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Autore: thestarsareout    31/10/2012    3 recensioni
Storia di cinque personaggi le cui vite si intrecceranno, sotto la guida dell'innovativa tecnica psicologica della dottoressa Roth. Saranno presenti molti conti: con i sentimenti, se stessi e i propri pensieri, il mondo e le proprie aspirazioni. Ah, beh, e poi c'è quel barattolo che cambierà le loro vite.
Genere: Commedia, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo II - Depressione.

 

La dottoressa Roth si avvicino a Cliff con il suo solito sorriso, accorgendosi delle lacrime trattenute a difficoltà.

«Stia tranquillo» gli diede una dolce pacca sulla spalla e poi gli mostrò il barattolo: era il suo turno.

«Ma può non capitare il mio» obiettò lamentandosi triste.

«E’ proprio questo il nostro scopo» sospirò, cercando di essere il più chiara possibile «Il rapinatore vi ha costretto ad intrecciare volenti o nolenti le vostre vite: noi le legheremo definitivamente. Non tutto il male viene per nuocere e, magari, ne uscirà qualcosa di buono da quest’esperienza».

«Ne dubito» pronostico l’uomo che, al ricordo di quelle ore, gli veniva ancora la pelle d’oca.

E non solo.

«Legga a voce alta» rammentò la dottoressa quando ebbe pescato il bigliettino.

«Visitare Parigi».

 

La dolcissima psicoterapeuta gli aveva assicurato che tutte le spese sarebbero state coperte dalla banca, ma lui non trovò –neanche al pensiero di vacanze gratis- una qualche sorta di stimolo per affrontare con  entusiasmo quell’avventura.

Anzi, in quel periodo davvero pochi sorrisi si affacciavano dal suo viso.

Sbuffò mentre faceva un giro di ricognizione per appuntare i, fortunatamente non molti, clienti che avrebbe dovuto avvertire della posticipazione delle riparazioni. Era una persona ordinata, dunque non aveva avuto bisogno di perdere troppo tempo nel ripulire l’officina e, nel giro di un paio d’ore, avendo finito, si apprestava già ad abbassare la saracinesca.

In quel momento si ritrovò a pensare che mai aveva chiuso per così tanto tempo.

Beh, forse quella volta in cui non si era ben curato la polmonite e l’avevano dovuto ricoverare d’urgenza all’ospedale. Tre giorni e poi aveva praticamente costretto i dottori a dargli il permesso di dimissioni.

Neanche quando era morto suo padre aveva chiuso: tenere aperta ed efficiente quell’officina, per la quale lui aveva sacrificato vita e risparmi, gli era sembrata la migliore dimostrazione d’affetto e rispetto che avrebbe potuto fare. Da quel giorno, decise che non avrebbe mai potuto chiudere.

Così aveva abbandonato quella sua infantile idea dell’università di lingue per dedicarsi ad oli e motori. Sua madre avrebbe preferito che decidesse anche di tornare a vivere con lei, ma il suo diniego era stato perentorio. Si disse che magari avrebbe dovuto avvisarla della sua partenza, tanto per non allarmarla nel caso fosse passata dall’officina e l’avesse trovata chiusa.

Era così immerso nei suoi pensieri che non si accorse dell’uomo che gli si era avvicinato –e spaventato-  dandogli un’ amichevole pacca sulla spalla. 

«Ehi, amico!» il sorriso a trentadue denti era l’arma che Charles usava più di frequente per accalappiare tutte le sue prede.

«Ehi…».

«Ragazzo, ancora questa voce moscia?» punzecchiò, stanco di vedere l’amico che, da più di un mese a quella parte, si mostrava in giro come un sacco di patate svuotato della sua essenza.

«Lascia perdere» finì di bloccare il catenaccio e fece per salutarlo.

«Che ne dici di andarcene al Super Taste? Non c’è niente che quel locale non riesca a sollevare!» i due, più di dodici anni prima, si erano incontrati lì, dove Charles lavorava dopo la scuola e Cliff comprava i suoi adoratissimi noodles.

«Sinceramente? Non ho molta fame» disse dispiaciuto, ma era vero: il suo stomaco era completamente chiuso.

«Stai facendo una qualche dieta del tipo solo pompelmi?» Lo squadrò critico «Ti vedo molto sciupato…»

«Charles sto bene» calcò, stanco di dover partecipare continuamente a conversazioni di questo genere.

«Ti dispiace lasciarmi in pace? Forse è proprio il tuo istinto da mamma chioccia a farmi soffocare» accusò, invaso da un repentino moto di rabbia.

Ma come venne se ne andò ed il suo animo fu devastato da senso di colpa e tristezza.

Da settimane il suo umore oscillava: come un pendolo impazzito gli faceva attraversare stati di depressione, inappetenza, agitazione, tristezza e crisi di pianto.

Come l’altro giorno in cui, per nascondersi alla vista dei suoi dipendenti, era rimasto più di mezz’ora sotto la macchina che stava revisionando a singhiozzare silenziosamente.

Era stremato.

E il lampo di delusione negli occhi Charles lo ferì –se fosse stato possibile- ancor di più.

Sapeva anche che sarebbe stato inutile scusarsi in quel momento perché il corpo dell’amico, sfregandosi nervosamente le mani, era già proteso ad andarsene.

Si ripromise che più tardi l’avrebbe chiamato.

«Beh, ci sentiamo Cliff» sospirò con un’alzata di spalle «Ti sta bene questo nuovo look barbone trasandato, inclusa la barba» scherzò sorridendo mesto,  mentre si allontanava.

Il barbone trasandato non rispose, ma si toccò perplesso la barba.

 

Montmartre, il Museo D'Orsay, il Louvre, la Tour Eiffel, Notre Dame e La Sainte Chapelle.

Erano richieste ragionevoli, se ne rendeva conto.

L’arzilla signora Morgan gli aveva consegnato, prima della fine della seduta di gruppo, un bigliettino dove aveva velocemente appuntato ciò che avrebbe dovuto assolutamente vedere.

Il suo sguardo speranzoso l’aveva destabilizzato, tanto che le sue lacrime –al massimo dell’attività in quel periodo- avevano minacciato una parata in grande stile.

Così l’aveva preso, ma era certo che non avrebbe visitato niente di niente.

Era troppo tempo che suoi nervi erano tesi e attorcigliati: non una lacrima per il padre, per i film horror che era costretto a vedere da bambino, per la frattura al braccio, per il rogo della sua intera superspeciale collezione di figurine. Ma oramai bastava un viso gentile, una parola o il miagolio di un gatto per sentire un tremolio alle labbra e un punzecchio agli occhi.

Era diventato una donnetta.

E poi la notte. Dio. Prima che Morfeo gli permettesse di scivolare nel sonno, era condannato a dover rivivere tutta l’agonia.

Aprire la porta della banca.

Sulla soglia aveva pensato ciò che tutti pensarono dando un primo sguardo intorno: non uscirò mai più da qui. No, non c’era stato alcun sentore della tragedia ma solo dell’enorme mole di tempo che avrebbero perso dal momento che, su dodici, solo cinque sportelli erano attivi.

Lui si sedette –erano rimasti tre posti liberi su ottanta- infastidito, mentre la guardia vicino all’ ingresso continuava ad osservarlo con un misto di sospetto –per la sua tuta sporca da meccanico- e tracotanza.

Esultare per l’arrivo del turno.

Era stanco e non vedeva l’ora di andarsene da lì per raggiungere Charlie al Super Taste. L’impiegato era lento e annoiato e ciò non faceva altro che aumentare la frustrazione che quell’unico intrattenimento mensile alla banca gli procurava.

Sentire le urla.

Le prime erano state femminili ma, focalizzando, anche gli uomini non si contennero più di tanto. Ne ricordava particolarmente una, uno stridio lungo e terrorizzato.

Poi il buio.

Ovvero, la sua mente obliò tutte le immagini e i ricordi che percorrevano gli eventi dallo sportello al caveau dove era stato legato come un salame.

Dalle sedute e dai racconti dei suoi sfortunati compagni si era evinto che tutti e cinque erano allo sportello al momento del primo sparo e delle prime  grida, e che tutti e cinque erano stati trascinati fino al deposito.

Volontari.

Questa era la prima cosa che non gli tornava: aveva contato, compreso il signor Lowener, dieci rapinatori.

Nove aiutanti che, durante la negoziazione, si scoprirono essere volontari. Nel senso che altre persone –delle quali due erano anche degli sconosciuti- si erano immolati per la causa. Una causa che avrebbe potuto spedirli in galera per un bel po’ di anni. Ma il caro signor Lowener -Carl Lowener, per amor di precisione- aveva negoziato, rilasciando buona parte degli impiegati e degli ostaggi, per assicurarsi la loro immunità.

I vari reportage sul caso, che avevano dominato a tutte le ore la tv, fecero varie supposizioni su come la banda criminale si fosse messa insieme: gruppi su facebook, inserzioni criptate, società massoniche.

La verità, per quanto relativa fosse potuta essere, era che c’erano degli esseri umani che, anche se in modo stravagante e pericoloso, avevano ancora nei cromosomi il concetto di solidarietà.

Semplicemente avevano voluto aiutare quel poveraccio.

Cliff era un appassionato di film thriller e possedeva nel suo monolocale una  videoteca pressoché infinita –per quanto l’estensione dell’abitazione permettesse l’uso dell’aggettivo infinito- che spolverava lui stesso. Aveva visto innumerevoli volte John Q. e non aveva avuto problemi, mentre il nastro adesivo gli segava e irritava la pelle, a fare un parallelismo cinematografico. John era un uomo che viveva una vita modestissima, anzi povera, con moglie e figlio. Quando si scoprì che il bambino era affetto da una pericolosa malattia cardiaca, che presto gli sarebbe costata la vita se non si fosse intervenuti con un trapianto, John Q iniziò a provarle tutte, subendo delusioni, inganni e arbitrii nei vari ospedali. Così, rendendosi conto che il figlio sarebbe morto senza che lui potesse farci niente, decise di agire con violenza prendendo in ostaggio alcune persone di un ospedale, compreso il chirurgo.

Denzel Washington/John Q non era altro che Carl Lowener. 

Carl ne aveva quattro di figli ed una moglie. Entrambi disoccupati –lui licenziato da vari mesi- avevano provato a farsi assumere da qualche parte, qualsiasi parte, e in ultimo chiedere aiuto alla banca. Ma era stato inutile: il pignoramento della casa, per il mutuo non estinto, era inevitabile.

Ciò che Cliff ricordava più lucidamente di quelle ore era la camminata nervosa e rettilinea –avanti e indietro- per il caveau, con la pistola che ondeggiava nella sua mano destra, e i deliri sconnessi dell’uomo: dove andremo a vivere, a dormire, se non abbiamo neanche una macchina? Con quattro figli poi! August, Andrew, Adrian e  la mia piccola principessina Aretha. August non ha neanche sette anni. August perché lo concepimmo una notte di agosto dal cielo stellato… Oh! Come possono essere vividi i ricordi: ci sdraiammo sul giardino del retro della casa di suo padre e avevamo così tanta energia, così tanta voglia… di correre a piedi nudi lungo la strada, di cambiare il mondo, di amare il mondo. Avevamo raccolto coperte e cuscini, anche se il nostro solo calore sarebbe bastato, e giacevamo là fuori sotto la pioggerellina estiva che bagnava la nostra pelle nuda. Quando iniziò il temporale ritornammo nel letto della sua camera ed io rubai questo piccolo scatto per renderci infiniti. Così stropicciava teneramente quell’istantanea che si macchiò del suo stesso sangue quando si accorse dell’incursione degli agenti di polizia.

Bam.

Era stato improvviso, così come tutto ciò che era avvenuto quel giorno.

Improvvisamente lui sbarrò gli occhi, come colto da una verità straziante, e utilizzò la pistola contro di sé.

Dopo quell’ultima scena Morfeo, avendo forse pietà di lui e del suo povero animo, gli concedeva una breve e scomoda dormita.

 

Non usciva dalla sua camera d’albergo da quattro giorni: la maggior parte del tempo l’aveva impiegato sdraiato sul letto, con le lenzuola fin sopra la testa o intrecciate al corpo, muovendosi poco, quasi niente.

Beh, certo, tranne che per andare in bagno e spiluccare quale minuzzaglia dal grosso zaino che si era portato. Dunque merendine, barrette e succhi di frutta.

Toc-toc. 

«Servizio in camera!» annunciò una voce femminile.

No, non di nuovo! Pensò Cliff esasperato per poi schiarirsi la voce ed esibirsi nelle sue tradizionali (ed anche appartenenti ai bei tempi andati)  esposizioni baritonali.

«Vada via!» ruggì.

Per ben quattro volte era andato a segno e la cameriera aveva girato i tacchi. Ma, a quanto pareva, per quel giorno era destinato a non avere fortuna.

«Apra o butto giù la porta!» minacciò la donna.

Dopo tanto tempo, un sorriso fece capolino tra le sue labbra. Non gli sarebbe dispiaciuto restare sdraiato ed aspettare la sua prossima mossa, ad esempio il come avrebbe avuto intenzione di buttare giù la porta, ma l’insofferenza ebbe la meglio e decise di aprirla rendendole la vita più facile.

«Era ora» esordì, squadrandolo brevemente –ma in modo sprezzante- dalla testa ai piedi «E’ una delle nostre migliori suite, non dovrebbe alloggiarci come un barbone» commentò, avanzando con il carrello delle vivande.

Lui pensò che forse Charles si era sbagliato: non gli stava propriamente bene il look barbone trasandato. Sorrise, di nuovo, assicurando a se stesso che non gliene fregava un cazzo.

Ah! Si fece sfuggire anche un sospiro pago: aveva detto una parolaccia. Quanti mesi era che non accadeva? Certo, l’aveva fatto nella sua mente e cazzo non era decisamente una delle più sboccate, ma si ritenne ampiamente soddisfatto.

«Rida pure signor…».

«Cliff» aveva sempre odiato gli inutili formalismi: quella ragazza avrebbe potuto benissimo avere la sua età, se non essere addirittura più giovane, perciò non aveva alcun senso farsi dare del lei. Lo faceva sentire più vecchio di quanto già si sentisse in quel periodo.  

«Bene, rida pure signor Cliff, lieta di esserle stata d’intrattenimento» evidentemente lei non era della stessa idea e voleva continuare a mantenere le distanze «Arrivederci, si goda il soggiorno» augurò con tono sarcastico, dimostrando di essere abbastanza sveglia da capire che quell’uomo non l’avrebbe mai fatto. Scosse la testa, come delusa, e indietreggiò guidando il carrello verso l’uscita.

«Aspetta!» esclamò d’impulso l’altro, pentendosene subito dopo: avrebbe dovuto, alla svelta, inventarsi un motivo per quella sua scena da film romantico. Era diventato una ragazzina, certe realtà non si potevano ignorare «Ehm, si sta riportando il cibo?».

E bravo lo stupido. Come certe realtà non si potevano ignorare, alcune non sarebbero mai cambiate: le figure di merda facevano parte del suo corredo genetico. Ah! Altro sospiro soddisfatto: non magre figure, ma di merda. Allora stava davvero migliorando.

«Io…» fece per scusarsi, abbassando difatti la testa, ma poi, di scatto, la rialzò come se si fosse convita, durante quei pochi attimi, di non aver nulla di cui scusarsi «Il carrello è vuoto, era un pretesto per conoscerla, dato che da giorni le mie college non riuscivano ad entrare» la confessione sarebbe potuta pur essere una pompata per il suo floscio ego ma lei continuava a guardarlo delusa e, ci avrebbe scommesso due noodles caldi, infastidita. Infastidita! Come se disponesse del diritto per esserlo! Lui lo era, lui solo. Ma intanto, non era in grado di mostrare il suo ormai consueto lato beffardo ed, al contempo, afflitto.

«Che ti aspettavi?» chiese curioso mentre, incurante del suo pigiama grigio incollato alla pelle da giorni, si ridistendeva sul letto incrociando le braccia dietro la nuca. Lei guardò seccata l’orologio poi, evidentemente, pensò di avere tempo per una veloce delucidazione.

«Mi aspettavo un’artista» confessò appassionata «Non eri un violinista, perché nessuno aveva sentito le tue prove, ma saresti potuto essere un pittore, uno scrittore, persino un attore» azzardò  «Ti ha tradito il servizio in camera: insomma, anche i migliori artisti hanno bisogno di almeno uno spuntino, soprattutto quelli che non escono dalla propria suite da giorni». Era passata al tu! Questo lo rinfrancò.

«Chi ti dice che non lo sia?» tentò con voce misteriosa ma lei, in risposta, lo guardò con i suoi grandi e scintillanti occhi color cioccolato, così belli che il suo entusiasmo si smorzò e si decise a non insistere nella pantomima e a lasciarla concludere.

«Sei un idiota al quale qualcuno avrà pagato il viaggio» sbottò velenosa infischiandosene dei limiti «Perché nessuno, e ripeto nessuno, neanche uno tra i più impegnati manager, alloggia a Parigi e non mette fuori il naso nemmeno per respirare la sua aria incantata» accusò arrabbiata «Sei un idiota perché incantata è un aggettivo che si usa solo per le fiabe e questa città lo è, è una fiaba: ti possiede in modo dolce e fa sì che tu rimanga affascinato dai suoi colori, dalle sue musiche, dai suoi profumi» in quel momento si accorse di essersi così lasciata andare da fermarsi di botto. Si sistemò i capelli, raccolti in un severo chignon, e riprese –per finirlo definitivamente- il filo del discorso, questa volta in una maniera parecchio più pacata che ebbe, se possibile, molto più effetto.

«E’ un idiota, e non può convincermi diversamente» tornò rigorosa al lei «perché è proprio da idioti snobbare una città del genere, una città che si vuol visitare anche con la febbre a quaranta» fece un respiro e trascinò il carrello fuori prima di una qualsivoglia reazione, prima addirittura che lui riuscisse a pensare ad una qualsivoglia reazione.

Rimasto con le braccia incrociate dietro la nuca, i gomiti iniziavano a dolergli ma se ne infischiò: era scioccato e senza parole, tanto da non essere capace di pensare a ciò che gli era stato detto. Pensava più al come: nessuno gli aveva parlato così da quando… insomma… da quando…

«Da quando mi sono ucciso» rispose una voce per lui.

Cliff girò la testa di scatto per ritrovarsi, disteso accanto, il corpo di Carl Lowener con tanto di pistola e pallottole che squarciavano dei suoi brandelli di carne. Fu in quella situazione che si rese davvero conto di cosa significasse rimanere senza parole: prima era solo confuso e forse stava manifestando un segno di qualche suo ritardo mentale, adesso aveva la gola dolorosamente serrata e le lacrime agli occhi.

«Ho capito, parlo io» s’impegnò il fantasma o qualunque cosa fosse «Intanto non sono un fantasma ma un’allucinazione causata sia dalla tua scarsa alimentazione che dalla tua forma di depressione che ti dà la sensazione che il defunto, ovvero io, sia in qualche modo ancora presente» sospirò sereno «Ho intenzione di dirti che sei un idiota, non di spiegarti alcun perché» chiarì inflessibile, riferendosi al proprio suicidio «D’altronde sono  frutto della tua immaginazione e tu, il perché, non lo sai. Piuttosto: smettila di continuare a fissare le mie ferite, non distrarti. Sì, sono vestito proprio come quel giorno… con il vecchio completo di sartoria sgualcito. Ora basta! Concentrati! Sei un’idiota perché avresti dovuto fermarla, anche con un “aspetta” da ragazzina.  Che ne pensi di offrirle una cena? Sì, questa sera. Dai, lo so che ami mangiare e che, anche se possiedi un’imbastitura rozza –chi avrebbe potuto, se non tu, scrivere nel bigliettino “mangiare, sotto le coperte, ciambelle per una settimana intera”?- ci sono buone possibilità che il cibo parigino ti conquisti» spronò «Che aspetti?».

Si svegliò di soprassalto e annaspò. Annaspò come se fosse stato per un’infinità di minuti sott’acqua e ora, finalmente fuori, prendesse il primo vero respiro. Era solo un incubo, si disse, ma non poteva fare a meno di pensare a quei fori di proiettile.

Ora basta! Concentrati!

Il ricordo lo fece sussultare. Era normale che rammentasse tutto in modo così vivido? Le immagini degli incubi dopo pochi minuti non si sarebbero dovute annebbiare? Fece mente locale su ciò che era accaduto prima che si assopisse in modo così inaspettato.

Beh, era appoggiato sui bicipiti, che gli facevano un male cane, e stava ripensando all’ultima volta che aveva avuto una conversazione così sincera. E si era addormentato, bam, senza Morfeo che facesse i capricci, senza il consueto tour degli orrori, senza difficoltà.

Sospirò e decise di stiracchiarsi. Uhm, ora sì che andava meglio.

Prese dalla valigia il beauty case che, per uno strano e fortuito caso, aveva gettato tra la roba da portare e ci rovistò dento. Ottimo! Schiuma da barba e lametta rispondevano all’appello. Non aveva intenzione di radersi del tutto, in fondo gli piaceva davvero quel suo nuovo look, ma voleva comunque darsi una sistemata. Diede un’altra occhiata all’interno del bagaglio e, sempre per fatalità, ci trovò con sommo stupore uno smoking. Oh, anche il papillon. No, non era fatalità: si chiamava culo.

Non fu cosciente per cosa o per chi si stesse agghindando fino a quando non si ritrovò nell’atrio dell’albergo. Atrio che, al suo arrivo, aveva praticamente attraversato bendato e ignaro della sua magnificenza: aveva un soffitto trasparente a volta e un’abbondanza di poltrone all’apparenza comode e costose che avrebbe fatto invidia ad una stazione. Tutto in tinta, oro e bordò, gli si palesava accuditissimo. Anche il tipico campanello da reception, grazie al quale aveva attirato l’attenzione dell’ impiegata, era in pendant.

«Prego: come posso esserle utile?» una biondina, con lo stesso chignon e, più o meno, età della cameriera gli fece un largo sorriso.

«Ehm» s’imbarazzò, com’era solito fare in quelle assurde situazioni, ma poi sorrise anch’egli, esibendosi nei suoi venti secondi vitalizi di coraggio «Oggi è entrata nella stanza una signorina, mora, occhi grandi e castani, parlantina sferzante e ironia da vendere. C’è qualcuno, tra i dipendenti, che corrisponde a questa descrizione della quale mi potrebbe dare il numero?».

Respiro. Okay, iperventilazione scongiurata.

Il secondo sorriso che la receptionist gli rivolse lo fece ben sperare e si rilassò.

«Non proprio, ma c’è una ragazza che, uhm come dire, stacca ora» guardò l’orario «La può attendere dietro quella porta» gliela indicò con il dito con l’unghia fresca di manicure.

Lui, come sempre, rimase così intontito da dimenticare di ringraziarla anche se era stato frainteso alla grande: non era uno di quegli stupidi che faceva descrizioni di ragazze da portarsi a letto rivolgendosi ad un magnaccia. Era un altro tipo di stupido, del tipo che rimaneva impalato, come un bambino di fronte all’entrata dello stadio il giorno del derby, nel ritrovarsi faccia a faccia con quegli occhi grandi. E belli.

«Che ci fa lei qui?» inarcò un sopracciglio sospettosa. Poi lo squadrò, proprio come aveva fatto qualche ora prima, solo con un risultato diverso… quasi ammirato.

Altri venti secondi bonus di coraggio.

«Sa… sai» si corresse. Oh, per favore! Non fare la figura dell’idiota imbranato «Quando sei salita e mi hai… redarguito» ecco a cosa serviva leggere qualche quotidiano «in quel modo… beh, ho riflettuto molto ed hai ragione. No, non hai solo ragione. Devo confessarti di aver vissuto una brutta… esperienza… e che tu mi hai aperto gli occhi. Voglio dire: si deve tornare a vivere, no? E sarebbe un peccato non iniziare a farlo proprio qui a Parigi. Con te».

Dio mio! Aveva il respiro affannato e le ascelle completamente fradicie, tanto che ebbe l’impulso di idolatrare la marca di deodorante che gli stava permettendo di non allontanarsi per il fetore. Neanche le avesse dichiarato il suo amore o proposto di matrimonio. No, aveva fatto di più.

«Qualcuno ti ha detto qualcosa?» chiese diffidente e per nulla turbata dalla confessione.

«Eh? Chi? No!» Un idiota, un idiota.

Un idiota che si sentì l’uomo più potente quando lei gli mostrò, per la prima volta, il suo sorriso. Era bello, proprio come i suoi occhi, e così lo erano i suoi denti bianchi e dell’esatta misura per essere scoperti dalle sue labbra, e le graziose fossette sotto gli zigomi temporaneamente visibili.

«Anch’io ti devo confessare una cosa…» oh, ma allora non era immune all’ imbarazzo! «Sono la proprietaria dell’albergo»  disse velocissima.

«Come scusa?».

Lei sbuffò frustrata «Sono la proprietaria dell’albergo» ripeté scandendo le parole con rassegnazione.

«Ah» commentò da ebete, evidentemente affezionato alla sua famigerata idiozia.

«Ah?»

«Ok? Dico, va bene, no?» era confuso. Cosa avrebbe voluto dicesse?

«Sei sorpreso?».

«Un po’» ammise «Perché ti sei vestita da cameriera?».

«E’ una lunga storia…» divagò «Mi dispiace per come ti ho trattato» si scusò sincera, premurandosi di accompagnare tutto con uno dei suoi sorrisi. Più timido, il secondo.

«Hai avuto una bella faccia tosta!» commentò scoppiando a ridere Cliff, ricordando la scena.

«Perché ho utilizzato i miei venti secondi vitalizzi di coraggio» spiegò con un alzata di spalle  «Comunque sono Liz» gli porse la mano e sfoggiò il suo terzo sorriso.

Sessanta secondi di coraggio avrebbero fruttato trecento euro al proprietario del bistrot all’angolo, il nomignolo “cupido” a Gin, la receptionist di turno quel giorno, altri quattro, no cinque.. beh, altri innumerevoli sorrisi a Liz ed il primo di tanti sonni ristoratori a Cliff.

Per scoprire il valore di un minuto non c’era bisogno di perdere il treno, il bus o l’aereo: bastava utilizzare i suoi sessanta secondi con coraggio.

 

»Ecco la fine di un altro capitolo.

Intanto mi scuso tantissimo per il ritardo e colgo anche qui l’occasione di ringraziare particolarmente Sem per il suo supporto! Poi, come avete potuto intuire ogni capitolo parlerà di un personaggio in terapia e andiamo in ordine decrescente: accettazione, depressione, patteggiamento, rabbia e negazione. Dunque a rigor di logica mancano tre capitoli e altri tre personaggi da conoscere.

 Ditemi che ne pensate, aspetto con ansia i vostri commenti! (:

Un bacio, Eliana.

P.S. siete tutti dolcissimi :’)

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