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Autore: Nymphna    08/11/2012    5 recensioni
[Disney]1-Jasmine~ “Voglio volare” bisbigliò. Il vecchio Joe scoppiò in una risata strana, sguaiata, che sembrava l’abbaiare di un cane.
2-Cindy~ Lui l’aveva riconosciuta. L’aveva cercata. Ma, soprattutto, l’aveva trovata.
3-Ariel~ Quel ragazzo meraviglioso con la risata contagiosa e il viso impertinente l’aveva appena baciata.
4-Belle~ E lei voleva un’avventura? Lei chiedeva di avere qualcosa in più? Proprio lei, che non aveva mai fatto niente.
5-Esmeralda~ Prese un Tennessee Wisky e ne ingollò due grandi sorsi. Poi ripensò a Febo e la preoccupazione prese il sopravvento.
6-Aurora~ “Perché sorridi?” domandò la mora. “Ora ti racconto” disse Aurora, i capelli sciolti che si muovevano al vento “Anch’io ho trovato l’amore”
7-Jane~ "Io non voglio perdere la libertà. Ma soprattutto non voglio perdere papà. E nemmeno te."
8-Meg~ "Sei veramente … fantastica. Una forza” “No. Sono tremendamente sola”
9-Blanche~ "Ma quella sera il baco si era aperto e ne era uscita una meravigliosa farfalla.
10-A Whole New World~ Fine.
Genere: Generale, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 5, Esmeralda.
(da lunedì 28 a mercoledì 30 giugno)

 


Esmeralda aprì i suoi occhi verdissimi appena sentì battere alla porta. Non aveva mai avuto il sonno pesante e quel giorno non faceva eccezione, nonostante fosse tornata ubriaca persa dalla sera prima. Si alzò dal divano passandosi una mano fra i capelli scuri e folti, avvicinandosi alla porta. Lanciò un’occhiata fuori dallo spioncino. Là c’era un ragazzo sui trent’anni, biondo, con vispi occhi scuri e indagatori. Non che il suo viso le stesse antipatico, il problema era com’era vestito. La divisa di poliziotto lo rendeva immediatamente antipatico ai suoi occhi. Aprì la porta e si appoggiò allo stipite, ben consapevole di quanto fosse attraente per qualsiasi uomo. Le gambe lunghe e nude spuntavano sotto una maglietta extra larghe bianca che lasciava ben poco all’immaginazione. Incrociò le braccia sul petto e la maglietta si strinse, mettendo in evidenza i seni sodi e pieni. Il ragazzo le lanciò un’occhiata compiaciuta, poi le rivolse un sorriso che le parve più beffardo che altezzoso che la convinse definitivamente a non fidarsi di lui e a provocarlo in ogni maniera possibile.
“Cosa vuoi?” gli domandò con la sua voce profonda e roca, guardandolo con un sopracciglio alzato. Il biondino si fece largo e la sorpassò, entrando in casa sua “Ehi, ehi, chi ti ha detto che avevi il permesso di entrare?”
“Sono un poliziotto” le fece notare lui, indicandosi senza perdere il suo sorriso “Posso entrare in casa tua, invitato gentilmente come ora, oppure posso farmi dare un mandato e irrompere improvvisamente spaccando tutto” lei chiuse la porta dietro di sé e lo guardò per un lungo momento. Capiva che quel ragazzino era ben piazzato sulla sua posizione, che aveva un ruolo rilevante e che era chiaramente attratto dalle belle ragazze. Si avvicinò a lui suadente, muovendo sensualmente i fianchi. Quando gli fu davanti gli afferrò un ciuffo di barbetta e fece in modo da piazzare il suo sguardo nel lago smeraldo che le apparteneva.
“Ora dimmi, ‘poliziotto’, che cosa vuoi da me?” domandò in un soffio vicino alle labbra di lui. Il ragazzo la guardò un momento come incantato, poi le prese le spalle e la allontanò di qualche centimetro.
“Ehi, non allargarti troppo, potrei decidere di lasciarti già libera” disse “Devo portarti in centrale”
“Credi davvero che mi ci lascerò portare?” gli domandò lei sarcastica. Lui annuì energicamente.
“E’ ovvio. Altrimenti avrò un mandato e…”
“Si, e mi porterai dove vorrai, certamente” Esmeralda sentì la rabbia montare in sé. Perché i poliziotti dovevano sempre ottenere tutto ciò che volevano? E soprattutto, perché doveva sempre essere in mezzo lei? Sapeva che qualcuno ancora una volta aveva parlato e fatto il suo nome, ma chi poteva essere questa volta? Lei non aveva fatto nulla di male. Non si era nemmeno fumata una cannetta negli ultimi giorni. Okay, aveva bevuto, ma non potevano certo condannarla per aver fatto fuori una bottiglia e mezzo di rum in casa. “Cosa vuoi da me?” gli domandò nuovamente, più minacciosa. Il ragazzo la guardò quasi spiazzato dal suo cambiamento d’umore, ma recuperò presto la sua baldanza e si appoggiò una mano sul fianco, alzando le sopracciglia e guardandola come se fosse tutto ovvio.
“Beh, sappiamo entrambi come mai” le disse “Insomma, l'altra sera eri a quella festa e poco dopo una ragazzina è finita in coma. Qualcuno ti ha vista con lei e i suoi… diciamo… amichetti. Ti hanno rintracciata ed ora io sono qui da te.” Tirò su col naso facendo qualche passo in casa, soffermandosi sul poster di una cascata sopra la televisione “Le hai mai viste? No, intendo, le cascate.” Esmeralda lo mandò a quel paese nella maniera meno delicata possibile ed entrò in camera sua sbattendo violentemente la porta. Lo sentì bussare e cercare di aprire ma lei fece schioccare fulminea la chiave nel lucchetto. Si infilò un paio di jeans viola, il suo marchio, una camicia bianca decisamente sbottonata sul petto, in modo da mostrare un bel lembo di pelle abbronzata e un paio di sandali con giusto cinque centimetri di tacco. Si tirò indietro i capelli con una fascia dello stesso colore dei pantaloni e infilò la finestra dal lato opposto all’entrata, mentre il poliziotto ancora sbatteva il pugno sulla porta di legno.
I suoi braccialetti tintinnarono nella leggera brezza Newyorkese.
Esmeralda non aveva mai abitato a Manhattan, fra i ricchi, eppure era andata lì alle superiori. Una volta concluse, però, si era resa conto che nulla di ciò che le avevano detto per tutti quegli anni era vero. ‘Troverai subito lavoro, vedrai, diventerai ricca’. Tutte balle. Era un anno e mezzo che era uscita da lì e in tutto quel tempo non aveva mai avuto un lavoro decente. Era andata a chiedere di lavorare un po’ ovunque. Aveva bisogno di una casa, non poteva certo continuare ad arrotolarsi in leggere coperte nelle stanze vuote di un palazzone del Bronks. Ben presto aveva capito che se aveva una sola garanzia, e non era certo il diploma. Era andata con il proprietario del negozio di dischi, con il caposala di un ristorante, addirittura con un grasso cuoco. Poi aveva lasciato perdere e aveva cominciato a lavorare alla Dream’s House sentendosi colpita dall’ironia della vita: lì aveva fatto le superiori e lì ora lavorava. Garth era un uomo gentile, non le avrebbe mai chiesto di fare quelle cose che gli altri avevano ritenuto più importanti di un diploma. In ogni caso non era cambiata molto, la sua situazione: qualche sera al mese era costretta a concedersi agli uomini più disparati per arrotondare lo stipendio e riuscire a tenere la sua abitazione.
Si infilò in un vicolo fra due palazzi entrando nel quartiere più temuto della città, completamente fuori controllo. I ragazzi le lanciavano occhiate compiaciute, qualcuno le fischiò, ma Esmeralda non li guardò nemmeno e proseguì per la sua strada, decisa ad arrivare dal suo migliore amico, Clopin. Lei e Clopin erano sempre stati insieme. Non era veramente suo fratello, come tutti pensavano, ma avevano gli stessi occhi di smeraldo, gli stessi capelli scuri e la pelle abbronzata di chi ha passato giornate intere per strada. Avevano addirittura lo stesso cognome. E lui era il re del Bronks.
Lo raggiunse in un palazzone abbandonato, in una stanza vuota dove bivaccava solitamente con tutto il suo gruppo. Les Gitans, così si facevano chiamare. Quando entrò, Clopin era sdraiato su un tavolo abbandonato, con una pistola in mano che faceva girare annoiato sulle proprie dita. Esmeralda si appoggiò allo stipite della porta incrociando le braccia, e l’amico si girò sorridendole.
“E così siamo tornate all’ovile?” le domandò in tono di scherno.
“Sono solo di passaggio” rispose lei con la sua voce roca e profonda, avvicinandosi a lui. Vide un movimento dalla parte opposta dello stanzone, e lanciando un’occhiata si rese conto che Clopin non era solo. Con lui c’era il loro ultimo acquisto, un ragazzo che era cresciuto in una famiglia che da sempre lo maltrattava, figliastro di un giudice senza pietà dalla pessima fama fra i ragazzi di New York. Quentin, così si chiamava, era nato con una patologia terribile che gli aveva deformato la spina dorsale, rendendolo gobbo e di bassa statura. Il giudice, convinto che un allenamento militare gli avrebbe giovato, lo aveva costretto a fare esercizi costanti ogni giorno, finchè il povero ragazzo non aveva dovuto essere ricoverato di cuore. Dopodiché era scappato. Non se la sentiva più di sottostare ai maltrattamenti dell’uomo che l’aveva adottato.
Esmeralda lo aveva sempre considerato un ottimo amico. Sotto la sua gobba sempre più evidente, il suo fisico muscoloso, il viso deformato e una chioma di ispidi capelli color carota si nascondeva una mente vivace, attiva, sensibile, pronta a cogliere ogni dettaglio. Ma la cosa che le faceva più male era che Quentin l’amava da anni e lei lo sapeva. Non che non le facesse piacere, sapere che a qualcuno non interessava solamente il suo corpo, ma sapeva che non avrebbe mai potuto ricambiarlo. Certo, era un amico a cui molte volte si era confidata, l’unico che non si era mai approfittato di lei vedendola ubriaca e che invece l’aveva aiutata costantemente. Sapeva che non aveva mai fatto altro che toccarle un po’ i seni mentre dormiva, ma se questo fosse stato un crimine, le prigioni sarebbero state sommerse da uomini allupati. Lei desiderava altro. Aveva sempre sognato di avere un ragazzo, almeno da bambina, di sposarsi e avere una bella famiglia, di camminare tranquillamente e fieramente per le strade di un paesino americano, circondata da sguardi ammirati dei compaesani. Ma a tredici anni aveva capito che la vita era ben diversa.
Scosse la testa distogliendosi dai suoi pensieri e salutò Quentin con affetto, scherzò vedendolo arrossire e poi andò a sedersi accanto a Clopin, chinando le spalle e giungendo le mani.
“Allora, piccola pecorella smarrita, confessa il tuo peccato!” esclamò quest’ultimo. Lei lo guardò sorridendo per un momento.
“E’ arrivato un poliziotto oggi, a casa mia” disse poi “Un biondino che deve aver appena preso la licenza. Non gli do più di ventidue anni. In ogni caso, mi voleva portare in centrale”
“Cos’è successo?” domandò Quentin preoccupato “E’ qualcosa di grave?”
“Dice che una ragazzina minorenne era a una festa l’altra sera e che è finita in coma. Danno la colpa a me” spiegò lei alzando le spalle. Clopin si girò sul tavolo scendendo con un atletico saltello, facendo un cenno al rosso, che gli porse immediatamente un giornale. Il moro l’aprì e mostrò a Esmeralda una notizia di prima pagina, che continuava per altre cinque o sei facciate di giornale. La ragazza prese i fogli e si immerse nella lettura. Scoprì che la festa del sabato sera precedente era stata a casa di una ragazzina chiamata Aurora Reale, la figlia del consigliere italiano Stefano Reale, e che a un certo punto avevano scoperto che una quattordicenne, Blanche Woodson, la figlia dell’impresario mancato un mese prima, era in coma da due giorni interi, era stata stuprata da sette uomini diversi e avevano trovato tracce di LSD nel sangue. E quando Esmeralda lesse la cifra, quasi le cadde il giornale dalle mani “Una quantità simile uccide” commentò “Questa ragazzina è davvero fortunata ad essere ancora in vita” Quentin si strinse nelle braccia.
“Per quanto possa essere ancora in vita, è appesa a un filo. Non chiamerei proprio ‘vita’ l’essere in coma come lei. Dicono che potrebbe non svegliarsi più” commentò tristemente.
“E’ ovvio che non si sveglierà più!” esclamò Clopin “Sarei morto anche io! È solo che quella ragazzina è ricca e ha un culo che va oltre a quello della maggior parte delle persone!”
“Mi chiedo solo che cosa centro io!” esclamò a quel punto la mora “Io non ci sono nemmeno andata a quella festa. O meglio, si, sono stata fuori, ma solo perché Ali mi aveva chiesto di dirgli qual era il suo orario alla Dream’s House per oggi. Aveva chiesto la domenica libera ma poi si è dimenticato di chiedere a che ora doveva entrare oggi. Non so perché avrebbero dovuto sospettare di me. Sai quante ragazze di diciannove anni con i capelli neri ci sono in giro?”
“Sicuramente…” mormorò Clopin in tono teatrale “Ma il triste destino si abbatte sugli innocenti…” Esmeralda lo guardò male “D’accordo, allora, cercheremo di scoprire chi è stato. Fammi fare un paio di telefonate. Tu intanto cerca di stare lontana dai guai! La polizia ha occhi e orecchie ovunque” si raccomandò.
Esmeralda non era una novellina in quelle situazioni. Diverse volte, in vita sua, si era ritrovata a scappare da Clopin cercando di evitare la polizia e lui l’aveva sempre accolta e aveva sempre sistemato tutto. Non era mai stata al centro di cose gravi, in ogni caso. Il massimo che aveva rischiato, era perché l’avevano trovata con un po’ troppa marjuana addosso, ma mai per un omicidio, una sparatoria, o come in quel caso, per aver drogato una ragazzina. Cosa le sarebbe dovuto interessare? Il sabato sera era andata al Bazar e aveva scambiato qualche parola con il vecchio Joe, ma non aveva fatto niente di male. Okay, aveva bevuto qualche Chupito di troppo con Meg, ma poi se n’era tornata a casa a dormire, si ricordava bene. Sapeva dell’esistenza della famiglia Woodson solamente perché quando ancora viveva nell’orfanotrofio, l’avevano spesso portata lì a vedere i giardini dell’azienda come facevano tutte le scuole. Ma poi se n’era dimenticata. Non sapeva nemmeno chi fosse il proprietario, tantomeno che avesse una seconda moglie e non aveva mai sospettato nemmeno lontanamente che avesse una figlia.
Venne distratta dai suoi pensieri dal cellulare che squillava. Il numero era quello di Garth, il proprietario della Dream’s House, dove lavorava facendo i turni di notte. Aprì il vecchio Motorola e schiacciò il pulsante verde di risposta.
“Buona mattina, Garth” lo salutò, aspettandosi una richiesta di andare subito a lavorare.
“Esmeralda, mi vuoi spiegare perché un tizio della polizia, con una barbetta da capra e l’aria di mister America è appena venuto a cercarti qua?!” ringhiò il datore di lavoro dalla cornetta. La ragazza si morse un labbro sospirando. Quel poliziotto da quattro soldi era andato anche al fast food! Cercò di dominare l’istinto, che le suggeriva di recarsi alla Dream’s House, trovare la macchina del poliziotto e bucargli tutte le ruote.
“Non lo so” disse lei “So solamente che crede che abbia dato della droga a una ragazzina” rispose lei facendo dondolare le gambe.
“Che cosa?! Non mi dire che hai fatto una cosa del genere, altrimenti io…” minacciò l’altro.
“Ehi, Garth, ma cosa credi?!” esclamò lei inviperita “Cosa vuoi che me ne importi di drogare una ragazzina? A quella festa ci sono andata solamente per parlare con Ali, si era dimenticato a che ora doveva venire oggi, per questo te l’avevo chiesto sabato pomeriggio!”
“D’accordo, d’accordo” si arrese Garth, ricordando l’episodio “Allora trovami Ali al più presto, perché il ragazzo è introvabile! Ho provato a chiamarlo almeno cinquanta volte, se c’è lui come testimone ti lasceranno subito andare!”
“Come? È sparito Ali?” Esmeralda era stupefatta. D’accordo, conosceva Ali da più o meno una settimana, ma da subito si era resa conto che non era proprio il ragazzo che spariva all’improvviso senza avvisare. Ali era uno che aveva voglia di fare, di mostrare il suo valore, era pronto a passare al lavoro anche quattro ore in più di straordinari senza battere ciglio. Era il tuttofare del locale, e anche se una volta, per scherzare, Esmeralda gli aveva chiesto di pulire il bagno, lui si era armato di strofinaccio e sgrassante e si era dato da fare. Non poteva credere che fosse sparito.
“Certo che è sparito, non risponde nemmeno al telefono ed è in ritardo di due ore e mezza!” abbaiò Garth. Esmeralda boccheggiò.
“Ci sentiamo dopo” disse poi, chiudendo la conversazione. Si portò le ginocchia al petto pensando a cosa avrebbe potuto fare per uscire da quella situazione, rendendosi conto che in realtà non poteva fare niente. Pensò di andare a prendere i suoi pochi soldi e scappare da qualche parte senza farsi notare, idea che cadde immediatamente nel vuoto quando si rese conto che se fosse scappata sarebbe sembrata una colpevole e non solo: sarebbero andati a cercare tutti i suoi amici. E pensare a Clopin dietro le sbarre per possedimento illegale di armi e furti, Meg per prostituzione e droga e Quentin abbandonato a se stesso, alla mercé del suo patrigno giudice… no, non poteva proprio rischiare. Doveva andare alla polizia, far cercare Ali da Clopin e aspettare. Lei era sicura della sua innocenza e prima o poi le prove sarebbero saltate fuori. C’era gente che la conosceva a quella festa. Qualcuno doveva aver pur notato che non c’era. E poi, non era stata invitata. Saltò giù dal tavolo atleticamente e scosse un braccio di Clopin, che era ancora al telefono. Lui chiuse subito la telefonata e la guardò attento.
“Devo andare alla polizia” disse poi “Io sono pulita, Clopin, devi solo riuscire a trovare Meg e Ali. Ho passato la serata con loro, perciò possono testimoniare per mio conto. Se stessi nascosta la polizia vi troverebbe e non voglio che vi succeda niente di male” il ragazzo deglutì e Esmeralda lo vide preoccupato veramente per la prima volta in vita sua. Sospirò profondamente e uscì dal palazzone, sotto lo sguardo ammirato e preoccupato di Quentin.


Quando arrivò alla centrale di polizia, il ragazzo che era arrivato a casa sua la guardò ammirato e colpito. La ragazza capì subito che era l’ultima mossa che si sarebbe aspettato da parte sua. La guardò come inebetito per qualche momento, poi le fece un cenno della testa e allargò un bracciò con un sorriso, come a farle capire che non era ostile. La ragazza lo guardò storcendo il naso.
“Perché non mi metti le manette?” domandò stupefatta.
“Non ce n’è ragione” disse lui “Penso che una persona che si consegna spontaneamente alla polizia non abbia bisogno di manette, o sbaglio?”. Il ragazzo sembrava di buon umore e aprì una porta sul fondo dell’ufficio mentre tutti gli altri suoi colleghi lo guardavano stupefatti. Dietro la porta c’era un ufficio piuttosto grande, sebbene decisamente spoglio e triste. Le mura erano grigie e una sola, piccola finestra illuminava l’ambiente. C’era una piccola cella con un letto e una sedia davanti alla scrivania di legno chiaro, una sedia girevole, un paio di armadietti di ferro e un cumulo di cartacce in bilico l’una sull’altra. “Eccoci arrivati nel mio meraviglioso ed elegante ufficio” commentò il ragazzo mettendosi i pugni sui fianchi, come se stesse descrivendo uno yacht. Esmeralda lo superò e aspettò che gli aprisse la porta della gabbia. “Mm, forse ci sarebbe bisogno di qualche ristrutturatina” commentò poi il ragazzo “Insomma, sembra quasi una camera mortuaria” la ragazza tossicchiò e lui si affrettò ad aprire la porta. Le prese tutto ciò che aveva nelle tasche (il cellulare e qualche dollaro), dopodiché si sedette con la sedia girevole davanti a lei.
“Allora, per quanto tempo dovrò restare qui?” domandò lei.
“Non saprei. Dipende quando avremo trovato prove su di te” rispose il poliziotto.
“Allora non ne troverete. Comunque. Perché hai un ufficio tutto tuo?” chiese ancora. Il ragazzo sembrò preso alla sprovvista e si tirò un ceffone alla testa da solo, come se si fosse appena ricordato qualcosa di importante.
“Che maleducato!” esclamò “Non mi sono nemmeno presentato. Comunque, io mi chiamo Febo, in realtà non sono di qua. Vengo dal Massachussets. Comunque, sono il detective poliziesco più bravo della città, almeno così dicono, perciò sono stato assunto dalla famiglia Woodson per sapere che cosa ha mandato in coma la loro figlioletta quattordicenne. Ho ventisei anni e non ho mai lavorato in strada” la ragazza lo fissò stupita dalle sue parole. Un detective? E si comportava come un adolescente in piena crisi ormonale? “E, in caso ti interessasse, amo i cavalli e le torte di mirtilli”
“Molto rustico” commentò lei. Febo rise, poi prese dalla scrivania un taccuino e una penna, si schiarì la voce e la guardò profondamente per qualche secondo. Poi parlò.
“Bene, devo farti alcune domande di rito.” Disse poi “Allora, per prima cosa… dov’eri sabato sera dalle otto all’una?”
“Ero con la mia amica Meg in un bar, l'Hell’s Fire. Siamo arrivate lì alle nove, dopo mangiato, abbiamo giocato a biliardo e bevuto birra, poi ci siamo messe al bancone e abbiamo ordinato dei super alcolici. Ce ne siamo andate da lì alle undici e mezza.”
“Okay…” disse Febo mentre scribacchiava qualcosa sul taccuino “E dopo, dove sei andata?”
“Sono andata davanti alla casa di quella ragazza che faceva la festa, la figlia del consigliere italiano” rispose quasi annoiata “Un mio collega di lavoro, Ali, era lì con la sua ragazza e mi aveva chiesto di andare a dirgli gli orari di lavoro alla Dream’s House. Lavoriamo lì tutti e due”
“D’accordo” confermò il detective annuendo “E dopo ancora?”
“Dopo io e Meg siamo andate al Bazar, lei doveva lavorare e io sono andata con un uomo. Uno dei bodyguard di Ade. È il capo di Meg” disse ancora, sedendosi sul letto. Febo alzò lo sguardò.
“E’ il tuo ragazzo?”
“No, ci sono andata perché dovevo arrotondare lo stipendio, e quello ha soldi” rispose. Il ragazzo la guardò profondamente, e Esmeralda sentì per la prima volta nella sua vita una punta di dubbio. Aveva sempre pensato che fosse giusto così, che anche se era qualcosa di illegale, lo facevano in tante donne e perché avrebbe dovuto essere umiliante? L’importante era non farlo sapere a molte persone. Ma sotto lo sguardo attento del detective giovane e biondo, che dimostrava meno anni di quanti ne avesse in realtà, sentì veramente un senso di inferiorità addosso, come se avesse sbagliato tutto da sempre. Non si sentiva più convinta di ciò che faceva ma solo… davvero una merda. “Okay, lo so che non è una cosa giusta” disse poi, cercando di supplire la sensazione che era derivata da quel pensiero “Ma sono maggiorenne e posso fare anche queste cose, d’accordo? Non è un’attività vera e propria. È stata una mia scelta.” Il ragazzo chinò la testa e scarabocchiò ancora sul suo block notes.
“Ora dimmi” disse con voce meno allegra e insolente ma più amareggiata “Dove posso trovare queste persone che possono testimoniare la tua serata?”
“Non lo so. Meg sta con Ade, ma non so dove abita.” Rispose sinceramente, riuscendo a guardare Febo negli occhi per qualche secondo “Dovresti trovare lui, oppure la trovi al Bazar, praticamente tutte le sere. Sta là sotto a fare la cubista. Balla burlesque finché qualcuno non chiede di averla, va a chiedere a Ade e lui decide il da farsi. Ma non è colpa sua. Lasciala stare. È costretta” Febo annuì preso, sempre con gli occhi sulla carta “E Ali è sparito, così mi ha detto Garth, il proprietario della Dream’s House. Comunque, la sua ragazza la puoi trovare facilmente. Si chiama Jasmine, è la figlia del Sultano, il proprietario della Reggia del Sultano, il ristorante arabo più famoso della zona. Lui non fa altro che parlare di lei.”
“D’accordo, Esmeralda” disse alla fine, alzandosi e sospirando “Vado a fare una visitina ai tuoi amici. Tu resta qua.” Prese la giacca e la pistola, infilandola nella cintura, le chiavi della macchina e infilò il taccuino nella tasca della giacca “Ah” disse uscendo dalla porta “Non cercare di scappare, perché se riuscirai a sbloccare il lucchetto della porta, scatterà una sirena che attirerà qui tutte le forze armate Newyorkesi. E anche se non lo facesse, l’unico modo di uscire è dalla porta di servizio. E per arrivarci, dovresti passare in mezzo ai miei colleghi”. Chiuse la porta, e Esmeralda si lasciò cadere sul letto, col viso fra le mani. Che avesse fatto la scelta sbagliata?


Quando Febo tornò, sembrava nervoso e insoddisfatto. Esmeralda si stava annoiando a morte e quasi le risultò piacevole l’entrata del ragazzo dopo due ore. Inoltre, avrebbe tanto voluto una sigaretta e uno shottino. Il ragazzo lasciò cadere giacca, pistola, taccuino e penna pesantemente sul tavolo, poi si sedette e si prese la fronte con una mano.
“C’è qualcosa che non va?” domandò Esmeralda. Febo la guardò un momento profondamente, prese la sedia e la riportò davanti a lei, intrecciando le mani. Sospirò qualche volta prima di parlare.
“La situazione va complicandosi” ammise infine “Sono stato alla Dream’s House e ho parlato con un’altra ragazzina che lavora lì, una certa Cindy Tremaine che era alla festa, le ho chiesto di testimoniare anche al processo per te. Mi ha promesso che verrà in centrale con il suo ragazzo, anche lui era alla festa. Sembrava piuttosto agitata dalla situazione, credo che ti aiuterà molto” Esmeralda sentì un improvviso moto di gratitudine nei confronti della ragazza che l’aveva sempre coperta, in ogni occasione. “Ali non è ricomparso, e quando sono arrivato alla Reggia del Sultano è stato come essere catapultato in un uragano. Anche la figlia del proprietario è sparita, quella Jasmine. Non la trovano da giorni e la centrale gli ha detto che non possono denunciare la scomparsa prima di ventiquattro ore. Non erano ancora passate, ma ci sono abbastanza elementi da farmi prendere carico del caso, mi sembra annesso.” Esmeralda rimase a bocca aperta. Che fosse una fuga d’amore? Ali aveva detto che il padre di lei non era d’accordo con la loro unione, in effetti… “Sono andato quindi a chiedere della ragazzina ad Aurora Reale, scoprendo che anche lei è finita in coma in seguito a una botta in testa da parte di un vaso caduto. Era la sua migliore amica, e non si può chiederle niente. Sono andato dall’altra loro amica, Ariel Fiskehandler ma è praticamente in stato di shock dopo aver visto la sua migliore amica finire in coma. I media la stanno tartassando perché è lei che ha cercato di aiutare la Woodson quando l’hanno trovata già in coma, lei e il suo ragazzo, che non ha visto niente se non dopo, quando hanno cercato di rianimarla. La ragazzina però dice di aver visto una ragazza con lunghi capelli neri, una strana polverina e pillole strane, oltre alla ragazzina” Esmeralda sospirò. Maledizione, qualcuno con i capelli neri! E Ali e la sua ragazza erano introvabili!
“Quindi?” domandò.
“Quindi la situazione è molto più intricata di quanto potrebbe sembrare. In primo luogo, dobbiamo riuscire a trovare Ali e Jasmine, ma non si sa dove siano finiti, Ariel non ne sa niente, l’ultima volta che li ha visti stavano cercando di entrare in casa ad aiutarla con la ragazzina, ma non si parlavano da circa una settimana per problemi sentimentali fra ragazzine” disse sospirando “Per la tua amica Meg dovrò aspettare questa sera. Siamo davanti a un caso davvero complicato e un uccellino mi ha detto che tu centri con un certo Quentin, un gobbo?” Esmeralda sbiancò.
“Si, ma…” balbettò.
“Bene, il suo patrigno non ha dubbi sulla tua colpevolezza e sai chi è quest’uomo?” domandò, una luce preoccupata negli occhi. Esmeralda annuì deglutendo.
“E’ Frollo. Il giudice più influente della città” mormorò. Febo annuì e Esmeralda si sentì come un pesce fuor d’acqua. Si appoggiò contro il muro cercando un sostegno, se fosse stata in piedi sarebbe già caduta a terra dalle gambe molli. Già, Frollo l’aveva sempre odiata, sin da quando l’aveva vista parlare con Quentin. Quell’uomo aveva provato più di una volta a portarsela a letto, ma lei si era sempre rifiutata, schernendolo. Certo, a volte faceva queste cose, ma solo con persone che già conosceva o clienti fissi, non prendeva nessuno di nuovo da quando aveva trovato lavoro alla Dream’s House e da quando avevano trovato l’Aids a una ragazza che conosceva.
“Io personalmente credo che tu sia innocente” disse Febo alzandosi in piedi e stiracchiandosi, e la ragazza lo guardò stupita. Non poteva credere che un detective fosse dalla sua parte. Sospettò una presa in giro, ma quando incrociò gli occhi di lui si ricredette. “Credo solamente che tu abbia cercato di fare del tuo meglio per salvarti la pelle, negli ultimi tempi. Sono convinto fermamente che tu sia solo un’arrogante diciannovenne confusa e delusa dalla vita, ma soprattutto senza rispetto per se stessa. Chissà chi ti ha portata a essere così. Ma la verità è che tu non centri niente. Non saresti mai stata così stupida da fare un gesto così plateale per poi consegnarti alla polizia. Comunque, sto andando a prendere da mangiare. Preferisci hamburger o cheeseburger?”
Quando uscì dalla stanza, Esmeralda si accovacciò sul letto duro e scomodo. Le parole di Febo erano state dure, perentorie, veritiere. Aveva pensato di conoscersi fino a quel momento, ma quando si era sentita tante critiche addosso, lei che non ne aveva mai ricevute, si era sentita davvero uno schifo. Era già la seconda volta nel giro di poche ore che il ragazzo la faceva sentire peggio di come si fosse mai sentita, senza eccezioni. L’aveva colpita e affondata, e se aveva pensato fino a quel momento che fosse solamente un ragazzo arrogante come tanti, un buono a nulla, un antipatico sbruffone, ora cominciava a rivalutarlo. Febo aveva tirato fuori dal suo cuore le verità più nascoste. L’aveva capita più di quanto lo avessero fatto gli altri, perché ferendola in quel modo aveva tirato fuori la vera essenza della ragazza. Sapeva che era la verità. Nessuno, mai, aveva osato dire certe cose di lei. ‘Arrogante diciannovenne confusa e delusa dalla vita’. ‘Senza rispetto per te stessa’. Era come averle aperto il cuore. In realtà si sentiva così. Ma proprio per questo, in quel momento, si sentì legata a lui in un modo così strano da poter essere considerato intimo. E sentì che la sua presenza non gli dava fastidio. La sua franchezza le piaceva. E che voleva passare più tempo in sua compagnia.


Quel pomeriggio Esmeralda, colta dalla noia, si addormentò sul lettino dal materasso sottile, mentre Febo stava sbrigando alcune pratiche sul tavolo davanti a lei. Fu risvegliata da battiti alla porta e si tirò su di botto, mentre il detective la guardava colpito dalla sua prontezza di riflessi. Aprì la porta e nella stanza entrò la persona che la ragazza sentì di odiare di più al mondo: Frollo. Come ricordava, era alto e molto magro, il viso scavato e gli occhi sporgenti, carichi di astio. Le labbra erano sottili e venivano spesso bagnate dal passaggio della lingua, cosa che Esmeralda non sopportava. Aveva la tunica da giudice ma i capelli grigi erano scoperti, la parrucca sotto il braccio con una valigetta. Le lanciò un’occhiata compiaciuta nel vederla dietro le sbarre. Le scappò una smorfia di disgusto, ma non disse nulla. ‘Arrogante diciannovenne’, si ricordò. Era una delle cose che le piaceva di meno del suo carattere.
“Buongiorno, detective Sungood” salutò Frollo, stringendo educatamente la mano a Febo “Che piacere incontrarla… dovrei parlare in privato con lei e con la signorina Tzigane.” Il detective annuì e uscì dalla stanza discretamente, lanciando alla ragazza un cenno di saluto. Lei gli sorrise, poi si girò e si preparò ad affrontare l’uomo che aveva sempre voluto metterle i bastoni fra le ruote.
Non era una novità incontrarlo con quel modo di fare da grand’uomo, da chi sa di avere qualsiasi cosa sotto controllo. Febo le dava dell’arrogante, ma non aveva ancora visto in azione il giudice che la superava di un bel pezzo. L’uomo si avvicinò a lei lentamente, senza scomporsi, e quando le fu davanti alzò la testa con baldanza, guardandola dall’alto in basso. Esmeralda, dal canto suo, restò in piedi, i pugni chiusi intorno alle sbarre per cercare di calmarsi grazie al contatto del ferro freddo, senza spostarsi di un millimetro.
“Vedo che la situazione è andata peggiorando” commentò Frollo mellifluo “Questa volta l’hai combinata proprio grossa” la ragazza rimase in silenzio, ben cosciente di quanto le parole potessero avere effetto su una causa in cui si era in svantaggio “Drogare una ragazzina così piccola, così giovane, così fragile, e farla violentare dai tuoi amichetti…”
“Io sono innocente” disse Esmeralda “Non ho fatto niente e per quella sera ho due alibi. Non ce la farai a mettermi nel sacco nemmeno questa volta, Frollo. Come le altre volte. E capirai che in realtà chi sbaglia di continuo non sono io”
“Lo vedremo” commentò lui con voce bassa, guardandola penetrantemente “Al momento dietro le sbarre chi c’è?” allungò una mano e la infilò senza alcun moto di imbarazzo nella camicetta della ragazza, stringendole un seno. Lei non si mosse. “Mi hai portato via il mio figliastro, fottuta troia, e mi pare il momento di pagare per le tue stronzate! Se solo tu ti mostrassi… ragionevole…” mormorò fissandole il corpo visibile sotto la stoffa leggera “Potrei persino decidere di aiutarti” Esmeralda radunò impassibile un po’ di saliva in bocca, poi gli sputò in viso. Frollo urlò portandosi una mano all’occhio colpito, la porta si aprì rumorosamente e Febo entrò con la pistola in pugno. Sbattè qualche volta le ciglia prima di capire l’accaduto, notando Frollo che si puliva il volto con aria sconfitta e un lembo della camicia della ragazza più giù, a mostrare il reggiseno. Scoppiò a ridere.
“Che donna!” esclamò con ammirazione. Il giudice lo guardò malissimo per un momento, poi si ricompose e si avvicinò a lui, cominciando a confabulare a voce troppo bassa perché Esmeralda potesse capire qualcosa di ciò che dicevano. Li osservò con attenzione, cercando di afferrare anche solo un concetto, ma vide solamente il viso del detective che da rilassato si contraeva sempre più, fino a diventare una maschera di indignazione più palese a ogni parola del giudice. Infine sbottò:
“No. Non sono il tipo di persona che cade in questo genere di trappole. Ora, per cortesia, se ne vada. Non la voglio più vedere fino al giorno del processo”. Il tono di voce fu così perentorio che anche il giudice Frollo non potè fare niente per evitare l’ordine, così uscì dalla porta, lanciando un’ultima occhiata minacciosa e iraconda a Esmeralda.
“Vi ha incantato con le sue stregonerie, Sungood. Voi mi deludete” disse infine. Febo gli chiuse la porta in faccia. Poi si girò verso la ragazza e le si avvicinò sospirando. La guardò negli occhi per un lungo momento. Esmeralda era ammirata nei suoi confronti sempre di più ogni ora che passava. Si rese conto di non aver mai provato così tanta ammirazione nei confronti di un uomo (un poliziotto per di più) e gli concesse un sorriso.
“Stai bene?” domandò lui preoccupato “Voglio dire, non vorrei mai che…”
“Tranquillo. Sto bene” rispose lei con voce fiera. Febo la guardò ancora per qualche momento quasi in trance, poi tornò alla scrivania a scrivere le sue carte e la ragazza, sorridendo fra sé e sé si risedette sul letto.


Quando si svegliò nuovamente erano già le tre e mezzo del mattino. Febo stava rientrando in centrale e aveva un viso sconvolto. Non si era nemmeno accorta che fosse uscito. Si alzò con aria assonnata e lui la vide quando accese la lampadina da tavolo. La guardò un momento.
“Scusa, non volevo svegliarti” le disse. Lei scosse la testa, mentre il ragazzo tirava giù un letto apribile da un lato della stanza, prendeva un cuscino e una coperta da un cassetto e si accomodava. “Non badare al mio modo di dormire. Ormai praticamente vivo qua” si scusò. La ragazzo scosse ancora la testa, poi entrambi abbassarono la testa sul cuscino e si addormentarono.


Esmeralda schizzò in aria quando udì un colpo di pistola rimbalzare contro il muro accanto a lei e si ritrasse contro il muro, al buio. Non vedeva niente e nessuno si era curato di accendere la luce. Si guardò intorno confusa, cercando una spiegazione. Nell’aria non c’era nemmeno un suono. Era convinta di non aver sognato, e una sensazione di pericolo imminente prese possesso del suo cuore. Cercò di calmare il respiro e si tenne ferma dov’era, cercando di scacciare poco a poco quella fastidiosa sensazione. Ma all’improvviso, un ‘tac’ e la luce fu accesa.
Accanto alla porta, con una mano sull’interruttore e l’altra nella pistola, c’era Febo, un braccio insanguinato e una ferita visibile a un braccio, il volto contratto in una smorfia di dolore. Davanti a lui, fin troppo vicino a Esmeralda, c’era un'altra persona, con un passamontagna nero come i vestiti, con un’altra pistola in mano. La ragazza pensò che avrebbe potuto essere Clopin, ma era troppo muscoloso. Spostò preoccupata lo sguardo da uno all’altro, sentendosi in gabbia. Se durante la sparatoria uno dei due avesse sbagliato un colpo… la porta si spalancò e irruppero nella stanza altri tre poliziotti, le pistole davanti a loro contro la figura coperta, che alzò l’arma puntandola verso Esmeralda, che sentì il cuore battere all’impazzata.
“Ehi!” esclamò Febo “Ehi, non ci provare nemmeno!” fece il tempo a urlare, prima che lo sconosciuto schiacciasse il grilletto.
Esmeralda non conosceva gli effetti di un proiettile conficcato nel corpo e non aveva la minima intenzione di scoprirlo, davanti agli occhi in un breve momento rivide se stessa da bambina, in mezzo a tanti altri nell’orfanotrofio dove nessuno era mai andato ad adottarla. Si vide nella prestigiosa High School di Manhattan, dov’era stata mandata come ultima volontà dei genitori di cui non aveva mai saputo nulla. Si rivide per strada, una corta minigonna e un top che lasciava scoperta la pancia, alle superiori. Si rivide con gli uomini che l’avevano tanto agognata. Ricordò improvvisamente il suo primo ragazzo, colui che l’aveva resa donna, un certo Donald poi sparito nel nulla della città. E poi rivide davanti a sé Clopin, Quentin, Meg e infine Febo. Fece appena in tempo a pensare che non le sembrava proprio il caso di morire in quella situazione, in quel momento, accusata ingiustamente di crimini di cui non aveva saputo nulla fino alla mattina prima.
Si mosse fulminea e in un secondo si ritrovò schiacciata a terra, i lunghi capelli che puzzavano di bruciato e un’esplosione proprio dietro di lei. Rimase senza fiato e fece fatica a inspirare aria sufficiente da far scendere nei polmoni. Sentiva quasi il pavimento tremare dal batticuore, si sentiva stordita dalla paura e dal terrore. Qualche altro sparo, urla, e infine qualcuno che apriva la porta della prigione, subito dopo un corpo caldo che la stringeva a sé, mani grandi che le carezzavano delicatamente i capelli. Esmeralda non aveva mai perso la bussola dei propri sentimenti, ma in quel momento si sentiva confusa come non mai.
“E’ tutto a posto” le mormorò in un orecchio la voce rassicurante di Febo “Non è successo niente, stai tranquilla”.
“Ehi, capo, dobbiamo chiamare l’ospedale” disse qualcuno vicino alla porta.
“Cosa state aspettando?” esclamò il detective, alzando il viso di Esmeralda e guardandola un momento negli occhi. La ragazza lesse paura e sollievo, poi lo sentì accasciarsi fra le sue braccia.
“Febo!” esclamò, accorgendosi che dal braccio stava uscendo una quantità di sangue che non aveva mai visto prima. Cercò di girarlo supino, e quando vide il braccio senza un lembo di pelle mancò poco che vomitasse. Si morse un labbro mentre qualcun altro accorreva in suo aiuto, si tolse la camicetta senza pensarci due volte e la tamponò sulla ferita del ragazzo. Il poliziotto accanto a lei la guardò fra l’ammirato e il volgare. “Su, cosa stai facendo? Sei un poliziotto, dovresti sapere che bisogna bloccare l’emorragia!” l’altro, un ragazzo che sembrava più tonto che intelligente, annuì e strinse la stoffa intorno al braccio di lui. Esmeralda sentì le sirene fuori dalla polizia, quelle dell’ambulanza, poco dopo uomini che caricavano il detective su una barella e lo portavano via. I colleghi di Febo parlavano concitati, poi uno di loro le fece cenno di uscire con la testa. La ragazza titubante uscì dalla prigione. “Cosa…?” domandò.
“Vai. Sei libera per il momento. Non sei proprio accusata. Torna a casa, ti manderemo notizie al più presto” le disse un ragazzo. Esmeralda annuì e chiese una maglia, il poliziotto le diede una t shirt di almeno due taglie più grande della sua, riprese i suoi soldi e il cellulare e uscì nell’aria fresca della notte Newyorkese.
Arrivò a casa solo tre quarti d’ora dopo e la prima cosa che fece fu di afferrare la bottiglia di vodka mezza piena di fianco al divano e buttar giù tutto il rimanente in un sorso solo. Chiamò Clopin e gli disse che era uscita, che gli avrebbe raccontato un’altra volta, di non preoccuparsi ma che dovevano trovare Ali e forse anche Meg. Quando chiuse la telefonata, prese un Tennessee Wisky e ne ingollò due grandi sorsi. Poi ripensò a Febo e la preoccupazione prese il sopravvento. Si addormentò stupita di se stessa, della lacrima che le aveva appena rigato il viso.


Il giorno seguente, quando si svegliò sul tardi, il primo pensiero di Esmeralda fu che aveva saltato il lavoro. Credeva che Garth avrebbe capito, comunque, e riformando i pensieri ancora annebbiati del giorno precedente si ricordò tutto ciò che era successo. Pensò a lungo a Febo, distesa sul divano, la mano sul collo della bottiglia di liquore, indecisa fra il bere oppure no. Guardò il soffitto bianco e continuò a pensare a tutto ciò che l’aveva stupita di quello strano detective che dimostrava meno anni di quanti ne avesse realmente. Le aveva subito creduto e aveva fatto di tutto per scagionarla. Ma ora, cosa avrebbe potuto fare? Se lo immaginava disteso su un lettino di ospedale, gli occhi chiusi e un braccio fasciato… capì che non poteva fare proprio niente per aiutarla. E chi era poi quell’uomo che aveva irrotto nella stazione di polizia in piena notte, non visto e soprattutto con un passamontagna, che aveva cercato di spararle? Poteva essere qualcuno che centrava con Frollo, che voleva liberarsi di lei? Era sicura che fosse così. Si rigirò diverse volte sui cuscini, senza decidere cosa fare, poi si alzò, si chiuse a chiave in bagno e si immerse nella vasca fresca.
Doveva fare qualcosa, questo era chiaro. Doveva dimostrare al mondo di non essere ciò che aveva dimostrato fino a quel momento, perché non si sentiva più un’ ‘arrogante diciannovenne’. No, si sentiva totalmente cambiata in quell’unico giorno, ma la sua determinazione naturale non se n’era andata. Quando finì il bagno era sicura di se stessa. Non poteva rischiare di mettere Quentin e Clopin nella faccenda, così decise di lavorare da sola. Si infilò una minigonna viola, un paio di sandali e una maglietta verde e viola, a righe. Si legò i capelli con un nastro per tenerli indietro e si guardò un momento allo specchio. Doveva uscire da quella situazione. Doveva tenere lontani dai guai i suoi amici. Doveva scoprire chi aveva cercato di ammazzarla. E, soprattutto, doveva assolutamente trovare le prove prima del processo che Frollo avrebbe fatto contro di lei.
Si avviò alla porta stringendo i pugni e quando l’aprì si trovò davanti due ragazze che sembravano appena più piccole di lei, una con i capelli castani, un’aria buffa e un pugno alzato, evidentemente stava per battere alla porta, l’altra era leggermente più alta, dai lunghi capelli castani e un’aria vispa e intelligente. Si guardarono per qualche secondo.
“Ehm…” cominciò la ragazzina col pugno alzato. Esmeralda notò che aveva due stupendi occhi blu. Incrociò le braccia. Cosa volevano queste ragazzine adesso? Proprio ora che era decisa a fare un sacco di cose, queste la ostacolavano.
“Cosa volete?” domandò duramente.
“Vorremmo chiederti alcune cose” si affrettò a rispondere la ragazza dai capelli lunghi, che le porse una mano “Io sono Belle e lei è Jane. Siamo due studentesse dell’High School di Manhattan, siamo state incaricate dalla direttrice di scrivere un articolo sulla vicenda. Abbiamo saputo che tu centri qualcosa” Esmeralda non le prese la mano e lei ben presto la lasciò ricadere a fianco del corpo, un po’ delusa.
“Non centro niente” disse decisa.
“Invece si” la contraddisse Jane “Sappiamo che la polizia è venuta a cercarti. Come mai ti hanno fatto uscire?”
“E perché volete sapere queste cose? Non me ne frega niente di dire alla direttrice quello che mi è successo, non sono fatti suoi, d’accordo? Ora, tornate pure a giocare alle piccole detective, ma lasciatemi stare. Ho cose ben più importanti da fare” rispose con decisione, facendo un passo avanti e chiudendo sonoramente la porta alle sue spalle.
“Eravamo anche noi alla festa” disse Belle, inseguendola per il marciapiedi “Non abbiamo visto cos’è successo, ma ho parlato con una persona che è certa della tua innocenza!” la mora la guardò un momento, notando il suo rossore in volto e sogghignando di conseguenza.
“Sarebbe?”
“Non… non te lo posso dire, sono informazioni riservate” balbettò, perdendo tutta la sua aria intelligente e un po’ saccente. Tornò una ragazzina alle prime armi, dolcemente innamorata di qualcuno.
“Okay, allora facciamo così” decise la ragazza fermandosi, sapendo bene che se qualcuno sapeva qualcosa di lei avrebbe potuto essere un gran problema per la sua fedina penale e soprattutto per il processo. Qualsiasi informazione, nelle mani sbagliate, poteva diventare una tragedia. Lei lo sapeva bene. “Facciamo così” ripetè “Io vi dico quello che volete sapere, come ho passato la serata eccetera, ma voi mi dite chi vi ha parlato di me.”
“D’accordo!” esclamò Jane senza esitazione. Belle sembrava meno convinta, e Esmeralda la guardò con un sopracciglio inarcato e le braccia incrociate. “Dai, Belle! Cosa ti costa parlare di…”
“Va bene” disse Belle cercando di zittire l’amica “Adam. Adam Castle. Lo conosci?” Per Esmeralda fu come un pugno nel bel mezzo dello stomaco.
I suoi pensieri corsero indietro come fotogrammi impazziti e si ritrovò in un corridoio della scuola, nascosta dietro un armadietto per guardare ancora una volta quel bellissimo ragazzo famoso in tutta la scuola, quello dietro cui le ragazze svenivano. L’aveva visto molte volte, nascosta, poi aveva avuto il coraggio di parlargli e lui era stato garbatamente distaccato. ‘Ci conosciamo?’ le aveva chiesto con un sorriso, mentre lei provava a farlo cadere nella sua rete. Per niente attratto. Quante volte aveva cercato di stuzzicarlo, di farlo innamorare di lei, ma quando si era resa conto che era una battaglia persa se l’era presa con se stessa, con lui, con il mondo. Non era mai riuscita nemmeno a fargli venire nemmeno un po’ di voglia di lei, nemmeno quella volta che era ubriaco e che lei se l’era portato dietro al locale, nel buio, in mezzo alle macchine parcheggiate. Niente. Adam era rimasto inerte, guardando il soffitto della macchina, il cielo, finchè non le aveva sfiorato i capelli. ‘Proprio no. Le more non mi sono mai piaciute’, aveva detto con decisione, per poi alzarsi, chiudersi la cintura dei jeans e tornare al locale traballando, dai suoi amici. Era in quel momento che si era resa conto che lui era diverso da tutti gli altri del suo gruppo, quelli che facevano a gara per conquistarla. Soprattutto quel cretino, Gaston. Quel maledetto violento che si vantava di aver preso le donne con la forza. Il nipote di Frollo. “Esmeralda…?” la ragazza tornò al presente, sbattendo le palpebre varie volte. Si accorse che era Belle che l’aveva chiamata, quella che conosceva Adam, che se n’era andato anni prima e che lei non aveva più rivisto. Non poteva credere che fosse tornato. La cotta ormai era passata, d’accordo, ma rievocarla faceva comunque male.
“Si” disse alzando le spalle, cercando di celare l’esitazione “Si, lo conoscevo di vista. Gli ho parlato un paio di volte.” La ragazzina sembrava sollevata. Esmeralda non riusciva a capacitarsi di come Adam potesse affermare con tanta sicurezza che lei fosse innocente.
“Bene, adesso tocca a te” incalzò Jane, senza aspettare altro.
“D’accordo” sospirò la mora, per poi incamminarsi verso la metro. Doveva andare alla Dream’s House, prima di tutto, doveva sapere dov’era andato Ali e cercare di cogliere anche un solo piccolo indizio su di lui. “Sabato sera ero con una mia amica, si chiama Meg e ha frequentato anche lei l’High School. Eravamo molto amiche già da tempo e lo siamo rimaste. Siamo andate a bere a un pub, si chiama Hell’s Fire, anche se non mi aspetto che due ragazzine come voi possano conoscerlo” scoccò uno sguardo alle due, ma Jane sembrava impassibile e Belle non fece trapelare nulla dalla sua espressione. “Poi l’ho accompagnata al Bazar dove lavora e io sono andata alla festa per parlare con Ali, è uno che lavora alla Dream’s House, era lì con la sua ragazza Jasmine. Gli ho detto a che ora doveva presentarsi al lavoro e sono tornata a casa”
“D’accordo” annuì Jane “La polizia ti ha presa per questo?”
“Non mi ricordo di avervi detto che avrei raccontato i miei fatti personali” sbottò Esmeralda inviperita. Svoltò un angolo, ma le due le rimasero alle calcagna. Sembravano ben decise a scoprire la verità. “Mi volete lasciar stare?”
“Vogliamo andare dal poliziotto che ti ha presa, dobbiamo parlare anche con lui” rispose distrattamente Belle “Dovresti dirci come si chiama”
“Non vi importa, d’accordo?” la mora cominciò a scendere velocemente le scale per arrivare alla metro, ma Jane le fu subito davanti. La guardò per un lungo momento prima di aprire bocca.
“A me si.” Le disse, cogliendola di sorpresa “So capire quando c’è qualcosa sotto, ho fiuto, e mi sembra che non ci sia niente di normale in questa faccenda. Per prima cosa, il giudice Frollo ti conosce? E perché?”
“Non vi importa” insistette Esmeralda.
“Ti abbiamo detto di si invece” riprese Belle con più dolcezza “Ci abbiamo pensato insieme, e non mi sembra così casuale che tu non abbia fatto niente ma che sei stata lo stesso accusata, una ragazzina è andata in coma e la colpa è data proprio a te fra mille. Non mi sembra nemmeno normale che ti abbiano fatta uscire senza processo, comunque, che un’altra ragazzina sia scomparsa e la sua amica in coma. E vorremmo anche sapere chi sono quei sette che hanno… beh… la ragazzina.”
“Noi pensiamo che tu sia innocente” continuò Jane piena di determinazione “Ecco perché vorremmo aiutarti”
“Voi non potete aiutarmi” sibilò Esmeralda superandole e correndo nella metropolitana. Dietro di sé sentì i richiami delle altre due. Ma le ignorò.


Uscì dalla Dream’s House delusa. Garth non sapeva nulla di Ali e di dove fosse finito, non aveva idea di chi potesse sapere e non poteva testimoniare niente per conto suo: quella sera non l’aveva vista. Guardandosi intorno, seduta su una panchina, si rese conto che odiava profondamente New York e avrebbe voluto andarsene per non tornare mai più. Non si ricordava nemmeno più perché invece di prendersi una casa squallida come quella in cui viveva non aveva preso invece un biglietto del treno o dell’aereo. Non era mai stata oltre i confini della città e odiava questo fatto. Soprattutto in quel preciso momento, in cui era costretta a rimanere, altrimenti sarebbe stata giudicata colpevole e l’avrebbero cercata in tutto il mondo come una criminale, quando in realtà sapeva di non aver fatto nulla di male.
Il sole le batteva sulla testa e non sapeva più che fare. Sapeva solamente che le parole di Febo erano vere: Ali era sparito, Meg non si trovava (aveva provato a chiamarla almeno dieci volte) e non poteva contare che su Cindy, che nemmeno conosceva bene. Le tornarono in mente le due ragazzine di quella mattina, Belle e Jane. Pazze. Completamente pazze. Come potevano aver accettato di scrivere un articolo del genere? Non era un po’ troppo crudo per due ragazzine come dovevano essere loro? Si ritrovò a chiedersi quanti anni avessero. Ne dimostravano entrambe meno di diciotto, ma chissà. Forse gliel’avrebbe chiesto, se le avesse rincontrate. Alla fine, le sembravano simpatiche, anche se decisamente matte tutte e due.
Si rigirò i ricci fra le dita di una mano, e si rese conto che una ciocca di capelli era bruciata e molto più corta delle altre. Il suo pensiero tornò alla sera prima, al risveglio improvviso, al silenzio, al timore e infine agli spari, al sangue di Febo e al suo rilascio. Quasi le mancava starsene dentro la piccola cella, sdraiarsi sul letto scomodo, lasciare che il detective facesse tutto per lei. Le aveva persino pagato da mangiare, se così si poteva dire. Insomma, le aveva portato un buon cheeseburger. Le mancò anche quasi la sua acutezza e il suo intuito nel capire gli altri e realizzò che non avrebbe potuto esserci un altro mestiere per quell’uomo. Era nato così e probabilmente sarebbe stato abbastanza motivato da morire inseguendo un caso.
Morire. Spari. Occhi chiusi. Si domandò come stava. Non aveva mai pensato alla possibilità che Febo fosse addirittura morto. Non le sembrava che la sua ferita avesse colpito un punto importante o che avesse perso così tanto sangue. Anche se, ora che ci ripensava, il sangue era veramente tanto. Una fitta di preoccupazione le colpì il cuore e lei si afferrò stupita il petto. Non aveva mai provato una cosa del genere.
Si ricordava bene quando era stata preoccupata per la salute di Quentin, ma in quel caso era stata una rabbia cieca che l’aveva colpita, per portarla a irrompere nella sua villa elegante e a convincerlo a scappare da Frollo. E lui l’aveva vista. Era stata preoccupata di essere presa dalla polizia qualche volta, ma allora era stata solo una fuga precipitosa. Tante volte, invece di provare preoccupazione per se stessa, aveva invece una sorta di adrenalina, di bollore nello stomaco che la portava quasi ad essere eccitata dal senso dell’avventura. Quella volta no.
Si alzò in piedi senza avere bene chiaro cosa stava per fare, ma quando fu di nuovo sulla metro, quasi si rimproverò con se stessa per le sue intenzioni. Stava andando da Febo. Voleva trovarlo, voleva sapere come stava. Non per altro, ma anche solo per dirgli grazie per averla aiutata, per aver creduto in lei e per averle aperto gli occhi a se stessa.
Scese alla fermata dell’ospedale, salì le scale lentamente, incurante della folla attorno a sé e quando uscì sulla strada quasi non poteva credere a ciò che stava facendo. Si diresse nel parcheggio, poi entrò dalle porte scorrevoli. Non sapeva bene come comportarsi in quei casi, quando si andava a trovare una persona cara malata. Magari nessuno poteva andare a trovarlo perché era un detective, chissà. Prese una Sprite alla macchinetta automatica, poi si sedette su un divanetto lì vicino. Pensò che fosse meglio stare un po’ in sala d’attesa, se qualcuno fosse andato a chiederle qualcosa avrebbe risposto di essere sua cugina o qualcosa del genere. Dopo dieci minuti buoni che era lì si rese conto che probabilmente non era molto educato presentarsi a mani vuote, ma frugando nelle tasche si accorse di aver già speso quasi tutti i suoi soldi.
Si alzò in piedi cinque minuti dopo, non ne poteva più di restare ferma e seduta. Non sapeva cosa doveva fare, d’accordo, sapeva che stava andando avanti ad occhi chiusi, che forse Febo era morto o era in terapia intensiva. Si avvicinò al bancone. Un’infermiera con un caschetto rosso e un sorriso da un orecchio all’altro si girò verso di lei, disponibile.
“Dimmi pure, cara!” esclamò allegra.
“Stavo cercando Febo Goodson. È qui?” domandò, rendendosi conto che era andata nell’unico ospedale della città che conosceva per fama. L’altro non era lontano dal Bronks, era pubblico ed era convinta che nessuno avrebbe potato lì un poliziotto. L’infermiera cominciò a controllare, poi la guardò raggiante.
“Certo! Sei la sua ragazza?” Esmeralda cercò di scuotere la testa “Parla a tutti di te. Una ragazza dai capelli scuri e gli occhi di smeraldo, ecco le sue parole! Ne ha parlato anche a me, quando sono andata a portargli il pranzo. Hai mangiato, tesoro?” la ragazza scosse nuovamente la testa, mentre l’infermiera la accompagnava all’ascensore “Allora dopo ti porterò qualcosa da mangiare. Ah, comunque Febo è al settimo piano, giri a destra e vai dritta fino alla stanza privata numero settantacinque. Lui è lì. Io arriverò fra un’oretta…” la spinse dentro l’ascensore pigiando il pulsante del settimo piano, dopodiché le fece l’occhiolino, mentre la porta si chiudeva “Avrete sicuramente di che parlare”.
La porta si chiuse e Esmeralda non fu sicura che Febo avesse detto la verità. In ogni caso, sembrava che fosse sicuro del suo arrivo all’ospedale. L’ascensore si fermò con un trillo, la ragazza scese e seguì le indicazioni della rossa fino alla stanza che le aveva indicato. Si fermò un momento prima di bussare alla porta, sentendosi improvvisamente molto imbarazzata. Respirò profondamente un paio di volte, poi bussò.
“Avanti!” le rispose la voce conosciuta del ragazzo. Esmeralda premette la mano sulla maniglia e la porta si aprì. Quando la vide, il ragazzo la guardò un po’ stupito, per poi mascherare l’emozione con un sorriso “Ero certo che saresti venuta”
“Tant’è che l’hai detto a mezzo ospedale, aggiungendo che sono la tua ragazza” commentò lei, prendendo una sedia e posizionandosi vicino a lui, che la guardò divertito.
“Bella trovata, vero? Così avrebbero fatto venire solo te. Mi hanno detto che è arrivato anche il giudice Frollo” storse il naso “Se voleva di nuovo provare a corrompermi… ma io non sono uno che si piega facilmente, no!” esclamò dimenando un pugno in aria. Esmeralda fu colta da un improvviso moto di affetto nei suoi confronti, si sporse in avanti e lo abbracciò, stringendo il viso di lui al suo petto.
“Sono contenta che tu sia vivo” mormorò, guardandolo sottecchi. Il ragazzo sembrava decisamente felice di essere stato abbracciato da lei, e la ragazza si staccò con un sorriso ironico “Non fare troppe feste, però!” lo avvertì “In ogni caso, cos’è successo l’altra sera?” domandò poi riprendendo contegno. Lui le lanciò un’occhiata che voleva essere disinteressata alla scollatura, sorrise e parlò.
“E’ successo che Frollo ha mandato uno dei suoi scagnozzi a prenderci. Non sappiamo se quello volesse ucciderci oppure solamente ferirmi, perché adesso è in terapia intensiva qualche piano sotto di me” storse di nuovo il naso, e Esmeralda si rese conto che era proprio un tic “E’ frustrante sapere che chi ti ha mandato all’ospedale è sotto di te, da qualche parte. Dovrebbero inventare una legge per questo” la ragazza scoppiò a ridere di cuore, sollevata che Febo stesse bene, e si rese conto che era un sacco di tempo che non rideva più così bene, così spensierata. Lui la guardava quasi ammirato e affascinato e dovette ammettere che era veramente un bel ragazzo anche se indossava solo un pigiama e una benda al braccio gigantesca. Prese un bicchiere d’acqua e bevve un po’, poi le si rivolse di nuovo. “In ogni caso, ho immaginato che tu avessi qualcosa in mente. Ti volevo almeno mettere in guardia su un paio di cose prima che ti ficchi nei guai del tutto, okay?” lei annuì “Per prima cosa, niente sangue, niente morti e niente coma di gente varia, d’accordo? È importante, perché se succede qualcosa nel torto ci vai tu, in un modo o nell’altro. Seconda cosa, mi comunichi i tuoi spostamenti e aspetti che io ti abbia dato l’okay prima di fare cose stupide. Terza cosa, non farai cose stupide”
“D’accordo” disse lei incurante, guardandosi le unghie “Non è mica del mio ergastolo che stiamo parlando. Forse potrei anche avere la pena di morte, ma le cose stupide sono comunque vietate”
“Apri il mio cassetto” ordinò lui, e Esmeralda decise di eseguire. Dentro il cassetto c’era una pistola, la sua, quella che aveva usato per cercare di salvarle la vita la sera prima “Tienila” disse poi in tono dolce “Ma qualsiasi cosa succeda, se la userai e qualcuno potesse risalire al proprietario, nei guai ci finisco anche io. Ti ho capita bene, Esmeralda, e penso che niente e nessuno possa fermarti. Nemmeno io. E non voglio che ti accada qualcosa di male, non mentre fai cose stupide, cercando di uscire da questo casino da sola. Quindi attenzione, mi raccomando”
“Io non faccio cose stupide” protestò lei, guardandolo seria, la pistola che scivolava sotto la t – shirt “E comunque, devo andare a cercare Ali.”
“Appunto. Frollo sa chi sono i tuoi testimoni, e come ha cercato di farti fuori una volta, può provarci una seconda” storse il naso “Quel maledetto bastardo. Mi mette sempre i bastoni fra le ruote.” Le lanciò un’occhiata significativa, poi le fece cenno di avvicinarsi e le diede il suo numero di telefono scritto su un biglietto da visita “Mi raccomando, chiamami. Tienimi aggiornato sui tuoi movimenti. Io potrò subito mandare qualcuno”
“Non sei l’unico con degli amici” gli ricordò lei, poi lo ringraziò e gli fece un cenno di saluto uscendo dall’ospedale.
Quando fu fuori, il primo numero che compose fu quello di Clopin, che le rispose prontamente.
“Ci dobbiamo vedere oggi. Dobbiamo trovare Ali e Meg o io non avrò chi testimonierà per me al processo. E Frollo farà di tutto per mettermi i bastoni fra le ruote” disse decisa “Sai dove potrebbe essere?”
“Le mie orecchie e i miei uccellini dicono che non ha lasciato la città” rispose lui con voce melodiosa “Questo restringe il campo… anzi, sono quasi sicuro di sapere dov’è” affermò. Esmeralda non riuscì a trattenere un’esclamazione di sorpresa.
“E dov’è?” chiese.
“Ho scavato nel passato della sua ragazza! Ovviamente li ha rapiti il promesso sposo” commentò “Ma ne parleremo più tardi, all'Hell’s Fire”.
“Non c’è tempo. Devo salvarmi la pelle prima che possano buttarmi di nuovo il cella come sospettata. Dimmi dov’è” ordinò decisa. Non aveva intenzione di finire di nuovo dietro le sbarre, non per sempre e men che meno ci voleva finire per mano di Frollo. Quell’uomo l’aveva sempre odiata. Ripensò a Quentin, e decise che era valsa la pena di avere quel giudice contro anche se in quel momento quasi avrebbe preferito averlo dalla sua parte. Ricordò la sua stretta al seno, la sua proposta lussuriosa, pensò che se fosse stata proprio senza speranza avrebbe avuto un piano B. Poi ricordò anche lo sputo in viso all’uomo e cambiò idea. Nessun piano B. Non si sarebbe abbassata a chiedere scusa, non a lui. Non a quel bastardo che aveva tenuto Quentin in casa sua, sofferente, per anni, non per chi aveva condannato un sacco di suoi amici per piccoli crimini e non per chi aveva cercato di corrompere. Sentendo la legge anticorruzione dalla sua parte, sfiorò la pistola sotto la t – shirt e si avviò a passo deciso verso il luogo indicato da Clopin.


Quando arrivò davanti all’hotel a cinque stelle in cui viveva Jafar, il caposala della Reggia del Sultano, scorse fra le foglie della siepe Clopin che le faceva cenno di accostarsi a lui. Si avvicinò, e l’amico le fece cenno di restare in silenzio. Si diressero su una panchina lì vicino e lui cercò di far finta di leggere un giornale con aria disinvolta, mentre Esmeralda giocava al telefonino. Aveva mandato un messaggio a Febo per fargli sapere il suo numero ma non lo aveva chiamato e non aveva neppure risposto alle sue telefonate. Quello era un lavoro che doveva fare lei, un poliziotto, come lui le aveva opportunatamente ripetuto più volte durante il loro primo incontro, non può entrare in una proprietà privata non invitato e senza mandato. A lei e Clopin i mandati non erano mai serviti e nemmeno conoscere le persone che a volte derubavano. Piccoli furti, una cinquantina di dollari e una boccetta di profumo, ma la ragazza era abile con le mani e silenziosa con i passi e insieme avrebbero potuto svaligiare una banca. Ovviamente nessuno dei due ci aveva mai pensato.
Aspettarono per ore davanti all’albergo, finchè finalmente, verso le sei di sera, Jafar uscì dall’hotel.
“Come fai a esserne sicuro?” domandò Esmeralda a bassa voce, intendendo che proprio Jafar avesse rapito Ali e la sua ragazza.
“Fonti mi hanno detto che l’ha mandato alla polizia, prima” disse lui in un sibilo “Ha cercato di accusarlo di crimini che non aveva commesso e indovina chi voleva processarlo? In ogni caso, è arrivato prima Garth, l’ha salvato dalla prigione e dalla strada. Ah… che brav’uomo” sospirò infine “Dai, andiamo”. I due entrarono nell’albergo inosservati. C’era un sacco di gente nell’atrio e nessuno li vide. Salirono in fretta le scale, mentre il ragazzo controllava prima di lei e salutava garbatamente chi incontrava, come se fosse di lì e Esmeralda fosse solamente una sua conoscenza. Arrivarono al quinto piano, e la ragazza decise di domandargli come faceva a sapere la camera del giudice. Quando arrivarono nel corridoio giusto, col pavimento di velluto e un’elegante disegno di siluettes
alle pareti, Clopin tirò fuori dalla tasca dei pantaloni un mazzo di chiavi. Lei sorrise. Erano quelle che aprivano qualsiasi serratura, quelle malleabili. La ragazza non sapeva come l’amico facesse ad averne così tante. Non gliel’aveva mai chiesto. Si fermarono davanti a una porta e il ragazzo trafficò con la maniglia velocemente, cercando di non farsi notare. Esmeralda sapeva che c’erano telecamere ovunque, proprio per questo dovevano stare girati in una certa maniera e attenti a ciò che facevano. Con le mosse giuste, davanti a un controllo, potevano tranquillamente essere degli amici che andavano a fare visita a Jafar. La porta si aprì sotto la chiave di Clopin, entrarono velocemente e il ragazzo chiuse la porta dietro di sé. Poi cominciarono a cercare.
Esmeralda non avrebbe mai pensato che un hotel fosse così lussuoso e che ci si potesse addirittura abitare, ma a quanto pareva da quelle parti era di moda. Girò nel cucinotto ordinato, tutto nero e rosso, così come il pavimento a scacchi, tenendo la mano pronta ad afferrare la pistola in qualunque momento, il cuore in gola. Una cosa che non aveva mai fatto e che non la attirava per niente era sparare a qualcuno, vedere il proiettile affondare nella sua carne, poi vederlo scivolare a terra inerte. Era si arrogante e decisa, ma sicuramente non era malvagia. In realtà si sentiva molto sensibile, sotto lo strato d’orgoglio. Entrò nella camera da letto, seguita da Clopin, ma appena sulla porta si accorse che una tenda si muoveva. Fece cenno all’amico di stare in silenzio ed estrasse la pistola, facendo scattare la sicura. Non sapeva sparare, ma sapeva com’erano fatte le pistole. Non pensava che sarebbe stato difficile.
“Esci fuori” esclamò a voce alta “Esci, o sparo”. Un uomo vestito di nero, il doppio di Febo in larghezza e muscoli, e almeno trenta centimetri più alto di lei, le si parò davanti, anche lui con una pistola. Esmeralda sentì il cuore battere forte e qualcosa che poteva essere sensazione di pericolo passarle per la testa, ma l’adrenalina ebbe la meglio. Avere qualcuno a cui puntare la pistola ed essere sotto tiro era una delle cose più eccitanti che avesse mai fatto. E non pensò a niente. “Dimmi dov’è Ali.” L’uomo grugnì qualcosa che sembrava una risata “Ho detto di dirmi dove sono Ali e la sua ragazza” ripetè.
“Non crederai mica che siano qua” rise lui. E mentre rideva, Clopin gli tirò qualcosa addosso, qualcosa che lui riuscì a evitare stringendo le braccia davanti al viso. Clopin non demorse, prese un libro da uno scaffale, una palla di piombo e tirò fuori dalla tasca una lacca spray. L’uomo scoppiò in una risata ancora più grande, mentre il ragazzo spingeva indietro Esmeralda, si faceva avanti e lo spruzzava di lacca. L’uomo cominciò a urlare e il moro non aspettò per tirargli il libro in faccia. L’altro ululò e Clopin afferrò Esmeralda per una mano e cominciò a correre verso la porta della stanza d’albergo. Si avvicinava a passi veloci, nonostante gli occhi rossi e le bestemmie. La ragazza aprì la porta, Clopin aspettò un momento prima di tirargli la palla di piombo sul naso. Si udì uno scricchiolio inquietante di ossa infrante, l’uomo mugghiò, il ragazzo spinse l’amica fuori, nel corridoio, dopodiché sbattè la porta in faccia all’energumeno per poi cominciare a correre per le scale. Questa volta li notarono tutti, un po’ perché correvano e un po’ perché lei aveva in mano una pistola. Scesero precipitosamente in gradini dell’albergo prima che qualcuno potesse fermarli e infine uscirono nell’aria fresca della notte. Non si fermarono. Continuarono a correre finchè non furono sicuri che l’uomo non avrebbe potuto prenderli, poi si lasciarono cadere senza fiato su una panchina. Esmeralda si infilò la pistola di nuovo nella gonna.
“Non c’erano” ansimò Clopin “Ci siamo sbagliati. Ali non era in quell’albergo”.
Esmeralda si sentì cadere il mondo addosso.


Rientrando all’ospedale dovette trattenere lacrime di frustrazione. Non solo non avevano trovato Ali e la sua ragazza, ma erano addirittura entrati in un appartamento con telecamere ed erano stati visti con una pistola in mano. Sperava solo che non avrebbe dovuto scontare una grande pena per questo, perché era certa che Frollo l’avrebbe fatta uscire fuori al processo. Entrò nella camera di Febo ma lui stava sonnecchiando. Quando posò la pistola sul comodino, però, lui si svegliò di colpo e la strinse forte a sé.
“Esmeralda…!” esclamò con voce preoccupata. Lei alzò lo sguardo e incontrò gli occhi di lui, che avvicinò il viso al suo e la baciò goffamente sulle labbra. La ragazza rimase stupita dal quel gesto, così tanto che non riuscì a capacitarsene sul momento e rimase in balia delle proprie emozioni. Sentì un fremito d’eccitazione percorrerla da capo a piedi, la mente offuscata da una strana nebbiolina rosa, il cuore mancare un battito. Si sentiva totalmente presa alla sprovvista, come se non ci fosse un senso logico, un accenno di realtà, era stordita come se fosse un sogno. Ma non poteva essere un sogno, perché le mani di Febo fra i capelli erano reali così come le sue labbra e la leggera pressione del ginocchio sul fianco. Non sapeva bene cosa stesse accadendo, l’unica cosa certa era che in quel momento avrebbe voluto essere totalmente diversa, avrebbe voluto cambiare.
Improvvisamente non voleva più lavorare alla Dream’s House, non voleva più la sua casetta nella periferia di New York, non voleva nemmeno più essere così indipendente. Si rese conto che non aveva mai ascoltato gli ordini di nessuno, ma che per una volta avrebbe voluto sentirsi dire ‘non farlo’, e non farlo davvero, di qualsiasi cosa si trattasse. Si sentiva colma di emozioni nuove che la riscaldarono e le arrossarono il viso abbronzato.
Si ritrovò a stupirsi del fatto che Febo non l’avesse nemmeno sfiorata in altri punti del corpo, quelli che avevano cercato sempre tutti. Lui era l’unico a cui erano interessate solamente le sue labbra. Lui le aveva subito creduto, aveva cercato di aiutarla. Dimenticò ben presto la sua avversione contro i poliziotti e contro gli uomini e l’amore, pensò solo al presente, non voleva riflettere sulle conseguenze e così fece. Si lasciò andare al bacio, stringendosi ardentemente a lui, inspirando il suo odore e lasciandosi sfiorare il collo, le spalle, le braccia, i fianchi. Dimenticò i fatti avvenuti precedentemente, il processo e Frollo. Voleva non pensare, per una volta.
Si rese conto che Febo le aveva fatto aprire gli occhi, che con lui era cambiata e che la sua trasformazione era appena cambiata. Non c’erano fate madrine o magia al mondo, ma sicuramente c’era qualcosa che l’avrebbe spinta per la strada giusta delicatamente, indicandole la strada e aiutandola nelle difficoltà. Ed era lui, il suo angelo. Esmeralda aveva sempre creduto negli angeli custodi e in quel momento era fermamente convinta che Febo fosse il suo.
Si lasciò andare, semplicemente. Finalmente libera.













NdA: Buonasera a tutti :) Eccomi con il nuovo capitolo finalmente ultimato di 'A Whole New World'! Spero vi sia piaciuto :) Statisticamente nessuno mi ha detto che gli piaceva Esmeralda (anzi :P) però spero che abbiate cambiato almeno momentaneamente idea :)
Ringrazio Elelovett, petitecherie, merychan, _BriciolaElisa_, Sissyl per l'affetto costante e per continuare a leggere e a supportarmi, ma specialmente _Uneksia_ per aver commentato ^^
Ringrazio anche le persone che hanno inserito questa storia nelle seguite e nelle ricordate :) Siete specialissimi ^^

Nymphna <3

   
 
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