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Autore: thecarnival    05/11/2012    11 recensioni
MOMENTANEAMENTE SOSPESA CAUSA: ESAMI UNIVERSITARI.
Lei: ventisette anni, francese di nascita ma italiana d'adozione.
Lui: italiano, meglio dire, romano D.O.C.
Lei: vive in un piccolo appartamento in una zona tranquilla di Roma e si mantiene grazie ad un modesto lavoro che tuttavia sta iniziando ad odiare, perché è propria a causa di esso che ha visto infrangere le sue aspettative sul vero amore e sugli uomini: l'organizzatrice di matrimoni.
Lui: condivide casa con due sue amici e colleghi e, a differenza di lei, ama il suo lavoro, perché non solo guadagna soldi ma anche donne: è uno spogliarellista in un noto locale di Roma, il Ladies Night, ed è la principale attrazione del locale.
Entrambi pensano che l'amore sia inutile e passeggero, che la gente si stanchi di stare sempre con la stessa persona e che, prima o poi, si finirà per soffrire.
Le loro vite si intrecceranno per caso e il caso non li lascerà più allontanare.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Undress my heart.'
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The (he)art of the streap VIDEO.

Agli sbalzi di temperatura.
A Ryan che ci prende in giro.
Alla musica e cinema degli anni '60.



NOVE



Le ascoltavo, le osservavo litigare mentre si dimenavano sui divanetti, lanciandosi occhiate di fuoco e maledizioni sulle famiglie reciproche, e non avevo la forza di fare nulla; i due futuri mariti erano nella mia stessa situazione anche perché capivano la metà dei discorsi. Fu nel momento in cui una delle due disse che avrebbe rinunciato a sposarsi che intervenni: non potevo perdere una cliente.
- Ragazze, non capisco dove sia il problema. Avrete entrambe la vostra parte del locale addobbata come preferite, sarà tutto diverso tranne che la musica; quindi perché litigate?
Ilaria, la più pacifica delle due, abbassò lo sguardo imbarazzata. – Temo che Giada abbia paura che il mio ricevimento possa essere migliore del suo.
- Questo non è vero, io ti voglio bene e sono felice di festeggiare il giorno più bello della mia vita insieme a te.
- Allora smettila di cercare di sabotarlo con le tue idee assurde. - Aveva le lacrime agli occhi e forse potevo pure capirla: avrei voluto davvero fare qualcosa per aiutare lei e zittire una volta e per tutte l'altra.
- Ci sono due soluzioni: smettete di litigare, mantenendo quello che avete deciso fino ad adesso oppure… – Feci una pausa per rendere il momento più catartico – … affidarvi a me e lasciarmi organizzare tutto dall'inizio, ma avreste la stessa cerimonia, stessi fiori, cibo, addobbi, colori: niente di diverso e nessuna invidia.
Parlai lentamente in modo che anche i due futuri sposi mi capissero; tutti e quattro si guardarono e io mi rilassai contro lo schienale della poltroncina verde pistacchio, aspettando una loro risposta che non tardò ad arrivare.
- Okey. - Disse la stessa Giada convinta. - Mi sembra la cosa più giusta da fare, oltre al fatto di anticipare le nozze, così eviteremo di litigare e far impazzire te. 
Anticipare cosa? Forse non sapevano quanto fosse faticoso organizzare un matrimonio, soprattutto il loro, e quanto sarebbe stato complicato ricominciare tutto: il catering, il fioraio e compagnia bella mi avrebbero odiato, o forse anche uccisa.
Spiegai loro che avrebbero dovuto lasciare la data prevista in modo da darmi più tempo per preparare tutto nel migliore dei modi e per fortuna capirono: il matrimonio si sarebbe celebrato un mese e mezzo dopo, loro non mi avrebbero assillato e io sarei stata libera.


All'ennesimo starnuto, Giulia mi tirò addosso una palla di carta, colpendomi in testa – Vuoi andartene a casa, per favore? Non voglio ammalarmi anche io.
- Non sono… – Dovetti fermarmi per soffiare il naso – … malata, è solo un piccolo raffreddore.
Mina mi guardò scettica e tolse la mascherina per parlare – Piccolo? Guarda il tuo naso com'è rosso e poi dimmi se è solo un piccolo raffreddore.
Non capivo perché avesse quell'aggeggio a coprirle bocca e naso, neanche fosse Micheal Jackson nei suoi ultimi giorni di vita; tuttavia ignorai lei e le minacce di Giulia di denunciarmi a Carla. Stavo bene: qualche starnuto non mi avrebbe certo mandato a casa e costretta a letto.
- Non possiamo ammalarci pure noi, quindi vattene.- Mina era a un passo dal trasformarsi in una belva assassina; mi fece ridere la sua finta espressione da dura. - Emily, sono seria.
- Devo fare queste chiamate, ieri ho detto a quelle streghe che avrei ristrutturato il matrimonio.
- Ri-cosa? - La risata di Giulia risuonò cristallina nelle mie orecchie e mi infastidì a tal punto che le lanciai la palla di carta di prima. Non misi troppa forza, tanto che cadde al centro della stanza facendole ridere ancora di più. - Non sai parlare e, ripeto, sembri uno zombie. Quindi adesso te ne vai a casa o ti faccio licenziare.
Quando si mettevano in testa qualcosa era impossibile fargli cambiare idea, perciò misi tutto ciò che mi serviva nella mia grande borsa beige e mi feci accompagnare a casa perché, secondo loro, nelle mie condizioni non ero in grado di prendere i mezzi. Sarei potuta svenire tra tutta quella gente e qualcuno avrebbe potuto approfittare di me. Avevo delle amiche con la mente piuttosto contorta e non me ne ero mai resta conto.




- Sicura che posso andare? - Giulia mi aveva accompagnato fin davanti alla porta del mio appartamento contro la mia volontà.
- Sì, stai tranquilla. Io sto bene, hai insistito tu per farmi da scorta fino a qui. 
Mi guardò male, ma non avevo la forza di risponderle. La salutai con la mano prima di rintanarmi in casa, dove lasciai cadere la borsa per terra e corsi, o per meglio 
dire, mi trascinai come un elefante in punto di morte sul divano, accucciandomi su me stessa per non sentire freddo. Mi svegliai di soprassalto perché qualcosa nella mia testa rimbombava come le casse in discoteca; non mi era mai successo di addormentarmi come una pera cotta sul divano vestita e con il cappotto addosso. Mi accorsi che quel rimbombo era la vibrazione del mio cellulare dentro la tasca,quando quello riprese a squillare: chi cavolo mi chiamava in quel modo disperato?
- Sai quanto ci hai fatto preoccupare?
Sospirai all'urlo di Mina: perché mi aveva chiamato, impedendomi di dormire? - Ti serve qualcosa?
- No, volevamo sapere come stavi. Hai chiamato il medico?
- Perché dovrei – Mi fermai prima che ricominciasse a urlare quanto fossi incosciente – Sì, prima. Posso tornare a dormire adesso?
- Se hai bisogno di noi, chiamaci.
La rassicurai, riagganciando subito il telefono. Lo spensi, lanciandolo sul tavolino e, sempre con la leggerezza di un pachiderma incinta, mi mossi verso la mia camera per indossare il mio pigiama grande e caldo di pile e infilarmi nel letto, sotto le coperte, dove un mondo migliore fatto di arcobaleni, unicorni, Paul Newman e Elvis Presley mi stava aspettando. 



L'ultima cosa che ricordavo era di aver poggiato la testa sul cuscino e d'aver programmato di chiamare il fioraio non appena mi fossi svegliata, perciò perché ero su una giostra? Aprii gli occhi lentamente, rendendomi conto di essere ancora sul letto, tutta sudata e con le coperte attorcigliate ai piedi; il tetto non la smetteva di girare e gli sbalzi di temperatura iniziavano a darmi sui nervi. Mi misi a sedere, cercando la forza interiore che mi aiutasse ad alzarmi del tutto e andare fino in cucina per bere, dato che avevo la gola e le labbra secche, ma al primo passo un capogiro più forte degli altri mi fece perdere l'equilibrio: per fortuna caddi sul letto, ma quel contatto morbido non fermò il conato di vomito stimolato dai dolori alla testa.
Arrivai in tempo in bagno, ma non fui abbastanza brava a trattenermi: per fortuna il lavandino era molto vicino alla porta; sentivo bruciare la gola mentre rigettavo del liquido verdognolo, gli occhi lacrimavano e le tempie pulsavano a una velocità esorbitante. Scivolai piano lungo le mattonelle celesti e mi accasciai a terra, allungando le gambe per sgranchirle. Non avevo forza in nessun muscolo neanche per togliere i capelli incollati alla fronte sudata; probabilmente non mi sarei più mossa da lì, sarei morta di fame e sete perché nessuno si sarebbe premurato di venire a controllare le mie condizioni. 
Dopo aver constatato che se mi fossi alzata con molta probabilità avrei vomitato il nulla un'altra volta, strisciai, come un bravo soldato durante il suo periodo d'addestramento, fino al divano in salotto e mi ci buttai sopra, coprendomi con due coperte di pile. Accesi la tv, sperando che il digitale trasmettesse qualcosa di interessante, ma dovetti accontentarmi di Barbara e i suoi attacchi di “mostruosità” di Paint your life: quel programma faceva venire la sonnolenza peggio di Maurizio Costanzo Show ai tempi in cui andavo ancora a scuola. Non potevo continuare a vegetare sul divano, dovevo trovare la forza di alzarmi e preparare qualcosa da mangiare; anche se avevo lo stomaco chiuso e una discoteca al posto del cervello, cucinai un po' di pasta con il brodino, anche perché erano gli unici ingredienti disponibili nella dispensa. Dovevo fare la spesa o, in quei giorni di reclusione forzata, sarei morta di fame.
Riaccesi il telefono, mentre mi obbligavo a inghiottire la seconda cucchiaiata di pasta e brodo: il raffreddore aveva anestetizzato le mie papille gustative e la febbre aveva ucciso il mio appetito perciò quella roba nel piatto per me era poltiglia nell'acqua. Trovai una decina di messaggi della Vodafone che mi avvisava, molto cordialmente, che le mie care amiche mi aveva cercato come delle disperate: mandai un messaggio a Giulia per dirle che ero viva e vegeta e poi chiamai Mina per chiederle un piccolissimo favore. In fondo lei mi aveva spedita a casa, quindi me lo doveva.
- Te lo scordi! Ho un sacco di cose da fare domani, non posso pensare a te.
Trattenni un conato di vomito, quando finii di mangiare quella schifezza – Ma morirò di fame. - Piagnucolai come una bambina a cui rompono il giocattolo preferito – E tu non vuoi che succeda, vero?
- Certo che no, ma...- La sentii sbuffare e ghignai felice, mentre mi distendevo sul divano esausta: ogni movimento mi costava molta fatica. - D'accordo, ma mi devi un favore enorme. 
Sorrisi e chiusi la chiamata, mi veniva da piangere per il mal di testa e i dolori muscolari, avevo bisogno di un massaggio e anche di un medico che mi prescrivesse qualcosa per farmi guarire: non mi piaceva stare male, mi sentivo impotente e inutile in quei momenti e in più avevo da fare tantissime cose non potevo permettermi il lusso di stare a letto o sul divano sommersa da coperte e fazzolettini di carta.

 



Avendo dormito per tutto il pomeriggio, la notte feci fatica a prendere sonno, nonostante la debolezza e la stanchezza fisica mi avessero costretta a letto e mi avessero impedito di fare ogni cosa. Perciò mi svegliai alle sei del mattino, rigirandomi più e più volte tra le coperte, per colpa degli sbalzi di temperatura e delle smanie per il non fare nulla. Stavo peggio rispetto a due giorni prima dato che Mina non mi aveva portato la spesa e l'antibiotico che le avevo chiesto perché aveva troppo da fare, ma almeno, stando a letto, avevo recuperato un po' di forze, quelle necessarie per lavorare e continuare a organizzare il matrimonio dell'anno. 
Con il portatile sulle gambe, il telefono accanto e dei fogli sparsi sul resto del letto, cercai di sciogliere i nodi più difficili di quella situazione; dovevo disdire le vecchie prenotazioni e assicurarmi che non mi mandassero a quel paese mentre facevo quelle nuove. 
Il termometro, alle dieci del mattino, segnava la temperatura di trentotto e due: avevo i brividi di freddo e il mal di testa era tornato a farmi compagnia, colpa anche di tutte quelle ore trascorse al pc, cercando di distrarmi e impiegare al meglio il mio tempo. Spensi il portatile e lo spinsi insieme alle altre scartoffie ai piedi del letto e mi rifugiai sotto le coperte, sperando che il piumone mi riscaldasse abbastanza.
Battevo i denti: stavo malissimo e sentivo troppo freddo: decisi di chiamare Mina per chiederle aiuto, dato che doveva ancora portarmi la spesa e le medicine.
- Lo so, lo so – Rispose senza nemmeno salutarmi e ancora prima che potessi dirle qualcosa – Devo farti la spesa, solo che sono bloccata in mezzo al traffico e devo ancora passare dalla Chiesa e parlare con il Parroco.
Sorrisi stanca, immaginandomela alla guida della sua Ford Fiesta melanzana – Mina, ho bisogno dell'antibiotico.
- Oddio, stai tanto male vero? Sono una pessima persona. Maledetto traffico. - Scostai il telefono dall'orecchio,perché sentirla imprecare contro gli altri automobilisti contribuiva solo a far aumentare il mio terribile mal di testa. - Prometto di portarti tutto entro un'ora o delegherò qualcuno, non ti lascerò morire da sola a casa.
- Lo spero, non voglio morire per una stupida influenza.
La sentii ridere, mentre chiudevo la chiamata e lanciavo il telefono dall'altra parte del letto: avevo sete, dovevo fare la pipì e forse avevo anche fame, ma non riuscivo ad alzarmi da quel letto; puzzavo e mi sentivo una stracciona. E se non avessi conosciuto Mina e Giulia? Se fossi stata sola al mondo come avrei fatto? Sarei dovuta uscire e comprare le medicine io stessa, quindi potevo e dovevo alzarmi e fare qualcosa, per il mio bene e per l'igiene di tutto il mondo. 
Come sempre mi trascinai fino in cucina: strisciavo i piedi, perché alzarli era troppo faticoso e in effetti mi divertivo, insomma, perché sprecare energie nel camminare bene e alzare i piedi, se strisciandoli si otteneva lo stesso risultato? È come: perché rifare il letto se poi, la sera, lo si riusa? 
La febbre stava iniziando a farmi delirare, magari con una doccia mi sarei ripresa o sarei tornata a ragionare come le persone normali; sapevo che Mina non sarebbe arrivata prima di un'ora, perciò feci tutto con calma, riscaldando pure le mie fragili ossa con l'acqua calda e il vapore.
Uscii quando le mie mani si erano raggrinzite e quando le mie gambe avevano iniziato a cedere, segno che la febbre stava salendo ancora: maledetto freddo, maledetto tempaccio e stronza Mina che non mi aveva portato l'antibiotico. 
Profumavo di mandorle; i miei capelli mossi e ribelli e il mio pigiama, sempre in pile, blu con le case disegnate mi davano un'aria sbarazzina e liceale; quella doccia mi aveva rinvigorita e trovai addirittura la forza di prepararmi una tazza di thè e sistemarmi sul divano a mangiare, attendendo impaziente l'arrivo di Mina. Stavo guardando Cucina con Ale immaginando Alessandro Borghesi nella mia cucina a preparare quel piatto di pasta succulento e servirmelo a letto, quando suonarono il campanello. Non volevo alzarmi per aprire, sia perché mi annoiava camminare sia perché non volevo perdere, neanche per un secondo, quella bellissima visione, ma, sapendo che fosse Mina con il mio cibo e la mia cura, avanzai fino alla porta, avvolta in un coperta perché il freddo era tornato a possedermi. 
Aprii il portone del palazzo senza neanche rispondere e, con un gesto meccanico, anche quella d'ingresso, lasciandola socchiusa, in modo da poter tornare sul divano e godermi il mio Alessandro.
Dopo dieci minuti, sentii un rumore familiare – Perché ci hai messo tanto?
- Non ricordavo il piano.
Una voce maschile. 
Non era Mina, a meno che non fosse diventata un uomo nel giro di qualche ora; ero in preda al panico perché con molta stupidità avevo aperto la porta senza neanche chiedere chi fosse: uno sconosciuto era dentro casa mia e mi avrebbe uccisa, violentata e uccisa. 
Avevo la febbre, magari se glielo avessi fatto presente sarebbe scappato.
- Tua mamma, il grande avvocato, non ti ha insegnato che non si apre la porta agli estranei?
Sospirai sollevata quando lo riconobbi e mi voltai a guardarlo – Gerri! - Esclamai felice, mordendomi la lingua un secondo dopo: quello non era il suo vero nome! – Che che ci fai tu qui?
- Certo che sei messa davvero male eh? 
Posò dei sacchetti sul tavolo e dopo qualche secondo tirò fuori, da uno di quelli, uno scatolino della farmacia. - La mia salvezza. 
Mi alzai, ma la fretta causò un altro di quei terribili capogiri e cascai sul divano; fu Geremia stesso a portarmi un bicchiere d'acqua e una capsula, ma non riuscii a guardalo negli occhi e lo ringraziai mentre prendevo la pillola dalla sua mano destra. La ingoiai e mi distesi sul divano, aspettando che facesse effetto. 
- Che ci fai qui? - Gli chiesi mentre sistemava il latte in uno sportello. - Voglio dire, perché mi hai portato la spesa?
- Ero al supermercato e ho incontrato la tua amica. Dove va questo? - Mi mostrò una bottiglia di succo di frutta alla pera e gli indicai il frigorifero. - Comunque quella è un po' fuori di testa, voleva pagarmi per farmi venire. - Si bloccò e mi sorrise malizioso. - Quello è gratis, oltre che naturale e spontaneo. 
- Idiota. - Mi rannicchiai su me stessa, coprendomi meglio con il piumone; lo sentivo muoversi in cucina e sistemare il resto della roba. Non volevo che restasse un minuto di più perché la sua presenza mi imbarazzavaera pur sempre un estraneo e non mi andava farmi vedere in quello stato. 
- Ti serve qualcos'altro? - Negai e mi alzai per accompagnarlo alla porta, non volevo cacciarlo, ma se fosse rimasto un minuto in più si sarebbe ammalato anche lui. - Se hai bisogno di qualcosa chiamami. 
Lo guardai incerta. - Sì, certo. - Provai a ringraziarlo, ma un altro conato di vomito ebbe la meglio: tappai la bocca con le mani e corsi in bagno, cercando di non inciampare nel tappeto del piccolo corridoio; questa volta arrivai in tempo e rigettai il thé e i biscotti che avevo mangiato qualche ora prima dentro il water. Mi sentivo uno straccio. Quando provai ad alzarmi delle mani mi aiutarono a farlo, Geremia era rimasto e aveva assistito allo spettacolo. 
- Oddio, che vergogna.- Mi sedetti sul bidet, nascondendo il viso tra le mani. Lo sentii ridere e lo guardai scettica, più o meno. - Cosa ci trovi di così divertente? 
Fece spallucce e, dopo aver tirato lo sciacquone, buttò un po' di candeggina dentro per eliminare il cattivo odore: era un uomo di casa. - Tu che ti vergogni d'aver l'influenza. - Mi porse una mano e mi sorrise: non era il suo solito ghigno malizioso o strafottente, era diverso, quasi preoccupato. - Forse è meglio se ti porto a letto.
- Vorresti approfittare di me in queste condizioni?- Mi finsi offesa e la sua risata mi rilassò. - In realtà avrei un po' di fame.
Mi sorrise di nuovo e mi scortò fino in cucina, aiutandomi a sedere sullo sgabello. - Cosa desidera mangiare,signorina?
Lo guardai sbalordita e divertita, mentre indossava un grembiule – Sai cucinare?
- Me la cavicchio. Allora, cosa vuoi che ti prepari: primo o secondo? – Chiese, non smettendo di sorridere e guardandosi intorno, probabilmente cercando di orientarsi.
- Stupiscimi. - Per la seconda volta mi morsi la lingua: quella febbre stava iniziando a farmi dire le cose peggiori. Era peggio dell'alcol. - Voglio dire…
- Sì ho capito, non peggiorare la tua situazione.
Gli feci una smorfia e l'osservai lavoraredi tanto in tanto mi chiedeva dove fossero le spezie o altri oggetti e gli rispondevo con gesti e cenni del capo; era divertente stare a guardare senza fare nulla, sentirmi ospite in casa mia e avere un uomo attraente in cucina a prepararmi il pranzo. Il silenzio però era troppo imbarazzante: cercai, quindi, di instaurare una conversazione per lo meno civile, senza nessun litigio o doppio senso; rispondeva alle mie domande tranquillo, mentre tagliava i pomodori e li metteva in padella. Lui non chiedeva mai nulla, come se non gli importasse nulla di me.
- E quindi è da molto che fai questo lavoro?
- Lo spogliarellista? Qualche anno.
Chiacchierare con lui era davvero difficile. - Perché, hai qualche altro lavoro? - La sua risposta mi aveva indotto a pensare che facesse qualcos'altro oltre a spogliarsi la notte e a farsi infilare banconote da minimo venti euro nel perizoma. 
Rabbrividii al ricordo di lui nudo.
- Hai freddo? 
- No, sto bene, grazie. 
Non l'avevo mai visto così preoccupato, in realtà non l'avevo mai visto in altri momenti o in altre vesti. Si stava prendendo cura di me come se fossi una sua amica. Piombò di nuovo il silenzio e ne approfittai per guardalo ancora: mescolava la pasta dentro la pentola facendo attenzione che l'acqua non schizzasse fuori, con un cucchiaino, poi, aveva assaggiato il condimento e aveva aggiunto del sale e pepe, forse, dopo aver fatto una smorfia schifata.  
- È quasi pronto. - La sua voce mi colse in flagrante e abbassai subito lo sguardo – Apparecchio qui o vuoi andare sul divano? 
- Va bene qui, grazie.
Se lo avessi ringraziato ancora, mi sarei sparata alle ginocchia.
- Comunque – Continuò, mentre scolava la pasta – in teoria non ho nessun altro lavoro.
Mi porse il piatto fumante e abbastanza invitante, lo odorai, ma non sentii nulla: avevo naso e gola chiusi per colpa del raffreddore – E in pratica? - Mandai giù il primo boccone e lo guardai in attesa di una risposta.
I suoi occhi erano fissi nei miei, come se da un momento all'altro aspettasse che dicessi qualcosa quando in realtà era lui a dover parlare. Masticai gli spaghetti con calma, cercando anche di capire che sapore avessero.
- Ti piacciono?- Aveva preferito cambiare discorso e lo lasciai fare perché, in effetti, non avevo tanta voglia di stare lì a discutere sul suo lavoro o altro; non gli risposi perché non sapevo che dirgli, per me erano insapore. Allo stesso tempo non volevo deluderlo, perciò annuii e continuai a mangiare, alternando dei sorrisi accennati ai bocconi.
Essere osservata mentre mangiavo, però, era piuttosto inquietante e fastidioso, ma non gli dissi nulla per non sembrare scortese: in fondo mi aveva preparato un pranzo coi fiocchi senza che gli avessi chiesto nulla. Aspettò che finissi tutto prima di togliere il piatto e riposarlo dentro il lavandino insieme alla forchetta e al bicchiere.
- Che stai facendo?- Lo fermai prima che iniziasse a lavare le stoviglie, un conto era cucinare e un conto era sfruttarlo come domestica personale. - Ti prego, lascia stare, li farò più tardi o domani.
- Ma stai male e... D'accordo, non insisto. - Gli sorrisi grata. - Adesso devo andare, ti serve altro?
- Oh, no no. Hai fatto troppo e ti devo un favore enorme.
- Non pensare che tutto quello che gli altri fanno per te sia questione di dare e ricevere, magari è anche un piacere farlo, no?
Abbassai lo sguardo imbarazzata: mi aveva colpita nel segno; in realtà mi comportavo in quel mondo, erigevo un muro invisibile, perché non volevo soffrire, non volevo stabilire nessun tipo di contatto o legame con gli altri. Era più comodo pensare che qualcuno fosse gentile con me per un tornaconto personale piuttosto che per vera e propria gentilezza o perché volesse farlo. 
Non credevo, comunque, che Geremia si comportasse in quel modo nei miei confronti perché avesse qualche interesse o perché, mosso da uno spirito di crocerossino, sentiva il bisogno di prendersi cura di me; ero convinta che ci fosse sotto qualcosa, ecco perché mi tenevo a debita distanza, continuando a mettere mattoni sempre più grossi su quel muro invisibile. 
- A presto e grazie di tutto … - Era frustrante non sapere il suo nome.
- Pietro. 
- Cosa?
- Mi chiamo Pietro e mi sembra assurdo che tu non lo sappia ancora. - Scoppiai a ridere, colpa dell'imbarazzo e della febbre alta, sotto il suo sguardo interrogativo. - Se hai bisogno di qualcosa, chiamami. - Mi lasciò un bacio sulla guancia, ma molto vicino alle labbra; indugiò troppo sulla mia pelle tanto da farmi chiudere gli occhi, mentre percepivo il contrasto freddo–caldo tra la sua bocca e la mia guancia. Sospirai quando si staccò. - A presto.
Mi chiusi la porta alle spalle e sfiorai il bacio con la punta delle dita. - Pietro. Pietro. Torna indietro.







*******

Emily ha la febbre, povera piccola.

Ciao a tutte e ben tornate! Come è andata il 31 notte? Avete festeggiato o siete rimaste a casa a lavorare a maglia? Io sono andata a ballare e sto utilizzando questi giorni di vacanza per riprendermi del tutto ma forse è meglio smettere di ciarlare inutilmente e concentrarci sul capitolo.
Emily, finalmente si è sbarazzata di quelle due stupide spose, cioè, le ha messe d'accordo anche se dovrà lavorare il doppio ma almeno le farà stare zitte – speriamo.
Sì è però, beccata una brutta influenza ed è costretta a stare a casa, ora, vorrei precisare qualcosa: non sono un medico né mai lo diventerò perciò non so quali sono i giusti sintomi della febbre ma avendola avuta spesso e soffrendo di emicrania e cefalea tensiva so quanto ci si possa sentire allo stremo delle forze e quanto sia possibile vomitare per dei capogiri o fitte alla testa. Ovviamente è tutto amplificato, datemi un po' di licenza letteraria su. XD
Paint your life è un programma su RealTime, non saprei come spiegarvelo perché l'ho visto poche volte e ogni volta mi sono addormentata, perciò, cliccate sul nome per saperne di più.
Cucina con Ale invece, è molto carino, sulla cucina e sempre su RealTime condotto da Alessandro Borghese ve lo consiglio se vi piace cucinare e se vi piace lui.
IL NOME. Finalmente si è scoperto questo benedetto nome di Gerri, in realtà si chiama Pietro, Pietro Vivaldi.
Alcune di voi avevano indovinato, altre se lo ricordavano perché ne avevo parlato mesi fa nel gruppo dimenticando che non potevo.
Comunque sia ormai il mistero è risolto ;)
Credo di non avere altro da dire e lascio la parola a voi.
Ringrazio tutte coloro che hanno recensito la scorsa volta e chi continua ad aggiungere la storia tra le varie categorie: grazie millissime, mi riempite il cuore di gioia, amore e pace. <3
Grazie, ovviamente, a
Ellina e al suo tocco rosa.
Vi ricordo, per chi volesse, l'esistenza del gruppo
facebook e del mio canale youtube.
Grazie ancora e che la panna sia con voi.
Alla prossima.

   
 
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