testa di Shinichi Makimura anche ad occhi chiusi.

“È l’ultima volta che lo faccio”, si disse.

L’ultima volta…

Caricò il fucile.

L’ultima volta…

Sparò.

Il corpo dell’uomo si contrasse involontariamente, mentre il suo cervello andava in frantumi.

Kaibara se lo scrollò di dosso, la sua uniforme era sporca del sangue dell’ultimo dei guerriglieri di Pueblo.

Tuttavia l’uomo aveva notato l’esitazione negli occhi di Ryo, e ne era preoccupato.

Cosa gli era successo?

Aveva sparato altre volte, e i suoi occhi e le sue mani erano sempre state ferme.

Forse era necessario che lui lo rassicurasse, che si complimentasse con lui.

Si avvicinò al bambino – all’uomo – e gli posò una mano sulla spalla.

“Sei davvero un ottimo combattente, Ryo. Adesso perlustra la casa da cima a fondo. Dovrebbe esserci una bambina, da qualche parte. Potremmo venderla a qualche mercante, che ne dici, figliolo?”

Il ragazzo non rispose, allontanandosi da quell’uomo, la cui presenza gli era diventata ormai insopportabile.

Controllò tutte le stanze del piano terra, poi scese nella cantina.

Alla fioca luce che proveniva da una finestrella impolverata, si rese subito contro che c’era qualcosa di strano, in quella stanza.

Il pavimento era ricoperto di polvere, ma accanto ad una botte di vino, vi era striscia pulita, come se la botte fosse stata spostata di recente.

Afferrò la pesante botte con entrambe le mani, trascinandola verso sinistra.

Come aveva pensato, vi era una botola nascosta.

Si inginocchiò sul pavimento, poi afferrò l’apertura della botola e la tirò verso di sé.

La botola si aprì, rivelandogli uno spazio angusto al di sotto del pavimento.

Odorava di terra, ma anche di qualcos’altro.

Una sorta di profumo.

Poi la vide.

Era sdraiata sulla schiena e lo fissava.

Indossava una salopette e una magliettina gialla, e le sue gambe magre erano perfettamente allineate, quasi con geometrico rigore.

Aveva corti capelli rossi, tanto che all’inizio l’aveva scambiata per un maschio.

Ma la cosa che più lo colpì furono i suoi occhi.

Erano enormi, quasi sproporzionati per un viso piccolo come il suo, di un castano limpido e con calde sfumature più scure.

Erano bellissimi.

Si fissarono per un lungo istante.

Lei non disse una parola.

Lui non disse una parola.

Si rialzò, spolverandosi i pantaloni militari troppo larghi per lui, poi abbassò nuovamente il coperchio della botola e rimise la botte di vino al suo posto.

Salì le scale e ritornò in cucina.

I corpi dell’uomo e del bambino erano ancora lì, immobili nella perpetua rigidità della morte.

“Allora, ragazzo? Trovato niente?”

Ryo scosse la testa.

“Evidentemente la figlia gli era d’intralcio nella sua inutile e ridicola battaglia e così l’ha mandata via. Bene, adesso possiamo andarcene.”

Abbandonarono la casa, senza parlare.

Solo l’americano rimase indietro.

Salirono sulla jeep, aspettando l’uomo, che dopo un attimo li raggiunse.

“Cosa stavi facendo?”, gli chiese Ryo.

L’uomo sghignazzò con la sua bocca oscena.

Gli mancavano due denti.

“Adesso vedrai, ragazzo. Sei pronto per i fuochi d’artificio?”

La casa di Makimura stava cominciando ad ardere lentamente.

“Perché l’hai fatto?”

“Che serva da monito per tutti coloro che hanno intenzione di ribellarsi a noi. Pueblo è nostro, ormai, e questo è ciò che succederà ai disobbedienti.”

Ryo osservò le fiamme lambire dolcemente la casa.

Una strana sensazione lo opprimeva.

Non parlò a nessuno di quello che aveva trovato nella botola, nemmeno a Shin.

Ma gli occhi di quella bambina senza nome e senza voce lo tormentarono per molti, molti anni.
  
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