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Autore: Klavdiya Erzsebet    05/11/2012    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.XI

La Scienza del Male

 

Greg realizzò che tutto quello che poteva fare era finito.

Sophia era in ospedale. Sherlock era stato messo al corrente della faccenda. Tutto quello che gli rimaneva era una macchia di sangue in bagno che non si sarebbe dissolta in totale autonomia e la muta promessa di qualche capatina all’ospedale per – quanto? Un giorno o due? Di più? Dio, no. Desiderava vedere Sophia a casa e sana con tutta la forza che gli rimanevano.

Nonostante probabilmente nulla sarebbe cambiato: si sarebbero ignorati esattamente come lei faceva ora nei suoi confronti, addormentata in un letto d’ospedale. Perché la voglia folle e irrazionale di stringerla gli veniva solo quando non poteva e c’era un – minimo, vero? – rischio di non potere più farlo?

Aprì la portiera dell’auto e un sacchetto bianco di stoffa, simile a quello della spesa, catturò la sua attenzione dal sedile posteriore. Era in mezzo, appoggiato allo schienale, e per qualche strano motivo era ricaduto elegantemente anche dopo che andandosene dall’ospedale Greg lo aveva lanciato.

Si maledisse, perché dovevano esserci dentro i vestiti di Sophia – anche se a questo punto lei non ne aveva bisogno, e anche se fosse avrebbe potuto portarglieli comunque l’indomani. Ripensandoci, avrebbe dovuto infilarle i jeans, la maglietta e la felpa in una qualche borsa che assomigliasse meno a quella che normalmente avrebbe usato per fare la spesa. Eppure il fatto che Annabel Reimy girasse per Londra con una cosa simile, con gli stessi manici lunghi per reggerla comodamente alla spalla, insieme a dei jeans all’ultima moda e lo smalto rosso gliela fece rivalutare: forse non era così da zingari. Oppure forse era solo una questione di comodità.

Greg si sedette sul sedile anteriore e chiuse la portiera forse troppo violentemente (attento, che spacchi il vetro, cazzo!), stringendo le mani al volante e abbandonando la testa contro lo schienale.

Ci era stato tante volte, al motel. Credeva di esserci arrivato in qualunque circostanza – dopo un tradimento, ubriaco. Dopo un tradimento, questa volta sobrio. Dopo un litigio, e anche qui c’era la variabile alcool/non alcool.

Credeva di esserci ormai andato in qualunque stato umanamente immaginabile. Quello che non aveva mai immaginato, era arrivarci così. Era solo una delle tante versioni – la più inaspettata – della cosa che pur sapendo benissimo vicina aveva sempre scacciato dalla mente: perdere Sophia. Per il divorzio, aveva sempre pensato. Cristo santo, non così.

All’improvviso accese l’auto più in fretta che poté e cominciò a guidare a una velocità che di solito non dedicava mai a quel particolare viaggio – non quando beveva, almeno. Non aveva ancora bevuto. Strano.

Doveva solo concentrarsi sulla strada, sul silenzio o su qualunque cosa, pur di non pensare a Sophia – perché più la morbosità di quei pensieri aumentava, più prossima alla morte era sua moglie nella distorta e parzialmente inconscia immagine mentale che aveva di lei.

Greg prestò attenzione alla strada, perché la sua destinazione era decisamente poco segnalata. Il motel era piccolo e spesso deserto, in periferia, e se qualcuno gli avesse mai chiesto perché lo avesse scelto (davvero a qualcuno sarebbe importato? No di certo) Greg avrebbe risposto che era perché sulla strada per arrivarci non abitava nessuno che conoscesse.

Per evitare la gente, quindi, si era rifugiato lì; in un posto di quart’ordine popolato da delinquenti e drogati – anche se, in effetti, aveva un’immagine della clientela fortemente stereotipata. Non avrebbe dovuto, in fondo. Semplicemente si disse che era pieno di gente sola (strano che non ci fossero più mariti come lui, dovunque andasse, oppure era lui che non li notava? Sicuramente erano una specie molto discreta) e poco socievole. Nessuno parlava, nessuno chiedeva, soprattutto, e ogni tanto quel totale disinteressamento lo aveva portato all’esasperazione – quelle volte che gli sembrava di esplodere a forza di tenersi ogni cosa dentro. Ora invece non si sentiva così. Amò passare inosservato fino al bancone, senza curarsi della borsa della spesa di stoffa bianca insolitamente pesante per contenere solo vestiti che gli sbatteva contro la gamba.

Il proprietario non alzò nemmeno lo sguardo su di lui e a Greg sembrò incredibile che si trattasse della stessa persona che lo accoglieva ogni volta. Aveva il sospetto che ormai lo riconoscesse, e che a forza di vederlo ubriaco si prendesse gioco di lui – ma no, troppa gente arrivava in quel motel in uno stato disumano, e oltre al sadismo avrebbe anche dovuto avere molta dedizione nel prendersi gioco di tutti.

“Tredici” gli disse burbero il proprietario – proprio come nei film – allungandogli una chiave sudicia con attaccato quel numero sfortunato (o no? Non ricordava) tenuto ormai insieme con lo scotch. L’uno e il tre si erano separati e Greg preferì stringere le dita attorno al metallo della chiave, per poi pentirsene immediatamente. Era appiccicaticcio, esattamente come le monete che ti davano di resto al supermercato. Sophia odiava toccarle. Si sentiva le mani sporche per ore, quando le capitava.

Greg ormai ricordava la disposizione della stanze: l’aveva imparata subito, la prima volta, quando come sempre il proprietario aveva omesso di comunicargli il piano. Sì, contrariamente alle sue previsioni ce n'era più di uno. Aprì la porta della stanza e lo accolse una brandina devastata con le lenzuola bucate, un minuscolo armadio sudicio dove non avrebbe mai messo nemmeno un paio di scarponi da montagna e un minuscolo comodino–cassettiera. Mai capito cosa ci facesse lì. In molte delle altre stanze identiche a quella, i cassetti nemmeno si aprivano.

In quella sì, però. Gli sarebbe piaciuto stenderci dentro ordinatamente i vestiti di Sophia, magari insieme a quelle belle saponette profumate o ai sacchettini di lavanda – cose che nella sua futura probabile vita da scapolo gli sarebbero mancate, pensò. Cose che sapevano di casa, di famiglia; di Sophia, quindi.

Non c’erano sacchettini di lavanda o saponette nei cassetti della stanza tredici – strano che, nonostante il numero, si aprissero addirittura, realizzò Greg. Non avrebbe mai messo i vestiti di sua moglie lì dentro, e probabilmente nemmeno quelli di Gregson, se solo gli fossero capitati tra le mani – non che lo desiderasse, certo.

Valutò di fare una cosa terribilmente romantica – dormire abbracciando la maglietta viola scuro di Sophia, per esempio (non i jeans, ovvio). Illudersi che profumasse ancora di lei e non del detersivo trovato in offerta al supermercato – l’unica cosa, probabilmente, che lei gli avesse detto spontaneamente quella settimana. Il detersivo era in offerta. Il solo pensiero gli diede una dolorosa, anche se non del tutto spiacevole, fitta al cuore, e Greg si rese conto che era ufficialmente nella fascia d’età in cui per una cosa del genere doveva preoccuparsi.

Immaginò di portarsi la maglia viola al volto e ispirare profondamente il suo profumo, come gli amanti nei film. Era così romantico al cinema. Invece, doveva essere davvero schifoso – per il detersivo, forse; era un modo mediocre per pensare a lei in una situazione ancora più mediocre, per non dire disastrosa.

Si sedette sulla brandina e si posò la borsa bianca di stoffa sulle ginocchia, accorgendosi alla prima occhiata di qualcosa di strano. La aprì, senza sapere cosa pensare.

Dentro ci vide un libro in edizione economica, bianco e anonimo. Isidore Blackbourne. La scienza del Male.

Greg lo guardò perplesso per qualche istante; poi lo sguardo gli cadde su qualcosa di pelle marrone dall’aria familiare. “Cristo santo” disse a voce alta quando vide un orologio da uomo dall’aria vissuta, abbandonato vicino a quello che effettivamente era identico al suo portafoglio rubato. Spostò il libro, e vide due cellulari. Uno femminile, con un pompon fucsia (Dio santo) attaccato e rivestito con una bandiera britannica di brillanti. Quello accanto era esattamente dello stesso modello di quello che gli avevamo rubato nel camion. “Merda” imprecò Greg. Chiuse la borse e vide un motivo rosa acceso lungo il bordo superiore – ti prego, fa’ che non l’abbia notato nessuno. Era la borsa di Annabel – erano così simili. L’aveva confusa in ospedale.

La scagliò a terra con un movimento dettato esclusivamente dalla rabbia. Pensò che finalmente, almeno, poteva buttare via quell’orribile e inutilizzabile touch screen che si era comprato. Pensò che aveva ritrovato l’orologio che gli aveva regalato Sophia (oh, no, la camicia. Quella che le aveva regalato lei. Era sporca del suo sangue – chissà se andava via, mai fatto la lavatrice lui).

Avrebbe dovuto dormire; sentiva gli occhi che gli si chiudevano. Eppure non volle, non ne aveva la minima intenzione: era in qualche modo troppo sveglio e scosso da quella giornata d’inferno.

Si alzò, raggiunse con due passi scarsi la borsa che era finita contro il muro, e pensò che alla fine La scienza del Male non era male, che alla fine erano comunque lettere d’inchiostro una dietro l’altra che l’avrebbero distratto e fatto addormentare. Sulla copertina perfettamente curata, niente forniva indizi sull’effettiva natura del testo: qualcosa che voleva denunciare un determinato aspetto a caso della società – ma allora che cosa diavolo ci faceva nella borsa di Annabel Reimy? Un romanzo? Un saggio?

Aprì la prima pagina. Niente dedica da parte dell’autore, che realizzò di non avere mai sentito nominare. Solo due nomi, scritti a penna, stranamente entrambi dalla stessa tondeggiante calligrafia femminile: Marian Benley, che era stato cancellato alla meglio, e poco più sotto quello che Greg si era effettivamente aspettato di trovare: Annabel Reimy.

Lo prese in mano, e studiandolo attentamente cominciò ad avvicinarsi lentamente al letto. L’inizio era decisamente troppo noioso e allora cominciò ad aprirlo a caso, leggendo paragrafi a caso, ogni volta più perplesso; e se all’inizio gli occhi gli si chiudevano, quando trovò il capitolo sui ‘Capostipiti’ appena oltre la metà il sonno gli passò. Rimase fermo, confuso, con gli occhi sgranati, in piedi davanti al letto.

Una voce femminile lo riscosse, senza un suono, da dietro. “Credo che tu abbia preso la mia borsa”.

 

***

 

“Mi ha chiamato Sally Donovan” disse John a voce alta mentre Sherlock tentava di ignorarlo, sdraiato sul divano con addosso il lenzuolo e con le mani congiunte.

Okay. Doveva avergli detto del caso e della svolta avvenuta solo grazie a lui. Wow? “Mh”. Il detective chiuse gli occhi, cercando di evitare di fissare il dottore. Non doveva fargli capire che era troppo impaziente di ricevere la sua solita dose di complimenti.

Anche John sembrava impaziente di dire qualcosa; e pareva soppesare le parole, esitare, cercare una posizione adatta per sembrare calmo come in realtà non era. Solo che i suoi occhi erano troppo ansiosi, le sue mani troppo accanite nel massacrarsi a vicenda. L’indice destro sanguinava leggermente per quanto si era morso l’unghia e la carne tutto intorno. “John” lo chiamò Sherlock. Si mise di scatto a sedere, guardandolo perplesso come faceva raramente. “John. Cosa è successo?”

Il dottore se ne rese conto – capì l’unicità di quell’emozione sul viso del detective.

John continuò a tacere, indeciso; non era bravo a parlare. Non lo era nessuno dei due. Ecco perché le loro conversazioni erano penosamente imbarazzanti e lui continuava a dare appuntamenti a ragazze poco timide e con la bocca eternamente aperta, spesso nella speranza che ci entrasse qualche insetto. Lui aveva sempre creduto che le ragazze fossero silenziose e timide, ai loro primi appuntamenti; ma Sarah non lo era così tanto e quindi si chiese se potesse essere speciale, secondo un punto di vista particolarmente subumano. Dio, la gente era così cieca e superficiale da considerare seriamente quel punto di vista?

“Vedi, Sally era… preoccupata” cominciò John. Sherlock non gli credette. Capì con una fitta di disappunto dove sarebbero andati a parare, e sicuramente la parola giusta per definire Sally Donovan che racconta la sua versione dei fatti al telefono non era ‘preoccupata’. ‘Seccata’, semmai; al limite ‘divertita’. Difficilmente ‘preoccupata’ nel senso che John intendeva, perché l’unica preoccupazione di Sally sarebbe stata la gestione del caso: sì, era preoccupata per il caso in quel senso. John però non era preoccupato per il caso, Cristosanto! Era preoccupato per lui e Sherlock dubitò che sarebbe riuscito a spiegargli che in ogni caso aveva appena trovato una pista vincente.

“Mi ha detto che sei riuscito a trovare un indizio importante” aggiunse però – miracolosamente – John, facendo retro front. Ma Sherlock non aveva trovato solo un indizio, bensì una pista: quando avrebbe capito, il sergente Donovan, che John non era il suo cane ma il suo assistente a cui poteva dire tutto quello che avrebbe detto a lui stesso?

Sherlock annuì, smettendo di fissare il volto di John. “E… sono contento che tu abbia finalmente trovato una pista – o almeno immagino che tu l’abbia fatto – perché prima sembravi in crisi. Adesso non più. Sono contento” concluse il dottore, evidentemente abbandonando qualunque progetto di Conversazione Profonda avesse architettato in precedenza. Sherlock annuì, chinando la testa. Improvvisamente anche John parve trovare terribilmente interessante il pavimento; solo che per far sembrare che fosse solo un banale silenzio, e non un silenzio imbarazzato post–Atroce Conversazione Profonda, dopo qualche istante decise di fissare il vuoto tra le righe di un libro che aveva abbandonato su un tavolino poco prima che arrivasse Greg.

Non lo aprì al contrario, grazie a Dio, e si sforzò almeno di ritrovare il segno; soltanto, rimase per un tempo insolitamente lungo con gli occhi fissi sullo stesso punto della pagina. Che ore erano? Probabilmente John stava per andare a letto quando si era fermato a tentare di mettere insieme una Conversazione Profonda. Tardi; le dieci e mezza, undici, forse già mezzanotte. Il telefono cominciò a suonare e Sherlock si alzò di scatto per prenderlo dal tavolino, nonostante fosse più vicino a John che a lui. Sullo schermo c’era un nome – una singola parola, secca, ormai familiare. Lestrade.

  
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