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Autore: elena_mikaelson    01/11/2012    1 recensioni
[Famiglia Mikaelson, Ayanna, Tatia Petrova, Nuovo Personaggio]
Dal prologo:
Era il tempo il vero problema. Il tempo, non la fame né il vampirismo. Era l’eternità. Ma chi di loro poteva affermare di aver davvero vissuto il tempo? Erano stati tanto impegnati a fuggire, a mentire, a uccidere da tralasciare la propria mera esistenza.
Genere: Dark, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Klaus, Kol, Mikaelson, Nuovo, personaggio, Rebekah, Mikaelson | Coppie: Damon/Elena, Katherine/Stefan
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
Capitoli:
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Mellan fred och krig

 


V’era stato un tempo in cui il mondo era un luogo retto e giusto, in cui la Natura governava sugli uomini come una monarca mite e semplice da soddisfare nei suoi desideri. V’era stato un tempo in cui gli uomini erano stati legati alla terra dalla quale raccoglievano i frutti che essa offriva loro senza bramare un qualche baratto o una qualche permuta, ad essa erano fedeli e verso di essa rivolgevano i propri riti e le proprie implorazioni. V’era stato un tempo in cui l’amore degli uomini era stato incondizionato e puro, in cui la famiglia era stata l’entità principale che accumunava tra loro persone differenti. Dopo molti secoli si sarebbe faticato a credere che un tempo v’era stata pace in un luogo in cui v’era, sin da memoria d’uomo, sempre stata guerra e distruzione. Sì, v’era stata la pace. Ma la pace era effimera, fragile, come un temporale estivo dopo il quale la terra, prima inumidita e feconda, ritornava arida e assettata sotto l’azione del Sole sovrano. E dopo la pace v’era la guerra. La guerra che mieteva vittime, la guerra che portava distruzione. La guerra che spezzava persino il più solido dei legami. La guerra che portava con sé l’acre sapore della morte.
 
La scoperta di un Nuovo Mondo aldilà dell’Oceano aveva portato con sé un periodo di grande serenità e produttività all’interno delle popolazioni vichinghe che ne avevano appreso la locazione grazie a un antico incanto. La traversata era stata lunga e difficoltosa, più volte l’equipaggio aveva paventato di non poter scorgere mai più la terra. Infine, però, erano approdati sulle coste di un nuova landa non ancora civilizzata appieno. Una landa in cui non esistevano malattie, in cui la peste che infuriava nell’anticha Europa non era in grado di colpire, in cui nessuno avrebbe perduto la propria progenie a causa di infezioni e cattivi contagi. Erano trascorsi oramai venticinque anni da quando le antiche popolazioni vichinghe si erano insediate e avevano costruito villaggi nell’entroterra del Nuovo Mondo, come solevano appellarlo. Avevano partorito figli, avevano convissuto con gli abitanti del posto e avevano portato la propria cultura amalgamandola, seppur con qualche difficoltà da parte di entrambe le differenti culture, con quella locale. Un villaggio di discrete dimensioni, contenente cinque famiglie numerose, era situato al fianco di una tribù nei pressi di una cascata da cui era stato generato un fiume dalle acque limpide e pure. Era un villaggio pacifico e lì vi abitava la strega che aveva scoperto quelle terre. Il suo nome era Esther e, nel Vecchio Mondo, era la stata la figlia del sacerdote di un paese dell’odierna Svezia. Lì aveva incontrato suo marito, Mikael, il figlio del capo villaggio, e lì aveva partorito il loro primogenito. La morte l’aveva chiamato a sé a pochi anni dalla sua nascita e ciò spezzò il cuore di entrambi i coniugi, procurando una ferita che non sarebbe mai più stata rimarginata. Nel Nuovo Mondo avevano avuto altri cinque figli maschi, tutti in buona salute e oramai abbastanza grandi da poter maritarsi, ad eccezione dell’ultimo, e una figlia, bella e nobile d’animo, che presto sarebbe potuta essere considerata una perfetta fanciulla per un uomo vichingo. Il suo nome era Rebekah ed era una giovane donna dai lunghi capelli di un biondo chiaro e dagli occhi azzurri, ereditati entrambi dal padre che l’aveva amata e protetta sin dal primo vagito. Era bella, Rebekah, tanto da aver attirato gli sguardi di molti pretendenti sia nel proprio villaggio che in quelli limitrofi, ma la fanciulla bramava delle qualità che pochi possedevano e aveva pregato il padre di non obbligarla nella scelta. Mikael aveva accettato senza alcun commento, intimamente fiero che sua figlia, nipote di un grande condottiero, non si accontentasse e ricercasse il meglio. Poiché Mikael riteneva che Rebekah, come tutti i suoi figli, fossero il meglio. Rebekah era bella, candida e pura come un fiore, come un giglio o un’orchidea rosa, era legata ai suoi fratelli, a tutti, ed aveva un buon carattere, sebbene talvolta eccedesse nei desideri e fosse troppo sognatrice. Quella mattina Rebekah si svegliò, desiderando di poter fare una duratura passeggiata con la sua migliore amica. Quella mattina Rebekah si destò con un sorriso, non sapendo che di lì a poco tutta la sua contentezza sarebbe scomparsa. Mentre si bagnava il viso con la gelida acqua di fonte che sua madre aveva lasciato nel catino e si pettinava con solerzia, il sorriso si mitigò, ripensando alla sera precedente. Indossò la tunica di colore verde smeraldo e avanzò verso la stanza principale della sua casa di modeste dimensioni. V’erano principalmente quattro stanze in essa, e per le abitazioni dell’epoca era paragonabile a una reggia: una dedita ai pasti, le altre tre erano le camere da letto, l’una per i coniugi, una singola per Rebekah e l’altra, la più grande, per i suoi fratelli. Rebekah camminò velocemente per il corto corridoio e vide che suo padre era già seduto a capotavola intento a discorrere con sua madre che stava preparando la colazione.
«Buon giorno, padre. Madre,» augurò loro con un dolce sorriso ricambiato da entrambi prima di sedersi alla sinistra del genitore. Dei suoi fratelli non v’era ancora l’ombra. Si stavano preparando alla caccia. Era il loro turno di allontanarsi dai confini per avvicinarsi alla Grande Foresta ove vivevano animali di ogni specie che li sostentavano.
« Rebekah, figliola, chiama tuo fratello,» mormorò Esther, dispiaciuta, ma con un velo di rimprovero nei confronti del marito che s’era irrigidito. Rebekah annuì, più mesta e triste, poi si alzò e si diresse verso la porta. Suo fratello, Niklaus, la sera precedente, in seguito a un suo commento negativo sulla necessità di diboscare la foresta per costruire un tempio in onore di Odino, aveva ricevuto una punizione, come tante ne aveva subite sin dalla più tenera età. Mikael l’aveva obbligato a rimanere sveglio tutta la notte per tagliare la legna e accatastarla in modo ordinato e preciso. Oramai tutti nel villaggio erano a conoscenza dell’astio vigente tra Mikael e Niklaus e molti ritenevano che fosse del tutto ingiustificato poiché conoscevano bene il ragazzo e lo reputavano degno di stima e lode per le sue idee e la sua arguzia. Rebekah trovò il suo fratello maggiore seduto accanto al catasto di legna ben affastellata con le spalle poggiate al muro ligneo della parte orientale della loro abitazione, con le gambe allungate dinanzi a sé e gli occhi chiusi. Gli rivolse uno sguardo dispiaciuto e intenerito, sebbene non potesse vederla, e si inginocchiò al suo fianco, sfiorandogli gentilmente la camicia candida. Niklaus aprì subito gli occhi e si guardò intorno per poi incontrare quelli sinceri e brillanti della sua sorella tanto adorata.
« Nik, è pronta la colazione. Torna in casa,» mormorò dolcemente, carezzandogli i capelli biondi, ricci e lunghi sino alla nuca. Gli occhi azzurri di suo fratello divennero più torvi e scuri, il sorriso nascente che sempre le rivolgeva scomparve del tutto dal suo viso dai tratti nordici, ma gentili e avvenenti mentre quello di Rebekah diveniva più benevolo e commosso, « Nik, non essere arrabbiato,» lo pregò sommessamente, carezzandogli la gota glabra e lievemente incavata. Le tenebre sul volto di suo fratello scomparvero in un attimo, mitigate da quella carezza tanto consueta quanto profonda. Si issò in piedi con agilità e porse la mano alla fanciulla per fare altrettanto. Rebekah, più allegra e sorridente, accettò di buon grado, poi si diressero insieme verso l’ingresso. A prima vista Niklaus sembrava riposato e pieno di energie, ma Rebekah notava quanto le sue spalle possenti si fossero di poco incurvate per il dolore di essersi addormentato in quella scomoda posizione dopo una giornata e una notte di lavoro quasi del tutto ininterrotto. Avrebbe voluto che si riposasse, almeno per qualche ora, ma sapeva bene che sarebbero dovuti partire per la Grande Foresta il prima possibile, non appena il gruppo di Diarf fosse tornato. Dopo che furono entrati, videro la famiglia al completo seduta a tavola mentre la loro madre distribuiva il pasto sostanzioso.
« Niklaus,» l’ammonì suo padre, guardandolo con astio direttamente negli occhi azzurri. Cielo contro cielo. Eppure era possibile scorgere delle abissali differenze. L’azzurro di Niklaus era più tendente al blu oltremare, mentre quelli di Mikael, come anche quelli di Rebekah, avevano una sfumatura tendente al celeste che li faceva apparire quasi ghiacciati. Quelli di Niklaus erano più caldi, avvolgenti, più dolci e puri. Lo specchio del suo animo. Il ragazzo attese sulla soglia, come inchiodato da quell’unica parola del genitore, mentre sua sorella avanzò prendendo posto al fianco di Henrik e Kol sulla parte sinistra della lungo tavolo di noce, che era stato intarsiato da Mikael stesso oramai vent’anni prima. Niklaus attese, sostenendo lo sguardo con fierezza, certo e risoluto della propria posizione, e anche Mikael dovette ammettere a se stesso che quello era l’unico dei suoi figli a contestare le sue decisioni a oltranza. Era quel dato a farlo infuriare maggiormente, più che l’assoluta mancanza di giudizio del giovane uomo e la sua propensione ad agire d’istinto, ritenendo di essere l’unico a sapere ciò che era giusto.
« Mikael, te ne prego. Sarà una giornata molto lunga, la caccia vi attende,» lo riprese stancamente sua madre, facendo un lieve cenno con la mano in direzione del suo quartogenito per incitarlo ad accomodarsi al suo fianco. Niklaus annuì e avanzò verso sua madre, affiancandosi a Finn e avendo di fronte Kol. Henrick gli rivolse un sorriso colmo di rispetto e di affetto che Niklaus ricambiò prontamente. Il suo fratellino, più che in Finn e Kol, riponeva la sua totale fiducia in Rebekah, Elijah e lui.
« Hai ragione, moglie,» concordò con benevolenza, « Spero tu abbia compreso la lezione, ragazzo,» concluse con un ultimo sguardo di fuoco prima di incominciare, seguito dai suoi familiari, a gustare il pasto preparato con amore e dedizione.  
« Forse Niklaus dovrebbe rimanere per ristorarsi,» esclamò Elijah rivolto a suo padre, ritenendo che fosse del tutto insensato che suo fratello li accompagnasse nella Grande Foresta così assonnato e indebolito dal lungo lavoro.
« No, Elijah. Non sono stanco,» controbatté il fratello minore con un lieve sorriso rassicurante negli occhi chiari. Era stanco, spossato dalla giornata precedente, ma, se non si fosse recato nella Grande Foresta, suo padre l’avrebbe ritenuto un debole più di quanto non lo stimasse già. Per un attimo, mentre si immergeva nelle iridi scure di suo fratello tanto simili a quelle della sua amata madre che sempre lo proteggeva, Niklaus dimenticò ogni faida, ogni pensiero malevolo, ogni motivo d’invidia. Amavano la stessa donna, la fanciulla più avvenente e raffinata mai esistita, e tra loro un cancro amaro era sorto corrodendo i loro animi e portandoli a detestarsi l’un l’altro. Ma l’affetto era tanto grande, potente e puro che nessuno dei due avrebbe mai potuto odiare l’altro. Elijah annuì, rasserenato dalle sue parole, ed entrambi ripresero il pasto nel mite silenzio della stanza prima che venisse interrotto dal un leggero bussare alla porta. Mikael ripose il cucchiaio sul tavolo, le sopracciglia aggrottate in un’espressione stupita, e anche sua moglie si domandò mentalmente chi potesse essere. Quasi mai gli abitanti del villaggio bussavano. Preferivano incontrarsi al centro del villaggio per discutere di accadimenti importanti piuttosto che entrare nella tranquillità di una famiglia. Mikael si issò in piedi, avanzò a passo svelto e con andatura nobile verso la porta e la socchiuse. Dinanzi a sé scorse una donna di media statura, dalla pelle mulatta e dagli occhi scuri e grandi, che ispiravano fiducia. I lunghi capelli neri ricadevano ricci sulle esili spalle fasciate da un lunga veste rossa, ma un dato attirò subito l’attenzione dell’uomo. Le sue mani tremavano, lei stessa tremava e faticava a trattenere le lacrime che le avevano già velato gli occhi. Mikael si fece da parte per permetterle di entrare in casa ed Esther, riconoscendo la sua amica più cara, si alzò e la raggiunse. I figli la osservavano increduli. Ayana aveva sempre dimostrato una gran forza d’animo. Era una strega straordinaria ed era stata lei a condurli in quel Nuovo Mondo, strappandoli dalle malattie del Vecchio.
« Mikael, Esther. È accaduto qualcosa di orribile,» rispose con voce sommessa e immensamente triste all’implicita domanda presente nei loro sguardi. La donna dai lunghi capelli biondi si sporse verso l’amica per sfiorarla e dimostrarle il proprio affetto. Solo allora, mentre guardava davvero verso le sue dita, Esther s’accorse del liquido scarlatto che le impregnava, oramai rappreso e grumoso.
« Le tue mani, sorella. Sono piene di sangue,» commentò incredula, con gli occhi sbarrati e le sopracciglia aggrottate. Ayana annuì e la mestizia le occupò le iridi scure. Non aveva neanche voluto eliminare quel sangue, non avrebbe mai potuto. Riteneva, infatti, che, neanche dopo aver immerso le dita nel fiume, il liquido sarebbe scomparso. Oramai le era entrato nell’animo, come il pensiero d’aver perduto per sempre un’amica e una confidente, una donna buona e giusta alla quale il Destino aveva riservato una sorte avversa e implacabile.
« Sangue innocente, il sangue di una madre e del proprio bambino. Due morti per un parto. Non ho potuto far nulla. Neanche gli spiriti mi hanno donato il loro aiuto,» raccontò loro, socchiudendo gli occhi e lasciando che una lacrima le rigasse il piccolo volto dai tratti decisi e indigeni. Esther sussultò, comprendendo chi fosse la donna di cui Ayana stava parlando. Nel loro villaggio v’era un’unica partoriente e i grandi occhi azzurri di quella che era stata la sua cugina più amata e cara ritornarono prepotentemente dinanzi ai propri.
« Kadlin,» sussurrò Esther, chinando il capo verso il pavimento ligneo della sua casa. Mikael le posò una mano sulla spalla, segno della sua compassione e compartecipazione a quel dolore che li vedeva protagonisti entrambi. Tutti rimasero senza fiato, soprattutto Rebekah e Niklaus, che erano legati da un profondissimo vincolo d’amicizia con la primogenita della donna.
« Yngvild, dov’è? Sta bene?» domandò velocemente Rebekah, in pena per la migliore amica. La sua voce era sommessa e sofferente, ma trovò la forza di portarsi il pugno chiuso sul cuore come per bloccare i battiti accelerati. Era impossibile che una tale avversità si fosse rivolta a quella giovane fanciulla pura e candida che le era stata affianco come una sorella da tutta la vita, essendo Yngvild di tre anni più grande di lei, coetanea di Niklaus.
« È sconvolta. Era sola in casa. Diarf era a caccia nel territorio del Gran Lago. Quando sono cominciate le doglie, è corsa a casa mia. Ho tentato di salvarli, ma non v’era alcun rimedio,» ripeté costernata mentre Mikael la guidava verso il tavolo per farla accomodare. Niklaus si issò prontamente in piedi per cedere il posto alla donna, poi volse lo sguardo a sua sorella. Nei suoi occhi era presente la sua stessa espressione sconvolta e velata dalle lacrime nascenti.
« Diarf tornerà oggi,» mormorò Mikael con voce bassa e greve, rimembrando il vecchio compagno che per lui era stato come un fratello nella sua vecchia vita nel villaggio natio. Prima che qualcuno potesse commentare, un urlo squassò l’aria. Un urlo che sembrava preannunciare la fine della pace. 

ΩΩΩΩΩΩΩΩ
 

Erano trascorsi due giorni da quella mattina di inizio settembre in cui quella spiacevole quanto sconvolgente notizia aveva mutato l’atmosfera felice del villaggio in una triste e spenta. Le quattro famiglie s’erano strette nel dolore della quinta, oramai formata soltanto dal padre e dalla figlia maggiore, e avevano costruito una pira degna di una sacerdotessa per la donna e per il suo bambino che mai avrebbe visto il mondo, al centro del villaggio.
« Padre, potrei…,» sussurrò Rebekah per non turbare la quiete del funerale, indicando con un cenno del capo la fanciulla dinanzi alla pira scoppiettante. Con i due erano stati arsi agli dei anche dei monili d’oro, oggetti che aveva posseduto Kadlin nel Vecchio Mondo, e un particolare bracciale d’argento che Yngvild aveva costruito con le proprie mani molti anni prima. Mikael osservò da sua figlia, bellissima e mesta nella sua tunica candida e virginale, a quella di Diarf, poi annuì.
« Sì, figliola. Dona conforto a quella povera fanciulla,» mormorò Mikael accondiscendente prima di passare il braccio destro sulle esili spalle di sua moglie, grato agli dei che ad ella non fosse toccata la stessa sorte della sua amica. Rebekah si sciolse dalla stretta di Niklaus che l’aveva abbracciata per non farla cadere nel dolore più assoluto, lo ringraziò con uno sguardo dolce che il fratello ricambiò per un solo istante prima di tornare a osservare la pira, poi si avvicinò alla sua migliore amica. Yngvild non era mai stata una ragazza debole né fragile, anzi era indomita e fiera come suo padre, però anche dolce e comprensiva come sua madre. Aveva lunghi capelli biondi e lievemente mossi e un paio d’occhi azzurri che sempre avevano sorriso alla vita. La sua pelle era candida e perlacea, ma quel giorno era ancora più bianca, pallida sino a confondersi la sua veste semplice. Gli occhi erano mesti, chinati sul terreno e le spalle erano scosse da singulti che non era in grado di trattenere. Suo padre non era al suo fianco, non avrebbe mai sopportato di vederla piangere senza poter far nulla per aiutarla, così s’era allontanato ed era alla destra della famiglia di Asvald. Rebekah le posò, impietosita, una mano sulla spalla e Yngvild sobbalzò per poi sollevare lo sguardo inumidito e lacrimoso.
« Rebekah,» la chiamò con voce flebile e fragile, che inspirò tanta compassione nel giovane cuore della figlia di Mikael da farle sbattere le palpebre per trattenere le lacrime. Le rivolse un lieve sorriso che la fanciulla a stento ricambiò, poi le carezzò i lunghi capelli lasciati sciolti sulle esili spalle.
« Camminiamo, amica mia,» sussurrò dolcemente, invitandola ad allontanarsi dal quel funerale oramai concluso. Yngvild annuì prontamente e si lasciò condurre verso la parte settentrionale del villaggio, quella dov’erano situate le loro case e il fiume che li separava dagli indigeni, anche loro accorsi per rendere omaggio alla donna. Erano appena andati via e le due giovani li poterono scorgere mentre attraversavano il ponte che congiungeva le due parti del fiume. Una giovane donna dagli occhi scuri e i lunghi capelli mossi dello stesso colore si volse a guardarle con aria afflitta, ma Yngvild non ricambiò il suo sguardo con uno grato, bensì con uno freddo e distante. La giovane si voltò, risentita, e continuò ad avanzare al fianco dei suoi parenti. Il suo nome era Tatiana, ma tutti solevano chiamarla Tatia, e le tre non erano in buoni rapporti, « Ti domando perdono per non esserti stata accanto in questi giorni. Ritenevo indelicato entrare nel tuo dolore,» si discolpò Rebekah, intrecciando le dita tra le sue per dimostrarle tutto il proprio affetto. Yngvild sorrise e scosse il capo, tornando a guardare l’amica d’infanzia per non lasciare che i pensieri su Tatia le oscurassero l’animo.
« Non hai nulla da farti perdonare, Bekah. È stato un incidente. Chi mai avrebbe potuto prevedere ciò?» domandò a voce bassa con retorica amarezza. Rebekah, spinta da un moto di assoluta dolcezza, la trasse a sé e le circondò la vita in un abbraccio fraterno che Yngvild ricambiò prontamente. Era quello ad esserle necessario per sopravvivere a tutto il dolore che le occupava il cuore piangente lacrime di sangue. L’affetto di Rebekah che in tutti quegli anni non era mai mancato.
« Devi farti coraggio, Yngvild. Io ti aiuterò, lo prometto,» le assicurò con dolce solennità. E Yngvild credette alle sue parole, senza remore od obbiezioni. Perché Rebekah manteneva sempre la parola data.  
« Dobbiamo andare. Tuo padre è stato davvero gentile nel desiderare omaggiare mia madre e mio fratello con i propri raccolti,» commentò solamente, con un lieve sorriso per quell’accortezza. Rebekah annuì e insieme si diressero verso la casa a pochi metri. Videro in lontananza i loro padri entrare seguiti dai familiari di Mikael e, dopo che loro furono arrivate, incominciarono a pranzare in silenzio, com’era di consueto. Yngvild, seduta alla sinistra di Rebekah e alla destra del piccolo Henrick, non sollevò il capo per tutta la durata del pranzo per non incontrare un paio di occhi azzurri che la stavano osservando con costernazione e immensa compassione. Non poteva guardarlo, non poteva permetterselo, non dopo il funerale di sua madre, non dopo aver scorto Tatia. Non avrebbe sopportato di immergersi nelle iridi di Niklaus poiché si sarebbe persa e si sarebbe sentita felice. Perché la realtà era orribile e rifuggire da essa, al fianco del ragazzo più importante della sua vita, era una prospettiva bellissima. Ma non poteva fuggire. Per sua madre, per se stessa.  
« Mikael, ti ringrazio per la tua amicizia e la tua lealtà,» esclamò suo padre quando il pranzo si concluse, distogliendola da quei pensieri delicati e sconvenienti. Solo allora Yngvild alzò lo sguardo per incontrare quello scuro di suo padre, un bell’uomo giovane che le somiglia moltissimo nei lineamenti, « Sono felice, per quanto la mestizia mi occupi il cuore per la morte della mia Kadlin, che mia figlia sia congiunta nel più puro dei legami con la tua, che è la fanciulla di un grande uomo quale sei tu.»
« Le tue parole mi onorano, Diarf, e le ricambio con benevolenza,» ribatté Mikael con un breve sorriso orgoglioso, accogliendo le due giovani con uno sguardo paterno, « Quest’oggi v’è un’assemblea,» aggiunse pensieroso, ricordandogli l’evento settimanale. Avrebbe voluto aggiungere che avrebbe volentieri rispettato la sua scelta se avesse preferito non recarvisici, ma Diarf sollevò la mano, impedendogli di continuare.
« Verrò. Debbo raccontarvi un episodio. I lupi sono sempre più vicini, Mikael. Dobbiamo mobilitarci,» annunciò greve, con uno sguardo scuro e torvo che Mikael ricambiò. La minaccia degli uomini lupo diveniva sempre più palpabile, più reale. Sebbene non vi fosse stato ancora alcun ferito in quegli anni, chi poteva assicurare che in avvenire non avrebbe attaccato gli umani? Né Mikael né gli altri uomini degli villaggio, potevano accettare una prospettiva del genere, soprattutto sapendo che i lupi si stavano moltiplicando a vista d’occhio. Quand’erano arrivati, v’era soltanto un branco di una decina di uomini con le loro mogli e pochi bambini. A distanza di vent’anni v’erano una trentina di giovani che sarebbero divenuti presto dei lupi durante la Luna piena, « Niklaus, ti domando di riportare mia figlia a casa,» mormorò con fiducia Diarf. Per quanto Mikael potesse andar contro suo figlio, gli uomini del villaggio si fidavano di lui e del suo giudizio che molte volte era risultato utile quanto quello dei suoi due fratelli maggiori. E poi Diarf avrebbe tanto desiderato che sua figlia lo sposasse, comprendendo bene la natura degli sguardi dolci che Yngvild gli rivolgeva.
« Non mancherò, Diarf,» esclamò solennemente il giovane, guardando con la coda dell’occhio la fanciulla che, ostinatamente, osservava tutti fuorché lui. Non comprendeva il suo comportamento, non pensava di averle causato un danno, ma quella passeggiata avrebbe potuto chiarire i suoi dubbi. Mikael e Diarf si congedarono poco dopo e Yngvild, arginando le proteste di Esther e Rebekah, le aiutò a sciacquare le ciotole e le posate. I fratelli s’erano oramai congedati. A Elijah e Finn era stato dato il compito di sorvegliare i confini per evitare che le fiere del bosco potessero penetrare all’interno del villaggio. Kol, invece, giocava con Henrick con dei cavalli di legno intarsiati da lui stesso. Era la sua passione, quella di intagliare animali, e Henrick si divertiva molto nel giocarci. Quando calò la sera, Niklaus si issò in piedi e si affacciò alla cucina. Yngvild comprese subito, si congedò dalle due donne, poi seguì l’amico con gli occhi bassi. Per pochi minuti Niklaus preferì mantenere il silenzio, schiudeva e serrava le labbra rosee e piene a intervalli irregolari, non trovando le parole per intavolare un discorso, poi parlò, « Mi dispiace.» Per la prima volta quel giorno Yngvild sollevò lo sguardo chiaro per incontrare il suo nel buio del crepuscolo. Niklaus era di molti centimetri più alto di lei, ma i loro occhi si trovarono immediatamente. Yngvild non poté impedire al suo cuore di perdere un battito e si domandò per quanto ancora avrebbe potuto arginare i propri sentimenti, senza esternarli a nessuno.  
« Non devi,» sussurrò dolcemente la giovane, carezzandogli il braccio fasciato dalla camiciola di stoffa bianca. Erano arrivati oramai sulla soglia della sua piccola casa, minuscola se rapportata a quella di Mikael. Yngvild l’avrebbe fatto entrare, ma sarebbe stato altamente sconveniente poiché era sola in casa e Niklaus lo comprese subito.
« Questi giorni sono stati per me difficoltosi nel pensarti sola e mesta senza l’amore di tua madre,» ribatté il giovane, come se non avesse davvero udito le parole della fanciulla. Era bella, Yngvild. Non l’aveva mai notato in quegli anni trascorsi a pensarla solo e soltanto come una sorella minore, al pari di Rebekah. Era bella come un fiore, un giglio candido e puro. Un fiore che non doveva essere reciso.
« Sei molto dolce, Nik,» commentò Yngvild con gli occhi pieni di mestizia.
« Vorrei poter fare qualcosa per te,» esclamò costernato, avvicinandosi di pochi centimetri. Yngvild sbatté le palpebre per quella vicinanza, ma subito comprese che era solo per amicizia ed empatia, non per quello che avrebbe desiderato il suo cuore, « Siamo cresciuti insieme, sei la mia migliore amica, la mia compagna. Con te ho trascorso momenti della mia infanzia che non potrò mai dimenticare. Mi sei stata accanto quando nessun altro sarebbe rimasto. Te ne prego, se v’è qualcosa che io possa fare, di esplicarlo. Non tentennerei,» aggiunse indomito e coraggioso. Avrebbe fatto di tutto per quella piccola e giovane donna. Non aveva che da chiedere e lui l’avrebbe accontentata.  
« Tienimi stretta, Nik,» lo pregò accalorata. Non chiedeva di più, non avrebbe potuto. Si sarebbe esposta troppo e l’amicizia di Niklaus era davvero importante per lei, « Abbracciami, proprio come quando eravamo bambini,» aggiunse quando scorse un’ombra attraversare gli occhi del giovane e aitante uomo dinanzi a lei. A quella richiesta Niklaus non seppe rifiutarsi e subito le cinse la vita con le sue forti braccia protettive. Yngvild posò il capo sul suo petto, l’orecchio destro all’altezza del cuore pulsante dell’uomo, le braccia a cingergli la schiena. Avrebbe voluto che il tempo si bloccasse in quel momento per vivere per sempre quella dolce stretta. Niklaus le carezzava i lunghi capelli, posando lievi baci su di essi e Yngvild si beò del profumo di muschio della pelle di lui. Non seppe quantificare il tempo in cui rimase cinta dalle sue braccia, ma fu consapevole soltanto che fu Niklaus a sciogliere la presa, scostando il braccio sinistro e portando la mano sulla sua gota, sollevandole con le dita affusolate i capelli. Yngvild schiuse le labbra e lo guardò. I loro visi erano a pochi centimetri, soltanto un soffio a dividerli. Gli occhi della fanciulla vagavano tra le sue labbra per poi immergersi nei suoi e, senza fretta, Niklaus s’avvicinò chinando il capo per essere alla sua altezza. Yngvild sbatté le palpebre, come pregando di non trovarsi in un sogno. E, se davvero era un sogno, non avrebbe voluto destarsi mai più. Era la realtà e Niklaus la stava quasi lambendo le labbra con le proprie, ma qualcosa lo bloccò, qualcosa che somigliava al timore. Perché Yngvild era la sua migliore amica e non sarebbe stato giusto baciarla. Avrebbe rovinato il loro rapporto. Si scostò del tutto, chiudendo gli occhi e volgendo il capo al terreno. Un’ombra delusa velò il viso della fanciulla, ma non fece nulla per riportalo a sé. Oramai quella magia s’era interrotta e nulla avrebbe potuto farla tornare.
« È meglio che io vada. Buon riposo, Yngvild,» si congedò velocemente prima di sparire nel buio della notte senza volgersi, quasi correndo verso la propria casa. Al sicuro. Come se i suoi sentimenti fossero un pericolo. La fanciulla non lo richiamò a sé, ma chinò il capo e si portò la mano destra sul cuore, come per domandargli di cessare di battere con tanta insistenza. Lacrime calde le occuparono lo sguardo, ma le ricacciò indietro. Non era tempo di piangere. Soprattutto non per Niklaus. Quel giorno era stato già sin troppo pieno di dolore per poterne vivere ancora.
« Nik, se tu sapessi, amico mio. Se solo tu sapessi quanto il mio cuore ti appartenga, quanto io t’ami. Ma non lo sai ed è questa ignoranza che è necessario tu mantenga.» Lasciò che quelle parole pregne di tutto il suo amore volassero nel vento di quella notte vuota e triste, poi entrò in casa e si chiuse la porta alle spalle. Solo allora lasciò che il dolore le artigliasse il cuore.
 

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Buona sera a tutti. Parto col ringraziare tutti quelli che hanno letto la storia e soprattutto chi ha commentato. Mi avete davvero resa felice. Spero che questo primo capitolo vi piaccia. Anche questa volte il titolo è in svedese e significa “tra pace e guerra”. Come avete letto, è stato incentrato molto su Rebekah, su Klaus e su Yngvild, che avrò un ruolo molto rilevante nella storia, possiamo dire di protagonista al pari degli Originali. I guai sono all’orizzonte per la nostra cara famiglia e già dal prossimo capitolo potremo vedere il primo incontro/scontro con gli uomini lupo. In questo capitolo Elijah, Finn, Kol e il piccolo Henrick sono stati presenti, ma non hanno avuto una voce. Già a partire dal prossimo li vedremo prendere vita. Grazie mille a chi ha letto e chi vorrà continuare a leggere e a commentare. Un bacio grande, elena_mikealson. 
  
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