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Autore: FCq    04/11/2012    1 recensioni
Ho provato a scrivere una mia versione della saga di twilight. Ci saranno nuovi personaggi e altre particolarità che influiranno sulle vicende. Spero di rivivere con voi il primo libro, ora che la trosposizione cinematografica sta per giungere al termine.
Dal primo capitolo:
Sarebbe stato folle immaginare la serie di eventi che avrebbe reso una qualsiasi ragazza la ragione di contese mitologiche e altrettanto lo sarebbe stato sospettare ciò che si celava nel cuore di quell’improbabile umida cittadina. Il mondo era una grande dimostrazione della teoria causa effetto. Ogni scelta aveva portato a ciò che sarebbe avvenuto l’indomani, ma tutto il resto era ancora da scrivere.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan, Nuovo personaggio | Coppie: Bella/Edward, Charlie/Renèe
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Twilight
Capitoli:
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Buonpomeriggio. Sono tornata con il primo capitolo. Spero che vada meglio rispetto al prologo. Vorrei conoscere le vostre opinioni, davvero. Vi lascio alla lettura:)

 

1 Suolo Americano

Quella volta mi sono detto che le coincidenze, forse, sono dei fenomeni molto comuni. Si verificano in ogni momento intorno a noi, nella nostra vita quotidiana. Ma della metà non ci accorgiamo neanche, le lasciamo passare così. Come dei fuochi artificiali che vengono fatti scoppiare in pieno giorno. Fanno un po’ di rumore, ma nel cielo non si vede nulla. Però se desideriamo fortemente qualcosa, le coincidenze affiorano nel nostro campo visivo portando il loro messaggio.

Haruki Murakami, I salici ciechi e la donna addormentata

La splendida terra del Sol Levante vantava una temperatura media di venticinque gradi nei mesi estivi. Qualsiasi regione tropicale dell’America centrale e subtropicale del Golfo del Messico avrebbe degnamente tenuto il confronto con il Giappone e con i ricordi delle estati italiane, ma esisteva a nord-ovest di Seattle una cittadina estranea a ogni convenzione.

Seattle li aveva accolti con un terribile acquazzone. Dall’oblò dell’aereo di linea che aveva sorvolato il Pacifico, Isabella aveva visto enormi nuvole colme di piogge affiancare il mezzo, ormai in prossimità della città. Non di meno Seattle era detta “la città della pioggia”. Com’era prevedibile, ogni cosa passò in secondo piano agli occhi della ragazza: l’acqua che le inzuppava i vestiti, il freddo pungente, l’umidità. Lo sguardo della giovane parve colmarsi di fanciullesca meraviglia e fare incetta di ogni insignificante particolare. Per quanto fosse banale e infantile, Bella fu certa di non sbagliare nel paragonare le proprie sensazioni con quelle del sign. Armstrong nell’Apollo 11. Non aveva desiderato altro che lasciare ogni cosa e partire con uno zaino in spalla per infinite e sconosciute destinazioni, per quanto portasse nel cuore e sulla pelle la propria terra. Dovunque fosse andata, non avrebbe dimenticato la semplicità del luogo in cui era cresciuta. Rammentava il profumo della pioggia d’estate, la consistenza della sabbia sotto i piedi, la limpidezza del cielo terso, l’odore dell’aria salmastra, il colore della terra, il sapore delle spezie piccanti e l’aroma degli agrumi. Isabella era ognuna di quelle cose.

Realizzare in parte il suo desiderio le era costato più di quanto avrebbe voluto dare. In Giappone, nella città dei mille templi, aveva lasciato un pezzo del proprio cuore. Rian era stato per lei un fratello e un padre insieme; aveva sempre considerato la propria vita come indissolubilmente legata a quella del ragazzo. Qualunque cosa avesse fatto, fosse viaggiare o rimanere, Bella si vedeva insieme a lui. Sapeva che prima o poi qualcosa li avrebbe separati; aveva sperato così a lungo che Rian trovasse la propria strada, e quando era successo aveva sentito richiudersi una ferita e aprirsi un squarcio mille volte più grande. Non avrebbe mai sopportato quella separazione se non avesse saputo che Rian era a “casa”, circondato dall’amore di sua moglie, la donna più straordinaria che Bella avesse mai conosciuto, e dai suoi due bambini, un connubio perfetto tra i loro genitori, perciò, piccoli capolavori.

Bella aveva trascorso le settimane più felici della sua giovane vita a Kyoto, dopo la nascita dei pargoli Swan. Quando Charlie e Rian erano partiti per qualche giorno, senza addurre alcuna spiegazione per la loro assenza, la ragazza aveva sentito che qualcosa sarebbe cambiato. Nel frattempo, il giovane uomo e il padre nell’ordine qualcosa sarebbe cambiato. Nel frattempo, il giovane uomo e il padre nell’ordine: ottenevano un lavoro per quest’ultimo, non prima di aver lasciato il vecchio e abbandonato l’Italia, e riaprivano la casa di nonno Swan. Al loro ritorno, era bastato uno sguardo tra i due ragazzi, perché Bella comprendesse che il momento di lasciarli era prossimo.

La fanciulla deglutì il nodo che le bloccava la gola e si alzò dal divano sul quale stava cullando il piccolo Kiseki. Isabella restituì il bambino alla madre, rivolgendole un sorriso tirato e lasciò la stanza.

Poggiò la schiena alla balaustra della veranda. Non passarono che pochi secondi prima che Rian la raggiungesse e l’affiancasse. Isabella non poteva conoscere i suoi pensieri in quel momento, perciò, non avrebbe mai saputo del tormento che inquietava la sua mente. Rian aveva affrontato, molto prima di Isabella, le angosce della separazione. Tutte le scelte comportavano delle conseguenze e quella sarebbe stata la peggiore da sopportare, a lungo andare... Ancora una piccola speranza che le cose andassero diversamente viveva nel giovane, ma, finché non avesse preso un decisione definitiva, avrebbe rinunciato a un pezzo del suo cuore.

Penso di essermi persa un passaggio: il momento in cui mi avvertivi di ciò che avevi intenzione di fare, disse Isabella, utilizzando l’ironia per rompere il ghiaccio.

Come sempre sono un passo avanti a te, rispose il ragazzo, stando al gioco,

Perché?, chiese la giovane, che d’improvviso aveva perso ogni traccia di umorismo.

Perché era la cosa migliore per te e la mamma, rispose lui.

Adesso sai anche qual è la cosa migliore, grand’uomo? Bé, guru, avrei preferito che non scomodassi papà dalla sua comoda posizione, saremo noi a doverne sopportare il malumore. E poi, vai in America e non mi dici niente! Mi sembrava avessimo concordato che ti avrei seguito, qualora fossi fuggito in altri continenti. Hai idea di quanta acqua ci sia nell’Oceano Pacifico: miliardi di quintali. E..., a un tratto la ragazza si ritrovò con il volto sepolto nel petto del fratello, le parole sconclusionate si tramutarono in singhiozzi e il peso opprimente di ciò che significava la distanza le afflosciò le spalle. Bella si sentì persa per un tempo infinito, quasi sepolta dai quintali d’acqua che l’avrebbero separata da Rian. Lui non aveva bisogno di lei allo stesso modo della ragazza, non si sarebbe guardato intorno in cerca di un appoggio, di una mano protesa e pronta a sorreggerlo e guidarlo nella giusta direzione. Ogni cosa era stata più leggera fin quando Rian l’aveva aiutata a sostenerla; due spalle erano meglio di una per trasportare un fardello: il peso di essere loro stessi, così diversi da chiunque altro, e di tutto ciò che avrebbero desiderato ma che non avevano avuto.

Che cosa farò senza di te? Senza di voi?, chiese disperata.

Rian serrò le palpebre e seppellì il volto nei lunghi capelli scuri della sorella. Si era domandato la stessa cosa quando aveva preso la sua decisione, mesi addietro. Era sempre stato in grado di camminare con le proprie gambe, ma aveva avuto bisogno di un barlume di luminosità nella sua vita, prima di incontrare Asami. Isabella era questo, per Rian: la fiamma di una candela, una torcia nel buio, un lampo nella notte.

Tutto, rispose il ragazzo.

Ne ho avuto la possibilità e ho fatto in modo di concederti delle opportunità. Tu non hai bisogno di nessuno, ma il tuo guru – ed entrambi sorrisero – coprirà in pochi secondi la cortina d’acqua del Pacifico, se dovessi averne, la rassicurò il giovane uomo, sperando ardentemente di poter mantenere la promessa, nonostante tutto.

In che modo, acqua-man?, chiese Isabella.

Metti in dubbio le mie risorse?.

Non sia mai, sogghignò la giovane. Aveva imparato a non sfidare il fratello: in un modo o nell’altro, vinceva sempre lui.

 Bella sollevò il capo dal caldo rifugio delle braccia di Rian e ne incrociò lo sguardo. Non sarebbero bastati tutti i mari e gli oceani del mondo per porre delle distanze fra loro.

Per quanto la lontananza la spossasse, Bella era consapevole che, di là dall’oceano, Rian, Asami, Kiseki e Hikari esistevano.

********

La ragazza avrebbe voluto visitare in lungo e in largo la città di Seattle e alloggiare in uno dei grattacieli che davano sullo Space Needle, nonostante, teoricamente, dovesse essere esausta per il lungo viaggio. Sfortunatamente, dovettero imboccare la direzione opposta per raggiungere la città natale di Charlie. Il padre di Isabella avrebbe preso servizio il giorno dopo nella centrale di polizia locale. La popolazione sembrava averlo accolto con diffidenza, fin quando non aveva fatto il nome di suo padre: alcuni ancora lo ricordavano e Charlie era passato automaticamente da straniero a concittadino. Renée sembrava intenzionata a trovare un lavoro che la sottraesse alle mura domestiche. La giovane Isabella avrebbe iniziato il terzo anno nella nuova scuola. Contrariamente a quanto si potesse pensare, Bella non aveva avuto grandi difficoltà a lasciarsi alle spalle gli ultimi diciassette anni. Compagni, insegnanti, vicini, conoscenti erano volti come tanti altri, benché avesse assegnato loro dei ruoli specifici. La ragazza non aveva saputo legare con i propri coetanei, nonostante conoscesse ognuno di loro fin dai tempi dell’asilo. Aveva creduto per tanto tempo di essere totalmente incapace nelle relazioni interpersonali: non riusciva a comprendere gli atteggiamenti, i gesti, il pensiero della maggior parte della gente che la circondava. In fine, aveva addotto una parte della colpa al luogo in cui era nata e cresciuta: un mondo a se stante, estraneo a ogni sorta di cambiamento e intrusione. La città e i suoi cittadini erano di una mentalità conservatrice gonfiata da una serie di fattori. La comparsa di Asami nella sua vita l’aveva fatta ricredere sul proprio rapporto con gli altri. La donna era diventata sua sorella al primo sguardo. Non avevano avuto bisogno di gesti plateali e affrettate dichiarazioni di affetto. Dimostravano il proprio amore reciproco con tanti piccoli e grandi gesti, senza contare la riconoscenza che spingeva Bella al suo fianco, in ogni circostanza.

Certamente, la giovane non si aspettava nulla di diverso dal piccolo borgo nascosto dietro coltri perenni di nebbia e alte cime di sempreverdi. Sarebbe stata la ragazza nuova in una scuola in cui tutti si conoscevano fin da bambini. L’avrebbero guardata come fosse un alieno con tutta l’astronave, avrebbero formulato ipotesi e supposizioni varie sui motivi della sua presenza e le avrebbero rivolto domande indiscrete. Sperava che, come nella sua vecchia scuola, vigessero nei loro cuori una semplicità e bontà d’animo quantomeno simile a quelli cui era abituata e non la supponenza che temeva. Se qualcuno le avesse chiesto cosa le sarebbe mancato delle sue vecchie conoscenze, Bella avrebbe risposto: l’umiltà d’italiani del sud.

La casa di nonno Swan era un’abitazioni dalle modeste dimensioni, seppure più grande rispetto a quella in cui Isabella aveva abitato fino ad allora. La vecchia casa le sarebbe mancata, con l’impronta delle loro piccole mani sulle mura, le incisioni delle loro iniziali fatte con il cacciavite, la vecchia cucina alla quale Renée aveva ridipinto gli armadietti e sulla quale entrambi i ragazzi avevano appreso i primi rudimenti dell’arte culinaria, il divano blu e verde e la sua piccola camera da letto. Era pomeriggio inoltrato quando Charlie accostò sul ciglio della strada, Renée e Bella tesero contemporaneamente il collo verso il finestrino, alzando lo sguardo sull’abitazione. Era evidente a una prima occhiata superficiale che nessuno avesse mai abitato la casa dalle mura bianche. Nessun bambino aveva osato imprimere le proprie impronte con la vernice verde.

Renée e Isabella avevano spalancato le porte prima ancora che Charlie spegnesse il motore, tuffandosi all’esterno, inconsapevoli degli sguardi curiosi dei vicini che da giorni ne attendevano l’arrivo. Nessuna delle due badò alla stanchezza dei propri corpi. La giovane donna e la madre si scambiarono uno sguardo d’intesa, avvicinandosi alla porta nuova. Un’occhiata più attenta fu sufficiente per notare i segni della vernice ancora fresca. Alla ragazza spettò l’onore di infilare la chiave nella toppa e spalancare la porta, piacevolmente sorpresa dall’assenza di tremore nelle mani.

Il loro primo giudizio non si dimostrò errato. Le mura erano di un fresco bianco appena verniciato, alcuni mobili erano ancora coperti da teli trasparenti e ogni cosa profumava di nuovo. Non vi era il classico odore di chiuso delle abitazioni abbandonate. La casa non attendeva altro che di essere vissuta.

Bella sospirò, tuffandosi con poca grazia sul letto della sua nuova camera. Le lenzuola erano di un insipido color verde speranza: avrebbe provveduto presto a sostituirle. La giovane portò le braccia dietro la testa, appoggiandovi il capo che rivolse al soffitto. Le sembrava strano non scorgere accenni di muffa sulla parete. Nella vecchia casa, quando il sonno la evitava, ricercava strane immagini in essa, anziché contare un immaginario gregge di pecore. La nuova camera era più piccola della precedente, ma le dimensioni non le importavano. L’unico motivo per il quale l’aveva scelta era una vecchia sedia a dondolo poggiata alla parate. Non aveva idea del perché si trovasse lì, né se fosse appartenuta a nonna Marie, come davano a supporre le iniziali M. S sullo schienale. Era un pregiato pezzo d’antiquariato, bianca con intrecci e rifiniture in oro. Isabella l’aveva posta al capezzale del letto, com’era sua abitudine con la piccola sedia in vimini che aveva nella vecchia camera. Solitamente vi lanciava i vestiti smessi e lo zaino. Il resto del mobilio era sobrio e ordinario: una scrivania in noce, un armadio in legno massello e un letto a una piazza e mezzo.

Supina su quest’ultimo, la giovane volgeva lo sguardo all’esterno, oltre il vetro, sugli alberi del vialetto e la nebbia appena calata. La bruma era una cortina talmente fitta che Bella non avrebbe saputo dire se fosse ancora giorno o meno. Era emozionante scorgere – per quanto poco vi riuscisse – una vista diversa. Il cambiamento poteva sembrare insignificante, quasi ridicolo: aveva lasciato una piccola cittadina sperduta per trasferirsi in un’altra. Eppure, per Isabella era tutto.

La ragazza afferrò il cellulare che aveva posto sul comodino di fianco al letto. L’adrenalina le scorreva in corpo a fiotti e la stanchezza si dissolse in un alito di vento. Premette il tasto verde sullo schermo del telefonino, portandolo all’orecchio, mentre si sollevava dal talamo e si avvicina alla valigia che aveva riposto ai piedi della sedia a dondolo. Gli squilli si susseguivano mentre Bella iniziava ad estrarre gli abiti dal trolley. A un tratto una dolce voce di donna esclamò: ≪Bella!≫.

Il sollievo nell’udire quel suono così familiare si palesò con il sorriso radioso che comparve sulle labbra della giovane. Era stato ovvio fin dal primo istante, quanto caro le sarebbe divenuto il volto che avrebbe affascinato Rian.

Asami era la donna emblema della bellezza femminile: l’ovale perfetto del suo volto era incorniciato da un caschetto di lucidi capelli color biondo platino, le labbra erano i contorni carnosi di un cuore e gli occhi erano foglie di the verde, senza menzionare la perfezione del suo corpo statuario. Non aveva ereditato nulla dei tratti orientali del padre, se non la sottile curvatura a mandorla dei suoi occhi. Rian era la sua metà perfetta. Il fratello di Isabella aveva folti capelli castani, occhi verdi e labbra carnose che nulla toglievano alla virilità del suo volto e del suo corpo vigoroso. Aveva succeduto ogni tratto fisionomico della madre, contrariamente ad Isabella, della quale sarebbe potuto essere il gemello, non fosse stato per quelle differenze. Rian e Isabella erano semplicemente il giorno e la notte e questo li univa in modo perfetto e indissolubile. Nessuno avrebbe immaginato il giorno senza la sua eterna compagna e viceversa.

≪Asami! Temo di essere nel pieno di un’esperienza extracorporea. Fluttuo sulla nebbia senza fili≫, ironizzò la ragazza, volteggiando di qualche passo con un felpa in mano e il cellulare tra la spalla e l’orecchio destro. 

Alle risa dall’altra parte dell’apparecchio si aggiunsero le sue, quando inciampò sul copriletto, sbattendo il fianco alla testiera.

≪Sei inciampata? Avevamo stabilito niente movimenti inconsulti≫, la canzonò Asami.

Altre risate colmarono il silenzio delle due stanze in cui si trovavano le donne, a miglia di distanza.

≪Seriamente, com’è andato il viaggio?≫, chiese la donna.

Bella udì dei movimenti familiare dell’altra parte: il fruscio di tegami e qualche vagito. Ipotizzò che Asami stesse dando da mangiare ai piccoli e la immaginò, con il cordless nella sua stessa posizione. Entrambe indaffarate, continuarono a conversare.

≪E’ stato adrenalinico. Non so descriverti la mia gioia. Non smetterò mai di ringraziarvi per ciò che avete fatto≫, sussurrò la giovane, sorreggendo il proprio peso su un’anta dell’armadio.

≪Non devi dirlo. Voglio... desideriamo entrambi saperti felice e serena con la tua vita. Tesoro, sei giovane e piena di potenzialità. Ora hai l’occasione di metterle a frutto. Certo, se dovessi saperti in panciolle a girarti i pollici, verrò personalmente a redarguirti...≫, sorrisero a quel pensiero così allettante.

≪Non sai quanto lo vorrei. Mancate solo voi, in tutto questo. Pensa, ogni volta che vedo un bambino biondo mi volto a fargli facce buffe. Un giorno mi arresteranno per molestia su minore. Kiseki e Hikari mi mancano così tanto...≫, una risata sguaiata e un vagito più forte degli altri furono l’unica risposta.

≪Anche tu gli manchi, credimi. Kiseki è pazzo di te... Sarai stanca... ma che dico, immagino tu stia ancora sistemando la roba in camera, anziché farti un lunga dormita≫.

Bella si morse il labbro, come se l’avessero colta in fragrante e le sue guance si tinsero di rosso.

≪Fosse stato per mia volontà, avrei fatto un giretto a Seattle≫, rispose, ≪appena prenderò la patente lo farò≫.

≪Mi pare di capire che ti piaccia non dover aspettare un altro anno prima di guidare un’auto ≫, l’apostrofò Asami.

Bella arrossì nuovamente.

Un sospiro dall’altra parte la riscosse.

≪Hikari piange, devo andare. Rain vuole parlarti. Ti voglio bene, Bella. Sta attenta tesoro≫.

≪Ok≫, rispose la ragazza, sorpresa dal repentino cambiamento e dal fatto che non avesse sentito le urla del piccolo.

≪Ehi!≫, ogni remora svanì al suono della voce di Rian.

≪Ti ho comprato una cartolina all’aeroporto, la invierò con posta prioritaria≫, esordì Bella.

≪L’aspetterò con impazienza≫, rispose il giovane uomo, ≪sono perdonato?≫.

≪Fratello, sono su suolo americano. Ti bacerei...≫.

≪Lo avevo immaginato. Ora sei una cittadina a tutti gli effetti≫, concordò lui.

≪Sbagli. Non ho la pelle color bronzo, i cappelli di piume e la saggezza degli spiriti della natura≫, ironizzò la ragazza.

Non le sarebbe dispiaciuto essere parte di una tribù di nativi americani. Gli uomini bianchi erano come il sale, dovunque andassero dietro di loro non cresceva più nulla. Puntualmente, avevano distrutto un patrimonio dell’umanità per ingordigia e ignoranza.

≪Ti sto immaginando e ti si addice≫, disse Rian.

≪Magari un giorno entrerò a far parte di qualche tribù sposando il discendente di un grande capo≫, disse, sospirando platealmente.

Nel salotto di una moderna villetta nei pressi di Kyoto, un ragazzo dall’espressione devastata si posò stancamente ad una parete, fissando lo sguardo fuori dalla finestra. Avrebbe desiderato che bastasse semplicemente augurare tutto il meglio ad una persona perché questo le giungesse. La razionalità era una spina nel fianco in quel momento, in quanto era consapevole che non sarebbe stato sufficiente. I propositi di Rian si sgretolavano ogni qualvolta udiva la sorella parlare della pienezza della propria vita. Eppure, non riusciva a rassegnarsi che questa dovesse svolgersi necessariamente lontano da lui. Ricercava una soluzione che non esisteva...

≪Magari aspetta ancora qualche anno prima di accasarti. Non mi hai raccontato nulla e sono certo che muori dalla voglia di farlo≫. Rian sapeva che si sarebbe pentito di averle lasciato carta bianca, ma distese l’espressione del volto, attendendo il fiume di parole che non attardò ad arrivare.

 ≪... la scuola inizierà tra una settimana: ho tutto il tempo del mondo≫, concluse la ragazza, svuotata di tutte le parole e le energie.

≪Temo che avrai finito il credito: le chiamate intercontinentali costano≫, disse Rian.

≪E’ un modo per tentare di zittirmi?≫, chiese ironicamente Bella.

≪Forse. Ci sono riuscito?≫, rispose lui.

≪Si, ma non preoccuparti. Ti farò un resoconto completo ogni giorno. Domani ti chiamerò per informarti sul colore del piumino. Sono indecisa tra l’arancione e il viola...≫.

≪Domani non ci sono... non siamo a casa≫, si affrettò a dire il ragazzo.

≪Oh≫, fu la risposta di lei.

≪Parto per un po’ di giorni: questioni di lavoro. Asami e i piccoli verranno con me, non mi va di lasciarli soli. Ti richiamo io quando sarò tornato, non ho idea di quanto possa durare la permanenza≫, disse, con fare non curante.

Bella lo conosceva a fondo e seppe immediatamente che qualcosa le sfuggiva, ma sapeva anche che Rian le avrebbe detto di cosa si trattava se fosse stato importante. Perciò, nonostante la curiosità la divorasse, evitò di fare domande.

≪Certo≫, rispose.

≪Allora...≫, iniziò lui, senza concludere.

≪… a presto≫, terminò lei.

Rian annuì come se lei potesse vederlo.

≪Da un bacio ad Asami e ai piccoli. Ti adoro≫.

≪Anch’io≫, rispose, e una serie di bip,bip si susseguì a quelle parole.

≪... non sai quanto≫, aggiunse il ragazzo, a chiamata ormai terminata.

Rian chiuse gli occhi e posò il capo sul vetro. Il tocco delicato di una mano gli carezzò il capo. Asami passò le dita tra i suoi capelli e quando il giovane riaprì gli occhi e vide la donna e il piccolo miracolo di sua figlia tra le sue braccia, non ebbe più la sensazione di trovarsi sul precipizio di un burrone ma sul fondo, incolume.

*******

La pioggia batteva incessantemente e violentemente, come se volesse bucare il cemento della strada e abbattere le tegole del tetto. Viscida e bagnata tentava di penetrare in casa. Il suo suono non permise alla giovane nel letto di addormentarsi. Agognava di sentire il tocco gentile dei petali di papavero sulle palpebre e le illusioni di Morfeo, ma il dio, quella notte, non si avvicinò al capezzale della bella non-addormentata per molte ore. Prima dell’alba, un alito gelido penetrò dagli infissi dell’imposta. Era il vento o Morfeo, ma in entrambi in casi, la porta dei sogni si aprì senza cigolare.

Nei giorni a venire, la nuova vita iniziò a scorrere per tutti i membri della famiglia. Charlie iniziò a lavorare, non mancando di brontolare per la retrocessione della sua carriera. Se non avessero avuto anni e anni di esercizio alle spalle, Bella e Renée sarebbero esplose molto peggio delle continue bufere. Era appena settembre, eppure sembrava che l’estate avesse rinunciato a passare per Forks o a permanere più a lungo di qualche giorno nella cupa cittadina. Persino il sole la fuggiva.

La madre di Isabella aveva scoperto, per puro caso, dell’esistenza di una scuola materna che cercava una nuova volontaria. La paga era minima, ma la donna amava i bambini, ne avrebbe desiderati a dozzine se avesse potuto concedersi di averli. Inoltre, aveva già conosciuto metà del vicinato che non attendeva altro se non dei pettegolezzi succulenti sulla nuova famiglia.

Bella non aveva avuto molto tempo per visitare la città, in quei brevi momenti in cui la pioggia cessava di battere, non le era capitato di incrociare ragazzi della sua età, soltanto alberi, muschio e ancora alberi. Quel pomeriggio il cielo si era aperto poco dopo mezzogiorno e Bella ne aveva approfittato per uscire di casa. Quel cielo così cupo e quel verde tanto persistente in ogni angolo le causavano una spiacevole sensazione di claustrofobia. Forks era una grande palude in cui temeva di affogare.

La ragazza avrebbe compiuto diciassette anni tra pochi giorni. In Italia, l’idea di guidare un’auto sarebbe stata un miraggio ancora per molto tempo, ma l’America le offriva quella grande possibilità. Una settimana era stata sufficiente per una buona conoscenza di teoria, perciò, carica di ottimismo, si recò alla DMV.

Mezz’ora dopo stringeva fieramente tra le mani l’atteso foglio rosa.

Il pensiero del mezzo che avrebbe guidato, dopo aver superato l’esame pratico, le sfiorò la mente soltanto in quel momento. Certamente non avrebbe potuto usufruire dell’auto di suo padre: non aveva alcuna voglia di ascoltare le sue lamentale.

In quell’istante la vide, l’unica auto che avrebbe potuto permettersi e abbastanza solida da sopportare le sue maniere ed eventuali incidenti stradali. Un pick-up rosso scolorito dall’uso e dalla ruggine; due grandi fari la fissavano imploranti. Le sembrava di sentire un suono sinistro sussurrare: comprami, comprami...  Un grande cartello attaccato allo sportello diceva: “In vendita”.

La giovane si mosse, portandosi di fronte al mezzo, quasi inconsapevolmente. Con le dita sfiorò la carrozzeria dall’aria solida. Se quell’auto fosse riuscita a mettersi in moto e partire, sarebbe andata a casa con lei.

≪T’interessa?≫, chiese la voce profonda di un uomo.

Bella sussultò, voltandosi. Il suo sguardo si posò ad un’altezza errata per il tempo di un battito di ciglia, prima che abbassasse lo sguardo. L’uomo, dalla folta e lunga capigliatura color ebano, costretto su di una sedia a rotelle, la fissava con occhi profondi e neri come la pece. Quello sguardo l’avrebbe spaventata, non fosse stato per le rughe intorno agli occhi e il mezzo sorriso che gli incurvava le labbra. Senza alcun dubbio l’uomo che la fronteggiava era un pellerossa.

≪In verità, si. Ho letto che è in vendita, vorrei saperne di più≫ disse Bella, restituendo il sorriso all’uomo.

Per quanto si sentisse in soggezione, tentò di non dimenticare le buone maniere, né il suo obbiettivo.

L’uomo si aprì in un sorriso ancor più radioso.

≪Hai trovato l’uomo che fa per te, allora. Questo signor pick-up è di mia proprietà. Non pensare che voglia sbarazzarmene, ma come vedi non posso più guidare e mio figlio sta ricostruendo un’auto nuova. I ragazzi d’oggi non sanno apprezzare le cose fatte bene, gl’importa solo l’aspetto esteriore e Jacob è una testa dura≫, disse, sospirando.

Bella sorrise per il tono dell’uomo e la sua espressione contrariata.

≪Ma dimmi, non ti ho mai vista da queste parti. Sei la figlia del nuovo poliziotto arrivato in città, l’erede di Charlie Swan, non è vero?≫, chiese.

≪Era mio nonno≫, rispose Bella, rossa in volto e preoccupata che chiunque, a Forks, sapesse della loro famiglia.

≪Piacere, Billy Black≫, esordì l’indiano, porgendole la mano con un gran sorriso che mostrò la sua perfetta dentatura.

Bella non mancò di restituirgli una stretta vigorosa. Aveva l’impressione che l’uomo la stesse studiando. La ragazza sorrise soddisfatta dall’espressione del suo volto alla sua stretta.

********

≪Hai fatto un ottimo affare, ragazza mia≫, si congratulò Billy.

Quella giovane donna aveva naso per gli affari: era riuscita a strappargli cento dollari dal prezzo originario e un periodo di prova con annessa restituzione. Era stato ben disposto ad accettare ogni sorta di compromesso. Isabella Swan gli piaceva.

≪Tornerò entro la prossima settimana per la risposta definitiva e il primo acconto. Allora a presto, Billy≫, disse la giovane, porgendogli la mano.

L’uomo la strinse tra le sue, sorridendo affettuosamente.

≪Ho la sensazione che tu mi abbia imbrogliato, ma sorvolerò≫, ironizzò Billy.

Bella rise calorosamente. Billy Black era l’adulto più vispo che avesse conosciuto. Un bambino costretto nel corpo limitato di un adulto.

≪Certo, io sono convinta del contrario≫, replicò, mentre si avviava lungo il vialetto.

In quell’istante un’auto le passò a fianco, sollevando un turbine di foglie al margine della strada e schizzi d’acqua. La scia della Volvo grigio metallizzata svanì nel tempo di un respiro. Non avrebbe mai creduto che a Forks qualcuno possedesse auto del genere. In confronto, il suo nuovo acquisto parve del tutto insignificante. Certamente non avrebbe vinto una gara di velocità con il suo pick-up, considerando il massimo di ottanta chilometri all’ora e la guida spericolata di quel pazzo al volante, ma in caso d’incidente sarebbe uscita illesa, alla faccia del possessore di Volvo.

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I giorni passavano e ogni cosa sembrava andare per il verso giusto, ma le strade spianate nascondevano sempre qualche insidia.

Intorno al tavolo da pranzo un silenzio angosciante accompagnava la cena. Il pasto non era mai stato un tempo da trascorrere tra allegre chiacchiere. Per la maggior parte dei commensali non esistevano argomenti in comune e ad alcune infelici conversazioni si preferiva il silenzio. A volte, madre e figlia si scambiavano qualche parola sulla giornata trascorsa, ma entrambe preferivano comunicare nei momenti in cui si trovavano da sole. Qualche sera prima avevano discusso sul nuovo acquisto della ragazza. Entrambi i coniugi lo avevano trovato, in fine, ragionevole. Bella aveva atteso pazientemente che Charlie smettesse gli argomenti su cui protestare. Da piccola, la maggior parte delle conversazioni sfociava in un litigio a causa del suo carattere da ostinata masochista anticonformista che si discostava totalmente dalle idee del padre, che ripetutamente affermava come uniche e sole. Rian era stato più bravo di lei, in quello. Alla fine, aveva capito che ogni tentativo di discussione era inutile e deleterio e aveva imparato a non far incidere sulla propria sensibilità nessuna parola da lui pronunciata.

Il silenzio non era mai stato così pesante, ma evidentemente era la sola ad avvertirlo, perché era l’unica alla quale l’angoscia scavava solchi nella mente e nel cuore.

Isabella non aveva più sentito Rian da quella sera.

Il ragazzo non aveva dato in alcun modo notizie di sé e tantomeno Asami. I genitori di Bella non erano altrettanto preoccupati: Rian era un uomo e un padre responsabile. E per quanto Bella ne fosse consapevole, non poteva fare a meno di ricordare spiacevolmente l’incertezza con la quale il giovane uomo l’aveva lasciata, una settimana prima.

Isabella iniziava lentamente ad abituarsi allo scrosciare ininterrotto della pioggia, in fatti quella notte furono altri pensieri ad allontanarle il sonno. Per quanto una parte della sua mente fosse interamente destinata all’angoscia per suo fratello, un altro lato della giovane temeva l’indomani. Le lezioni avrebbero ripreso regolarmente dopo la pausa estiva, ma la scolaresca avrebbe contato un alunno in più. Bella avrebbe desiderato passare inosservata alle centinaia di occhi che l’avrebbero esaminata, il giorno seguente. In fondo – pensava - quanto scalpore potrà mai suscitare un nuovo arrivo? La ragazza non immaginava il numero di vite che avrebbe sconvolto con il proprio arrivo. Sarebbe stato folle immaginare la serie di eventi che avrebbe reso una qualsiasi ragazza, la ragione di contese mitologiche e altrettanto lo sarebbe stato sospettare ciò che si celava nel cuore di quell’improbabile umida cittadina. Il mondo era una grande dimostrazione della teoria causa effetto. Ogni scelta aveva portato a ciò che sarebbe avvenuto l’indomani, ma tutto il resto era ancora da scrivere.

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Alice Cullen non amava la pioggia. Era risaputo che detestasse qualsiasi cosa intaccasse il suo look impeccabile e la sua corta e sbarazzina chioma bruna. Quel mattino la piccoletta si aggirava irrequieta per le stanze dell’immensa villa nel bosco, ordinando con perfezione maniaca un caos che esisteva soltanto nella sua mente. Suo marito, che paziente aveva atteso nei giorni precedenti un cambiamento nel suo umore inquieto, le andò incontro. Quando le fu di fronte pose i palmi delle mani ai lati delle sue tempie, emettendo onde di positività fin quando i tratti del suo volto non si distesero. Al ché, la giovane donna aprì gli occhi che aveva serrato, trovando lo sguardo dorato e limpido del marito. Avrebbe desiderato informarlo di ciò che la turbava, se solo avesse lei per prima conosciuta l’origine di quell’emozione. Avrebbe potuto addurre l’inquietudine alla mancanza di chiarezza nelle proprie visioni del futuro, se avesse deciso di ammettere a se stessa che qualcosa di talmente grande da essere indefinito, stava per sconvolgere la loro famiglia. La verità era che temeva ciò che avrebbe visto. La donna si sottrasse alla presa delicata del marito, chiedendogli ulteriore pazienza e comprensione. Neanche Alice, per quanto il futuro fosse parte integrante della sua vita quotidiana, avrebbe potuto anticipare gli eventi.

Al piano superiore, una muraglia di libri nascondeva la figura di un giovane rosso pigramente adagiato sulla superficie di un divano in pelle nera. Il ragazzo aveva immerso il volto nel tomo che reggeva saldamente con le lunghe dita e posava la guancia lattea sul pugno chiuso. L’innocenza del suo giovane volto traspariva in quegli istanti in cui dedicava la propria attenzione alle arti; il ciuffo rosso gli sfiorava la fronte aggrottata, un cipiglio gli incurvava le folte sopracciglia e il labbro inferiore sporgeva leggermente rispetto a quello superiore. L’angoscia di un pensiero gli attraversò la mente, allertandone i recettori ipersensibili. Edward tese il collo oltre i libri che gli impedivano la visuale, sollevando gli occhi chiari e indirizzandoli in un punto non precisato della stanza. Insieme al turbamento di Jasper, scomparve ogni altro suono nella casa, lasciando il ragazzo in semplice compagnia della delicata sinfonia jazz del disco che continuava a girare nel vecchio grammofono. Edward abbandonò il libro al proprio fianco, sollevandosi con una leggera pressione del braccio che si contrasse ostentando i tendini in tensione dell’avambraccio scoperto. Il movimento del suo corpo fu tanto agile e armonioso da catturare lo sguardo. Il ragazzo si guardò intorno, deglutendo il veleno che gli impastava la bocca. Se Esme avesse visto il disordine in cui verteva la sua camera, lo avrebbe cacciato da casa. La moquette dorata del pavimento era occupata da infiniti volumi cartacei e custodie di dischi in vinile. Edward si mosse per la stanza con l’intento di riordinare prima che la madre si accorgesse del disastro. Nessun occhio umano avrebbe potuto cogliere l’eleganza e l’agilità dei suoi movimenti.

L’alba bussò timidamente alla portafinestra della camera quando il giovane ebbe riposto l’ultimo disco sugli scaffali gremiti da generazioni di musica. Edward si passò una mano nella massa dei capelli color bronzo. L’estate, se tale poteva essere definita, terminava quel giorno di settembre, con l’inizio del nuovo anno. La libertà dall’obbligo scolastico sarebbe mancata a entrambe le specie frequentanti, umane e vampire. Per i primi avrebbe potuto addurre infiniti futili motivi, ciò che lui detestava era la finzione: nei mesi a venire avrebbe dovuto incollare al volto una pesante maschera di cemento armato. Sarebbe stato impossibile sopportare quella vita se non avesse avuto solide fondamenta e altrettanti resistenti lacci d’acciaio che lo legavano al suo scorrere immutabile. Edward volse uno stoico sguardo alla pallida luce del sole, un nemico occasionale che il vampiro sapeva apprezzare.

*******

Il rosso scese apaticamente la lunga rampa di scale che portava al piano inferiore. Una figura minuta gli sbarrò la strada d’improvviso, comparendo in un turbine di ciocche brune. Il sorriso sul volto grazioso di sua sorella fu il miglior modo d’iniziare la giornata. Edward le passò a fianco, scompigliandole la morbida chioma. La ragazza lo seguì, accostata alle sue spalle, con le braccia corte legate dietro la schiena.

Buongiorno! Immagino tu sia di ottimo umore, pensò Alice.

≪Una gioia violenta mi pervade, potrei morirne; peccato che sia già defunto qualche decennio fa≫, rispose lui.

Sei in vena di freddure, pingu, lo canzonò, utilizzando un vecchio soprannome coniato da lei ed Emmet anni prima.

≪Mi sembrava avessimo cancellato quel nomignolo, nana≫, replicò Edward, sollevando le sopracciglia.

La ragazza gli mostrò la piccola lingua.

Questa mattina ho fatto impazzire Jasper, confessò, rabbuiandosi.

Edward la prese sottobraccio.

≪Mi era parso di sentirlo angosciato≫, disse.

≪Il futuro mi preoccupa, Edward. Ho il presentimento che succederà presto qualcosa di sconvolgente e vorrei sapere chi devo proteggere≫, sussurrò.

Il fratello le alzò il mento, costringendola a incrociarne lo sguardo.

≪Se smetti di sorridere otterrai l’unico effetto di ucciderci tutti, Jasper in primis. Se dovesse presentarsi un problema, lo affronteremo, come abbiamo sempre fatto≫, mormorò lui.

≪Sei assurdamente perfetto, Edward e questo è il tuo difetto più grande≫, gli rispose lei.

********

≪Ok, siamo arrivate≫, annunciò Renée.

Isabella inspirò profondamente, sbuffando dalle narici. Se avesse già posseduto un mezzo proprio, avrebbe ingranato la retromarcia e sarebbe fuggita da quel parcheggio. Nei mesi precedenti la sua vita era stata tempestata da una serie così incredibile di eventi che l’idea dell’imminente inizio dell’anno scolastico era passata in secondo piano. Non avrebbe mai immaginato le condizioni in cui avrebbe vissuto il penultimo anno di liceo. Bella guardò oltre il parabrezza: le prime auto iniziavano a popolare lo spiazzale. Un colpo di tosse la destò dall’intorpidimento nel quale era caduta. Renée le rivolse uno sguardo apprensivo. La donna alzò una mano per sfiorare la guancia pallida della figlia. La sua pelle candida aveva una consistenza morbida e liscia come la seta. Il quel momento la trovò fredda come il ghiaccio.

≪Stai pensando di tirarti indietro? Perché non la vedi come un’occasione di ricominciare: visi nuovi, posti nuovi... Non è tutto quello che hai sempre desiderato?≫, le chiese.

≪Lo è, ma ciò non toglie che temo di aver perso l’uso delle gambe≫, ironizzò la ragazza.

Renée le diede un piccolo schiaffetto sulla coscia fasciata dai jeans: ≪Sciocchezze. La tua unica difficoltà sarà la facilità con la quale t’imbarazzi per ogni sciocchezza≫.

Isabella alzò gli occhi al cielo. Come se non fosse nulla di rilevante! Il suo volto era un libro aperto. Chiunque avrebbe notato il suo imbarazzo, a causa del colore purpureo che avrebbero assunto le sue guance, e la sua allergia alle attenzioni. La giovane aveva imparato a conoscere un nuovo lato di se stessa negli ultimi anni e grazie ad Asami: una Bella ironica e determinata. Sperò ardentemente che ciò l’aiutasse nell’impresa di uscir viva da quel primo giorno. Isabella posò la mano sulla maniglia, sussultando al clic della portiera e spalancandola energicamente. Pose lo zaino sulla spalla destra, rivolse un cenno a sua madre e richiuse la portiera alle proprie spalle. Attese che l’auto si fosse allontanata, prima di guardarsi intorno. Un abisso si aprì davanti ai suoi occhi sgranati, destabilizzandola. Bella scosse il capo, ondeggiando la perfetta chioma scura, decisa a ignorarlo. Lo squarcio, che l’aveva separata dal vecchio istituto, si richiuse immediatamente nel suo immaginario, senza lasciare traccia di sé neanche laddove i margini combaciavano. La ragazza si diresse a passo spedito in segreteria, per ritirare l’orario delle lezioni e la piantina della scuola. In tal modo avrebbe evitato la pessima figura di aprire la porta della classe sbagliata e arrivare in ritardo alle lezioni: se avesse occupato un posto prima che le aule si colmassero d’insonnoliti studenti, non avrebbe catalizzato l’attenzione.

La stanza era molto accogliente e ben riscaldata. Il contrasto era tale che Bella avrebbe potuto fare a meno del suo giubbino di pelle marrone, mentre all’esterno la temperatura era tanto bassa da averle ghiacciato le mani. Le sfregò tra loro e le portò alle labbra, unendole in un semicerchio, respirando sui palmi in cerca di conforto. In quel frangente gli occhi vispi di una donna sulla sessantina la penetrarono. La giovane si mosse nella sua direzione, benché quello sguardo le suggerisse di fuggire.

≪Buongiorno≫, disse, vantando un perfetto accento e proprietà di linguaggio.

Quella fu la prima sorpresa per la donna.

≪Buongiorno≫, rispose questa, con una gracchiante voce molesta.

I capelli ricci, un po’ stempiati, sussultarono sul capo.

≪Sono...≫, iniziò la ragazza, ≪Isabella Swan≫, concluse la donna.

≪Certo che sei tu, cara≫, continuò, aggiustandosi gli occhiali su naso e infilando una mano sotto il bancone, in cerca.

I secondi passavano e Bella si chiese perché non distogliesse lo sguardo da lei e lo utilizzasse come ausilio nella sua ricerca. Quando stava per farle notare quell’inezia, la donna tirò fuori un paio di fogli, poggiandoli sul bancone, neanche le avesse letto l’intenzione nel pensiero.

≪L’orario delle lezioni e la cartina delle aule. Alla prima ora hai Jenkins, fisica, edificio numero tre≫, spiegò con aria soddisfatta.

Isabella avrebbe pensato che fosse tutta efficienza quella che ostentava, se non immaginasse che la donna avesse trascorso diverso tempo su quei documenti, a spettegolare.

≪La ringrazio≫, rispose Bella.

≪Disponibile per qualsiasi cosa, considerami pure un punto di riferimento, Isabella≫, replicò l’altra, ignorando la voce che la chiamava dall’altra stanza e scrutando nei dettagli la ragazza, con la precisione di una macchina radiologica.

≪Non vorrei distoglierla dal lavoro, sono certa che non abbia molto tempo da dedicare a un singolo studente≫, disse Bella, dirigendosi all’uscita, ≪ah, signora... Coop – lesse il nome sul cartellino appeso al suo collo – la chiamano≫.

******

Isabella era stata una brava alunna; non tanto da essere definita una “secchiona” dal resto del corpo studente, ma abbastanza da vantare una media alta in ogni materia. A onor del vero, la ragazza era sempre stata una via di mezzo tra l’eccellente e l’insufficiente. Diversi fattori influivano quotidianamente sulle sue prestazioni: l’umore, l’argomento trattato, il tempo atmosferico... La sua unica certezza erano state le materie letterali: tutto ciò che aveva a che fare con i libri e le parole era pane per i suoi denti. La matematica costituiva una dolorosa spina nel fianco, con la quale aveva iniziato una lotta fin dalle elementari e che perdurava nell’odiata trigonometria. La scienza e la fisica l’affascinavano, giacché soddisfacevano la sua naturale curiosità. Quel primo giorno sentì che avrebbe cambio idea, se non altro sulla seconda.

Il professor Jenkins era un uomo giovane, sulla trentina, con una folta chioma scura nella quale non mancava d’infilare le dita ogni due per tre e grattare la sommità della cute. Se il suo unico difetto fosse stato quello, Bella avrebbe imparato presto a ignorarlo. Appena aveva varcato la soglia della porta, assolutamente entusiasta di essere riuscita nel suo intento di arrivare fra i primi, l’insegnante di fisica l’aveva accolta con un enorme e inquietante sorriso obliquo. I suoi occhi castani erano allegri, perciò la giovane comprese che non avesse intenzioni equivocabili e che il luccichio dei suoi denti era qualcosa che andava al di là del suo controllo. Isabella aveva sussultato, sussurrando un timido buongiorno, accolto nuovamente dallo stesso sorriso sinistro.

≪La signorina Swan, immagino≫, esordì l’insegnante, risvegliando l’attenzione dell’unico altro alunno presente in classe: un ragazzo minuto e pallido, scalpitante sulla sedia: senza dubbio il “genio” della materia. Chi altri, a parte la ragazza nuova, avrebbe avuto tanta fretta di entrare in classe?

Nella sua vecchia città, il suono della campanella era temuto e l’unica ragione che spingeva gli alunni a non ritardare il più a lungo possibile l’entrata era un compito in classe o un’interrogazione alla prima ora. Guardando attentamente il ragazzo, Isabella pensò a quanto amasse la possibilità di cambiare aula a ogni suono della campana, e di conseguenza, compagnie. Nel liceo che aveva frequentato, il disagio più sentito da tutti era l’obbligo di bazzicare lo stesso ambiente, per cinque lunghi anni, con persone per le quali non si provava alcun tipo di simpatia. Nella mente della giovane si levò un’ola in ovazione al sistema scolastico anglosassone.

≪Sono io≫, rispose e sentì le guance prendere fuoco.

Jenkins le posò una mano sulla spalla, indicando l’aula con un gesto dell’arto superiore:≪Benvenuta signorina, occupi un posto qualsiasi e per qualunque cosa si rivolga a me. Le darò un test di valutazione iniziale, in modo da conoscere il livello della sua preparazione: nulla per cui debba preoccuparsi≫.

Isabella annuì, rivolgendo all’insegnante un sorriso tirato. Quando si fu voltata, le si presentò un dilemma: il posto in cui sedere. La scelta non fu troppo difficile, in quanto optò per il più distante dal ragazzo seduto al primo banco, che continuava a fissarla con le labbra dischiuse, e dal sorriso dell’insegnante.

L’aula si riempì a poco a poco. Bella scarabocchiava annoiata su un foglio bianco, ignorando le altre presenze, nonostante si sentisse perforare da occhiate continue. A volte alzava lo sguardo e trovava qualcuno voltato a osservarla. Due ragazzi del primo banco, un biondino con grandi occhi azzurri e un altro con evidenti problemi cutanei, si diedero il gomito, fissando la nuova arrivata, benché questa li stesse a sua volta guardando. Rinunciò per prima a quella battaglia di sguardi impudenti e tornò a concentrarsi sui propri disegni. Il biondo, che più tardi avrebbe scoperto chiamarsi Mike Newton, arrossì candidamente osservando il volto della nuova arrivata. Il giovane Mike sciabolò le sopracciglia color grano in direzione del suo compagno di banco e di culla, in un chiaro segno d’apprezzamento.

≪Mi devi cinque dollari≫, bisbigliò al suo orecchio.

******

≪Ciao≫, esordì una voce, distogliendo la giovane.

La ragazza alzò lo sguardo, incrociando quello altrettanto timido della voce che le aveva parlato.

≪Mi chiamo Angela, posso sedermi?≫, chiese.

Angela si mordeva le labbra e nell’attesa aveva portato una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La ragazza sembrava molto timida e riservata: sarebbero andate d’accordo.

≪Certo≫, disse Bella, lanciandole un sorriso abbagliante.

Angela rimase piacevolmente sorpresa e si accomodò al suo fianco.

≪Questo è sempre stato il mio posto: non riuscirei a seguire la lezione, se fissassi troppo lo sguardo su Jenkins≫, sghignazzò Angela.

La ragazza aveva capelli lisci come fili di seta, un volto dolce e un sorriso tenero. 

≪Ho notato le sue... particolarità≫, replicò Bella.

≪E’ una fortuna che fosse ancora libero: ho dovuto accompagnare i miei fratelli all’asilo e ho fatto tardi≫, i suoi occhi brillarono quando menzionò i fratelli più piccoli e in quello, Isabella riconobbe una parte di se.

≪Sei legata a loro≫, affermò con sicurezza.

Angela le rivolse uno sguardo che valse più di qualsiasi altra risposta affermativa.

Nelle ore successive, Isabella fece proprio il sistema scolastico e il corpo studente: la giovane aveva avuto il piacere di fare innumerevoli conoscenze. Isabella aveva sopportato con pazienza gli sguardi che temeva e le domande sfacciate dei curiosi, ripetendo sempre uno stesso copione: Charlie aveva pensato di ritornare nella città in cui era nato, dopo aver ricevuto un’allettante proposta di lavoro, e sua moglie e sua figlia lo avevano seguito volentieri.

Un chiasso assordante perforò i timpani della ragazza, appena varcata la soglia del refettorio. La mensa era l’unica nota stonata nella quale temeva d’incappare. La sua espressione dovette essere eloquente, perché Jessica, una ragazza riccia che aveva dovuto sopportare... pardon... della quale aveva apprezzato la compagnia per le precedenti due lezioni, le rivolse un sorriso finto come lo sarebbe stato un quadro di Monet attaccato alla parete della sua camera.

≪Ti ci abituerai presto≫, disse la ragazza, prima di fissare la propria attenzione sul tavolo del bel Mike. Il ragazzo sventolò una mano nella loro direzione, invitandole a sedere al suo stesso tavolo.

I ricci di Jessica fremettero e la ragazza scattò poco elegantemente, afferrando l’altra per un polso e trascinandola al bancone.

≪Vedrai che il cibo non fa così schifo. Ti consiglio la pizza o quei panini≫, esclamò piena d’entusiasmo e con evidente fretta nella voce, palesando la sua infatuazione per Mike.

L’unico motivo per il quale Isabella l’assecondò fu la presenza di Angela al suddetto tavolo.

Benché il banco avesse forma circolare, la ragazza, non appena si accomodò su una delle scomode sedute di plastica, occupò il vertice di un triangolo. Ognuno dei commensali interruppe la precedente conversazione e prestò la propria attenzione alla giovane italiana. Isabella avrebbe dovuto sentirsi lusingata da tutte quelle attenzioni maschili che non aveva mai ricevuto, ma provava solo infinito imbarazzo. La giovane colse il lato ironico di quella situazione negli sguardi colmi d’invidia di qualche ragazza. L’odio di Jessica Stanley per la nova arrivata era direttamente proporzionale alle attenzioni che Mike le rivolgeva. Il suo volto pallido assunse colorazioni verdastre e tentò un’astuta mossa, inconsapevole di aver così dato una mano a un processo già iniziato.

La ragazza lanciò uno sguardo eloquente all’amica, Loren Mallory, che si avvicinava al tavolo portando un vassoio di cibo. Jessica indicò con il capo il portavivande e la nuova arrivata, ricevendo un assenso dalla bionda, ormai alle spalle di Isabella. Ciò che nessuna delle due aveva tenuto in conto era proprio lei, l’innocente fanciulla dalle labbra rosse come il sangue, i capelli scuri come la notte e la pelle bianca come la neve. Isabella, che aveva notato con la coda dell’occhio ogni cenno e intuito il loro sotterfugio, fingendo un gesto casuale, alzò il braccio destro colpendo magistralmente il vassoio che ricadde, insieme al suo contenuto, sulla maglia color giallo canarino dell’arpia. Bella fece per sollevarsi dalla sedia e aiutarla, ma Loren, che desiderava recuperare un minimo credito, finse un sorriso e posò il portavivande sul tavolo, scomparendo a passo svelto nel corridoio. Bella si lasciò cadere sulla sedia, portando una ciocca di capelli dietro l’orecchio e tentando di trattenere il sorriso.

L’incidente aveva catturato l’attenzione della maggior parte del corpo studente. In verità, quella piccola fazione incurante era costituita da soli cinque elementi. Sedevano intorno a un tavolo isolato dal resto della scolaresca. Il biondo dall’espressione stravolta fissava lo sguardo all’esterno dell’istituto, tentando di distogliere l’attenzione dall’odore di “cibo”, la piccoletta accoccolata tra le sue braccia attendeva, rassegnata all’idea che fosse l’unica cosa da fare, il gigante carezzava indolente il braccio della compagna, una perfetta statua di marmo scolpita nei dettagli e l’ultimo, il rosso teneva lo sguardo basso sul vitto che non avrebbe mai consumato. Chiunque li avesse osservati e fosse andato oltre la perfezione del loro aspetto, avrebbe pensato che fossero avvolti da una bolla di sapone insonorizzata. A un tratto, quella bolla scoppiò.

Un pensiero s’insinuò nella mente del giovane Edward, pungente come uno spillo, mandando in frantumi il silenzio del suo isolamento volontario.

Sono certa che l’ha fatto apposta... altro che incidente. Odiosa..., Edward scelse di censurare l’insulto che ne seguì perché ritenne che fosse troppo volgare, in special modo se pronunciato dalle labbra di una fanciulla.

In pochi istanti gli fu chiara l’intera vicenda che aveva visto protagonista la nuova alunna. I pensieri di Loren Mallory erano intrisi della sua immagine. La perfida bionda aveva odiato la scintilla di luce che aveva accesso gli occhi scuri di Isabella d’ironia. Quella gioia genuina fu un balsamo per l’anima del giovane uomo. Un sorriso gli incurvò le labbra e alzò lo sguardo dal cibo intatto nel suo piatto.

Fu in quel frangente che Isabella lo vide per la prima volta. I loro sorrisi erano lo specchio perfetto l’uno dell’altro e la bolla ritornò ad avvolgere il rosso, ma fu attratta non più in direzione dei suoi fratelli adottivi, bensì verso la ragazza nuova. E quello fu l’inizio di tutto.

  
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