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Autore: AlterEgo    03/11/2012    1 recensioni
Veronica ha diciannove anni e una vita apparentemente ordinaria: due genitori separati, un fratello più piccolo un bel po' rompiscatole, un gatto grasso e pigro. E poi le lezioni all'università, le amiche divertenti, le spettegolate al telefono... e se un giorno la sua vita cambiasse?
Se un giorno uno sconosciuto - almeno così crede lei - apparisse per rivelarle un segreto incoffesabile e trascinarla in una catena di disastrosi eventi, fra avventure e confessioni, fino ad un tragico epilogo?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Universitario, Sovrannaturale
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Parole volanti, aerei di carta

 

 

 

Quella mattina mi svegliai di soprassalto quando il mio gatto, Vercingetorige, ebbe la brillante idea di farsi le unghie sulla mia povera gamba scoperta.

Lo scalciai via con la solita grazia che contraddistingueva da sempre i nostri rapporti.

Vercingetorige soffiò indignato verso di me: come avevo osato allontanare così bruscamente Sua Maestà? Era il gatto che mio fratello aveva ricevuto come regalo di compleanno da nostro padre, che, sapendo quanto gli piacessero gli animali, aveva deciso così di consolarlo per la rottura con nostra madre. Se ne era andato da solo un mese e Giuseppe, mio fratello appunto, l’aveva presa così male che si aggirava per casa con il muso e le occhiaie tutti i giorni. Poi aveva ricevuto Vercingetorige, quella specie di incarnazione del diavolo che tutti pensano sia un gatto, e pian piano si era ripreso. Io lo avevo considerato più un tentativo di corruzione, un modo per metterci vigliaccamente una pezza sopra, più che un regalo affettuoso, ma ero felice che mio fratello non bighellonasse più per casa con lo sguardo vuoto e nemmeno l’ombra d’un sorriso.

Avevo cercato mille soprannomi decenti per quel gattaccio, ma nessuna andava bene: Verci? No, per favore. Rievoca “sorci” e mia madre è romana e non riuscirebbe a chiamarlo senza ridere. Tori? Ti prego, no. Rige? Cos’è, si mangia?

Niente. Vercingetorige, il mostro di casa, non poteva avere altro nome.

 

Mi alzai di malavoglia e con lentezza finché non lanciai uno sguardo all’orologio: era vergognosamente tardi! La lezione all’università iniziava alle dieci ed erano le nove e mezza. Diavolo!

Così mi vestii in fretta e furia, mi lavai, diedi uno sguardo depresso alla mia immagine riflessa nello specchio, mi appuntai mentalmente di ringraziare il gattastro per una volta ed uscii. Il tragitto verso l’università fu disgraziatamente lungo da percorrere, perché la macchina continuava ad ingolfarsi e il traffico era tale che faceva venire il mal di testa solo guardare quell’infinita distesa di auto rombanti.

Quando arrivai, non feci nemmeno caso alla lezione che si stava tenendo in aula ed entrai, ma visto che le sedie erano tutte occupate, mi lasciai scivolare contro la parete di fondo e, silenziosamente, mi sedetti in terra. Come me, c’erano altri quattro o cinque ragazzi lungo la stessa parete ed uno soltanto lungo la parete laterale, accovacciato proprio sotto una finestra. Non gli diedi molta considerazione, perché mi affaccendavo ad estrarre quaderno e penna dalla borsa quando mi accorsi all’improvviso che quella non era la lezione che dovevo seguire. Non si trattava di Storia Contemporanea, che era la materia che avevo scelto nel Piano di Studi, ma di Storia del Cristianesimo, il che spiegava perché il professore, un ometto calvo sulla cinquantina e una polo rossa che aveva visto tempi migliori, stava blaterando di dogmi e concili.

Sospirai. Pur con tutta quell’urgenza, ero arrivata in anticipo. La lezione di Storia Contemporanea si sarebbe tenuta di lì a dieci minuti nella stessa aula. Rinfoderai quaderno e penna e feci vagare uno sguardo annoiato per la classe. I miei occhi incontrarono quelli del ragazzo accomodato per terra in solitaria, ma solo per un attimo, perché poi lui spostò lo sguardo al professore. Io mi volsi a guardare gli altri ragazzi: ben pochi, fra quelli seduti nelle ultime file, stavano effettivamente seguendo. Alcuni giocherellavano pigramente con il foglio di carta che avevano davanti e sul quale non avevano appuntato altro che la data del giorno e qualche scarabocchio, altri ancora si lanciavano palline di carta ed esplodevano, a più riprese, in sguaiate risatine che cercavano poi di soffocare, altri se ne stavano stravaccati sul banco, cercando di recuperare il sonno perduto, ed uno infine sbadigliava sfacciatamente dando la possibilità  a tutti, professore compreso, di avere una panoramica dettagliata delle sue tonsille.

Tossii. E nello stesso istante il ragazzo di prima mi lanciò un altro sguardo. Mi parve incuriosito, ma non potevo esserne sicura, perché pochi secondi dopo lo aveva distolto di nuovo. Eppure c’era stato una specie di sorrisetto ad incurvargli le labbra. O forse no? Probabilmente lo avevo solo immaginato. Aveva i capelli castani in disordine, una felpa verde con la stampa di Yoda di Star Wars, dei jeans e scarpe Nike d’un bianco così abbagliante che era difficile non capire che erano nuovissime. Era seduto direttamente sul suo zaino nero, che aveva evidentemente deciso di usare come cuscino. Aveva anche un orecchino, nero anch’esso, all’orecchio destro. Non ero riuscita a vedergli gli occhi. Sembrava assorbito dai suoi appunti.

Invece, di lì a poco, lo vidi armeggiare con un foglio di carta strappato dal quaderno, scrivervi su qualcosa e piegarlo fino a farne un piccolo aereo di carta. Inarcai le sopracciglia interrogativa, ma fui costretta a stupirmi ancora di più quando mi lanciò l’aereo, che, dopo un volo basso e ben calibrato, mi atterrò a pochi centimetri dal ginocchio. Lo guardai, poi alzai lo sguardo nuovamente sul ragazzo, che, stavolta ne ero sicura, mi stava sorridendo, quindi lo riabbassai sull’aereo.  Lui mi era sembrato incoraggiante. O forse era strafottente? Non so perché fossi così diffidente, ma quando incontrai di nuovo i suoi occhi mi accorsi che erano ridenti e fieri come pochi e che esprimevano una grande sicurezza di sé. Scrollai le spalle e afferrai l’aereo. Dentro c’era scritto:

 

Noi due ci conosciamo, Veronica, ed io sono qui per te.

 

Guardai di nuovo il ragazzo, sorpresa. Com’era possibile che conoscesse il mio nome? Io non avevo la più pallida idea di chi fosse.

 

 

 

 

 

 

Note:

Il titolo della storia è una citazione di Carl Gustav Jung e acquisterà significato solo più avanti, quando sapremo altro di Veronica e di questo, apparentemente ignoto, ragazzo.

  
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