Parole
volanti, aerei di carta
Quella mattina mi svegliai di
soprassalto quando il mio gatto, Vercingetorige, ebbe
la brillante idea di farsi le unghie sulla mia povera gamba scoperta.
Lo scalciai via con la solita grazia
che contraddistingueva da sempre i nostri rapporti.
Vercingetorige soffiò
indignato verso di me: come avevo osato allontanare così bruscamente Sua
Maestà? Era il gatto che mio fratello aveva ricevuto come regalo di compleanno
da nostro padre, che, sapendo quanto gli piacessero gli animali, aveva deciso
così di consolarlo per la rottura con nostra madre. Se ne era andato da solo un
mese e Giuseppe, mio fratello appunto, l’aveva presa così male che si aggirava
per casa con il muso e le occhiaie tutti i giorni. Poi aveva ricevuto Vercingetorige, quella specie di incarnazione del diavolo
che tutti pensano sia un gatto, e pian piano si era ripreso. Io lo avevo
considerato più un tentativo di corruzione, un modo per metterci vigliaccamente
una pezza sopra, più che un regalo affettuoso, ma ero felice che mio fratello
non bighellonasse più per casa con lo sguardo vuoto e nemmeno l’ombra d’un
sorriso.
Avevo cercato mille soprannomi
decenti per quel gattaccio, ma nessuna andava bene: Verci? No, per favore. Rievoca “sorci” e mia madre è romana e non
riuscirebbe a chiamarlo senza ridere. Tori?
Ti prego, no. Rige? Cos’è, si mangia?
Niente. Vercingetorige,
il mostro di casa, non poteva avere altro nome.
Mi alzai di malavoglia e con
lentezza finché non lanciai uno sguardo all’orologio: era vergognosamente
tardi! La lezione all’università iniziava alle dieci ed erano le nove e mezza.
Diavolo!
Così mi vestii in fretta e
furia, mi lavai, diedi uno sguardo depresso alla mia immagine riflessa nello
specchio, mi appuntai mentalmente di ringraziare il gattastro per una volta ed
uscii. Il tragitto verso l’università fu disgraziatamente lungo da percorrere,
perché la macchina continuava ad ingolfarsi e il traffico era tale che faceva
venire il mal di testa solo guardare quell’infinita distesa di auto rombanti.
Quando arrivai, non feci
nemmeno caso alla lezione che si stava tenendo in aula ed entrai, ma visto che
le sedie erano tutte occupate, mi lasciai scivolare contro la parete di fondo
e, silenziosamente, mi sedetti in terra. Come me, c’erano altri quattro o
cinque ragazzi lungo la stessa parete ed uno soltanto lungo la parete laterale,
accovacciato proprio sotto una finestra. Non gli diedi molta considerazione,
perché mi affaccendavo ad estrarre quaderno e penna dalla borsa quando mi
accorsi all’improvviso che quella non era la lezione che dovevo seguire. Non si
trattava di Storia Contemporanea, che era la materia che avevo scelto nel Piano
di Studi, ma di Storia del Cristianesimo, il che spiegava perché il professore,
un ometto calvo sulla cinquantina e una polo rossa che aveva visto tempi
migliori, stava blaterando di dogmi e concili.
Sospirai. Pur con tutta
quell’urgenza, ero arrivata in anticipo. La lezione di Storia Contemporanea si
sarebbe tenuta di lì a dieci minuti nella stessa aula. Rinfoderai quaderno e
penna e feci vagare uno sguardo annoiato per la classe. I miei occhi
incontrarono quelli del ragazzo accomodato per terra in solitaria, ma solo per
un attimo, perché poi lui spostò lo sguardo al professore. Io mi volsi a
guardare gli altri ragazzi: ben pochi, fra quelli seduti nelle ultime file,
stavano effettivamente seguendo. Alcuni giocherellavano pigramente con il
foglio di carta che avevano davanti e sul quale non avevano appuntato altro che
la data del giorno e qualche scarabocchio, altri ancora si lanciavano palline
di carta ed esplodevano, a più riprese, in sguaiate risatine che cercavano poi
di soffocare, altri se ne stavano stravaccati sul banco, cercando di recuperare
il sonno perduto, ed uno infine sbadigliava sfacciatamente dando la
possibilità a tutti, professore
compreso, di avere una panoramica dettagliata delle sue tonsille.
Tossii. E nello stesso istante
il ragazzo di prima mi lanciò un altro sguardo. Mi parve incuriosito, ma non
potevo esserne sicura, perché pochi secondi dopo lo aveva distolto di nuovo.
Eppure c’era stato una specie di sorrisetto ad incurvargli le labbra. O forse
no? Probabilmente lo avevo solo immaginato. Aveva i capelli castani in
disordine, una felpa verde con la stampa di Yoda di Star Wars,
dei jeans e scarpe Nike d’un bianco così abbagliante che era difficile non
capire che erano nuovissime. Era seduto direttamente sul suo zaino nero, che
aveva evidentemente deciso di usare come cuscino. Aveva anche un orecchino,
nero anch’esso, all’orecchio destro. Non ero riuscita a vedergli gli occhi.
Sembrava assorbito dai suoi appunti.
Invece, di lì a poco, lo vidi
armeggiare con un foglio di carta strappato dal quaderno, scrivervi su qualcosa
e piegarlo fino a farne un piccolo aereo di carta. Inarcai le sopracciglia
interrogativa, ma fui costretta a stupirmi ancora di più quando mi lanciò
l’aereo, che, dopo un volo basso e ben calibrato, mi atterrò a pochi centimetri
dal ginocchio. Lo guardai, poi alzai lo sguardo nuovamente sul ragazzo, che,
stavolta ne ero sicura, mi stava sorridendo, quindi lo riabbassai
sull’aereo. Lui mi era sembrato
incoraggiante. O forse era strafottente? Non so perché fossi così diffidente,
ma quando incontrai di nuovo i suoi occhi mi accorsi che erano ridenti e fieri
come pochi e che esprimevano una grande sicurezza di sé. Scrollai le spalle e
afferrai l’aereo. Dentro c’era scritto:
Noi due ci conosciamo,
Veronica, ed io sono qui per te.
Guardai di nuovo il ragazzo,
sorpresa. Com’era possibile che conoscesse il mio nome? Io non avevo la più
pallida idea di chi fosse.
Note:
Il titolo della storia è una
citazione di Carl Gustav Jung e acquisterà
significato solo più avanti, quando sapremo altro di Veronica e di questo,
apparentemente ignoto, ragazzo.