La Luna dei Morti
La
battaglia era andata male.
Lo sentivo nella pioggia che offuscava
i minareti di Gerusalemme, nel vento che scuoteva gli stendardi
lontani di Masyaf.
L'odore di muschio e terra era pungente
quanto il sentore del sangue. Torrenti di sangue versato, mucchi di
corpi senza vita. Corpi recanti il marchio del nostro Ordine.
Come un morto, cercavo un solo volto.
Ripetevo per riflesso un solo nome.
“Altaïr...
fratello!”
Non
avevo ritegno. Non mi curavo degli altri compagni, il mio primo
pensiero era lui. Trovarlo, vivo o morto, lungo le vie impervie del
Regno.
Il
mio cavallo galoppava veloce, nitriva come invocasse la morte
tant'era dilaniato dal ritmo folle a cui lo spronavo.
Tra
la nebbia e i ciuffi di capelli bagnati che mi coprivano gli occhi
distinsi male i bivi, avevo dovuto scegliere una strada alternativa
perché il sentiero ad alta quota che usavo abitualmente era
franato,
sgretolato dalla forza dell'acqua.
Arrivai
ad Acri troppo tardi.
Gli
ultimi focolai di guerriglia si erano già estinti, i
falò feriti
dall'umidità digerivano resti di cadaveri ormai carbonizzati.
La
pioggia nel frattempo si era quietata, sostituita da un vento forte e
da un'insopportabile luce grigia.
Se
avessi trovato la guerra, morente o insorgente, ero sicuro che
lì
avrei trovato anche Altaïr. Ma il silenzio che mi accolse alle
porte
di Acri frantumò di un colpo le mie piccole speranze,
schiacciandole
sotto un grave d'angoscia.
La
guerra era finita. Altaïr aveva perso.
Sentii
la testa girare, la vista mi si annebbiò per un momento.
Il
mio cuore era nero di dolore e quell'ultima scintilla di speranza
pareva una stella nell'universo.
Vedevo
il nostro Ordine disperdersi, come dei ciechi naviganti privati della
loro Stella Polare.
La
nostra stella era Altaïr, e senza di essa i bastioni di Masyaf
sarebbero crollati, e le sue torri cadute in mano all'armata
templare.
“Fratello...”
mormorai flebile.
Il
cuore mi palpitava sgraziato alla vista dei cadaveri anonimi degli
assassini caduti.
Ad
ogni via che svoltavo avevo paura di riconoscere la veste candida di
Altaïr riverso per terra, zuppa e grigia d'acqua.
Ma
non lo trovai.
Sentivo
la sua presenza, come se il suo fantasma aleggiasse già tra
i muri
delle case di Acri. Forse anche lui mi stava cercando, mi era accanto
e mi chiamava, senza che io potessi sentirlo.
Il
suo corpo non c'era. Era volato via, come un'anima angelica.
Caddi
in ginocchio, debole, stremato. Avevo combattuto a lungo a
Gerusalemme, prima di riuscire a dominare lo scontro e ad arrivare
alle scuderie. Il braccio mancante costituiva per me un terribile
svantaggio, ero ferito.
“Malik”.
Una
voce ferma, secca, giovane.
Una
voce che in passato aveva sempre suscitato la mia irritazione.
Una
voce a cui ero avvezzo rispondere con sgarbo e risentimento.
Solo
un ben noto assassino era tanto abile da avvicinarsi senza emettere
il minimo rumore. O forse, ero io che non ci avevo fatto caso.
Mi
voltai e lo vidi in piedi, di fronte a me, lo sguardo perso e
dilaniato da un dolore incolmabile.
Gli
portai una mano dietro al collo, gli abbassai il cappuccio
spettinando i suoi capelli mossi e scuri.
Era
sopravvissuto.
La
nuvola che lo oscurava era stata sospinta altrove.
Si
dondolò verso di me, come un salice scosso dal vento. Come
un
gigante di pietra che crollava.
Mi
abbracciò, mi strinse con braccia forti ma provate dalla
stanchezza.
L'abbraccio
di due sopravvissuti.
Una
gioia impagabile, e allo stesso tempo un male dannato.
Qualcosa
si mosse dentro di noi, qualcosa che finalmente condividevamo. Il
dolore della perdita, un disorientamento dilaniante.
“Credevo
fossi morto, novizio”.
Per
la prima volta, dopo la morte di mio fratello, avevo una gran voglia
di piangere. E me ne vergognai.
Sfogai
le mie lacrime sulla sua bocca, divorandolo piano, con il cuore in
gola.
Ci
sentivamo dei superstiti, eravamo soli in quel bacio bagnato,
apparentemente privo di senso.
Altaïr
era una creatura nobile e incorruttibile, era il pilastro del nostro
tempo. E io l'avevo toccato sulla pelle. Incredibilmente vicino.
Volevo
congiungermi a lui, prenderlo per mano, come fossimo due cuccioli
d'aquila sbandati nella tempesta.
Le
sue labbra erano fredde e livide.
I
suoi occhi chiari inespressivi.
Ma
non pianse.
Ci
rifugiammo nella bottega di un sarto.
L'ambiente
era sottosopra, le stoffe preziose e i vari attrezzi erano
sparpagliati sul pavimento pieno di sporcizia e polvere. Il negozio
era stato abbandonato tempestivamente, probabilmente a causa della
battaglia che incombeva. Le stecche aromatiche erano ancora accese, e
le fragranze che emanavano si mescolavano in modo disgustoso
all'odore mortifero dei falò.
Altaïr
si adagiò sui cuscini, imbrattandoli all'istante di sangue
scuro. Mi
allarmai, non avevo notato che fosse ferito.
Cercammo
di medicarci a vicenda, fortunatamente le nostre condizioni non erano
gravi.
Non
avevo più visto Altaïr nudo da quella volta in cui,
bambini, ci
avevano fatto il bagno insieme in una tinozza d'acqua fredda, in una
delle austere stanze di Masyaf.
Il
suo corpo forte e proporzionato era scosso da brividi, tremava.
Sapevo
perché.
Sensi
di colpa.
Il
senso di colpa bruciante per aver indirettamente causato la morte di
mio fratello e la perdita del mio braccio sinistro.
Il
senso di colpa per non essere riuscito a salvare i suoi confratelli.
Il
senso di colpa per essere sopravvissuto.
Perché
Altaïr non capiva un elemento fondamentale, lui volava metri e
metri
più in alto di noi.
“Malik,
devo fare l'amore con te”.
Il
sangue mi pompò furiosamente nelle vene, d'istinto mi
allontanai da
lui di qualche passo.
In
un momento il mio cervello non ragionava più, oscurato da
rabbia
mista a eccitazione.
“Devi...
cosa? Devi?”
Balbettai.
Non
rispose.
Stavo
per rispondergli a mia volta a suon di pugni quando vidi il suo viso
bagnato e distrutto, i suoi occhi rossi. Mi fermai.
“Mi
dispiace” disse in un sibilo, in un velo di sussurro. Una
voce
sommessa che non avevo mai sentito.
E
allora capii.
Capii
che aveva un disperato bisogno di cancellare, anche solo per un
attimo, tutto il peso che gli gravava addosso.
“Malik,
non voltarmi le spalle anche stavolta. Sembro tanto furbo, potente e
astuto, vero? Ma la verità è che non riesco in
niente!” Sferrò
un pugno alla montagna di tappeti arrotolati impilati alla sua
destra, forse l'unico elemento ancora in ordine in quel marasma. Non
contento del limitato chiasso che provocarono, si alzò in
piedi e
con un calcio fece cadere gli incensi e i calumet.
L'osservai
attonito.
Mai
l'avevo visto perdere la sua compostezza fino a quel punto.
“Cerca
di calmarti, mi sembri un bambino capric-”
“Certo,
è proprio quello che sono!” Urlò,
guardandomi con odio. Poi,
sconfitto, crollò nuovamente sui cuscini.
“Avevo
creduto di poter guidare gli Assassini, di poter essere un punto di
riferimento per loro”.
“Per
quanto mi disturbi ammetterlo”, iniziai, avvicinandomi a lui,
“lo
sei”.
Mi
scrutò scettico con occhi ambrati, per nulla convinto.
“Proprio
tu me lo vieni a dire, Malik?” Mi domandò a fior
di labbra.
“Stai
zitto fratello”, gli risposi mentre approfittavo della sua
vicinanza per baciarlo, sentendo nuovamente lacrime appiccicose che
gli imbrattavano il viso.
Ma
poi cambiai idea. Non l'avrebbe avuta vinta.
“Se
hai bisogno di una distrazione vai a tirare i sassi nello stagno, io
non sono il tuo passatempo”.
“Non
capisci!” Mi scosse le vesti irato e fissò i suoi
occhi nei miei
con eloquenza.
“Ti
rendi conto di quello che mi stai chiedendo? Dei nostri compagni sono
morti, la città è in fiamme, l'intero Regno
è in subbuglio e il
nostro Ordine minaccia di cadere, e tu pensi a questo genere di
cose?”
“Io...
ho solo bisogno di...” la sua voce era roca. Si
dondolò ancora una
volta verso di me, toccandomi i capelli come fosse un bambino
curioso.
“Di
me, sì, lo so. Non te la sei mai cavata senza di
me”.
Lo
sdraiai per terra iniziando a togliermi gli indumenti bagnati,
maledicendomi intanto per aver sempre illuso quel guerrafondaio. Se
pensavo a tutti quei baci accidentali che ci eravamo scambiati nel
covo, quando lui compariva all'improvviso solamente per gusto di
distrarmi dal mio lavoro.
“Stai
ansimando, novizio? O ti sta solo venendo un raffreddore?” Lo
schernii, ridacchiando odioso.
“Frena
la lingua Malik”, ribatté a denti stretti. Ora mi
trovavo io
sdraiato sul pavimento sotto il suo peso, in una posizione alquanto
imbarazzante. Non potevo contrastare la sua forza, inoltre lui poteva
far leva su entrambe le braccia. Era ingiusto, approfittare in modo
così meschino delle sue stesse malefatte, delle conseguenze
dei suoi
errori.
Strinsi
a mia volta i denti quando avvertii la sua virilità che
s'impossessava di me, in fondo mi chiedevo se ero davvero disposto a
concedergli un tale privilegio.
Spinse
più forte, ancora e ancora, e il dolore iniziale
scemò in fretta.
Tuttavia non provavo un piacere eccessivo, forse avevo troppi
pensieri che mi ronzavano in testa.
“Vai
più... più piano Altaïr, sei un novizio
anche in questo, nevvero?”
La
notte ci sorprese. Senza che ce ne accorgemmo i nostri insulti e i
nostri amori erano stati soffocati dalla luce delle stelle. Una luce
molto più agghiacciante e vivida della nebbia pomeridiana,
la luce
di una notte accesa di sgretolate braci rosse, sparse in cumuli tra
le viuzze.
Allungai
una mano verso la nuca di Altaïr con l'intento iniziale di
dargli
una carezza, che si trasformò in uno schiaffo cattivo e ben
posato.
“Raffredda
gli spiriti Altaïr, non è l'ora questa di
girovagare a cavallo per
il Regno solo perché tu ti sei fatto venire i doppi sensi di
colpa!”
Lo
guardai colmo d'ira infilare gli stivalacci sporchi di fango,
stringere la cintura attorno alla tunica impolverata e gemere nel
toccare inavvertitamente la ferita che s'era procurato.
“Smettila
di parlare a vanvera e alzati, Malik. Andiamo a settentrione”.
“Tu
sei matto!” Mi rizzai all'istante a sedere, ritrovandomi a
ringhiare e a stringere i pugni all'inverosimile. Ma la mia reazione
era più che ragionevole. “Fratello”,
iniziai con le buone
tentando di rischiarare quella sua mente turbinosa,
“è buio,
armate intere di templari brulicano lungo le vie montane, Acri
è il
rifugio più sicuro che abbiamo, per adesso. Vorresti
sprecare in
modo così avventato tutti i sacrifizi fatti
finora?”
“Diciamo
piuttosto che tu non vorresti veder sprecata la mia
vita”,
ribatté velenoso lui liberandosi dalla mia debole presa. A
quell'affermazione mi sentii tremare di rabbia. Moccioso
irriverente, ecco cos'era. Sarà anche stato la
stella
dell'Ordine, ma era pur sempre un ragazzino troppo cresciuto.
“Se
vuoi metterla in questi termini, dunque, lasciami pur dire che temo
per la mia, di vita”.
Aveva
forse dimenticato il mio vergognoso svantaggio?
A
quelle parole, Altaïr sembrò finalmente prestarmi
orecchio. Si
voltò verso di me e mi scrutò a lungo con quei
suoi stupidi e
assurdi occhi gialli. Occhi che rassomigliavano a polvere liquida,
alla polvere del deserto.
“Voglio
rimediare. Voglio riconquistare Masyaf. Non può
assolutamente cadere
in mano ai templari, Malik, lo capisci?”
Certo,
certo che lo capivo. Ma la sua equivaleva a una missione suicida.
“Così,
credi di riconquistare la tua gloria morendo in modo così
stupido?
Lascia che ti dica Altaïr che in tal modo l'unica cosa che
conquisterai sarà la disapprovazione dei tuoi compagni!
Salpiamo
oltremare finché siamo ancora in tempo, fondiamo una
colonia, un
nuovo Ordine, un faro, un rifugio per tutti gli Assassini sparsi
lungo le rive del Mediterraneo, nel profondo dell'Europa e
oltre!”
Ma
lui scosse la testa, respingendo le mie tanto ardite parole.
“Ancora
non è arrivato il momento di erigere una lampada oltremare,
essa non
brillerà mai se ad oscurarla ci saranno sempre le ceneri di
Masyaf.
Intendo piantare un seme, lasciare un piccolo e debole focolare di
speranza anche quaggiù, nella culla del nostro Ordine,
cosicché un
giorno esso possa germogliare e brillare più ardentemente di
qualsiasi fuoco. So bene di non poter riconquistare Masyaf stanotte,
Malik, ma penso di poter innestare le radici di quell'albero che, un
domani, si libererà delle edere che lo infestano. Parti con
me,
Malik”.
Quella
notte cercai, tra le vie del borgo impazzito, due bestie da domare.
L'avrei
seguito come un navigante cieco.
L'avrei
seguito.
*
Arbori dell'anno 1194
Ho
tentato l'infiltrazione a Masyaf, sperando di trovare qualche
fratello a darmi man forte. Speranze vane, sono tutti ammucchiati
come carcasse di animali lungo le vie infangate del promontorio, qui
riposano i nostri padri e i nostri confratelli.
Tuttavia
sono riuscito a scalare le mura, c'è un passaggio su un
misero
cordone di roccia che in gioventù ebbi la fortuna di
scoprire. Io e
io solo lo conosco. Da qui si può facilmente aggirare la
mole della
fortezza e scalare il torrione più alto, fino ad arrivare ai
camminamenti. Sono stato inseguito ma, ahimè, sono riuscito
a
scappare di nuovo. Ho tanti nomi, Aquila, Angelo,
e
tutti hanno la parvenza della sfuggevolezza. Non lo nego, ho questa
capacità innata di cavarmela sempre, di uscire vivo da
qualsiasi
situazione, e di lasciar morire i miei compagni. Un'abilità
maledetta. Io vivrò per vedere morire tutti i miei cari,
tutti
coloro che sono più deboli di me e che io dovrei proteggere,
tutti
coloro che non stanno al passo con me, che non volano alto come me.
La mia è un'esistenza dannata.
Ho
perso un altro compagno lungo le vie del Regno, Malik Al-Sayf. Non
voglio che il suo nome vada perduto. Ho qui la sua arma, il suo
braccio destro. È un'eredità semplice da lasciare
ai posteri, nella
mia stoltezza speravo di lasciare saggezze, saperi, biblioteche e
archivi... infine ho lasciato un simbolo. Qualcosa che vi ricordi la
nostra nobiltà, l'elevatezza del nostro agire, e nello
stesso
momento la nostra natura tormentata. Il nostro incarico è
nobile e
puro, eppure il nostro cuore sarà sempre afferrato
dall'incertezza.
Questa
è l'arma che vi compete, silenziosa e invisibile agli occhi
degli
altri, indecisa e dotata di una precisione e di una spietatezza
incolmabili. Cosicché anche nei momenti d'incertezza non
potrete
rimediare a ciò che è stato, non sarete
più colti dai dubbi se
infilare la lama nelle carni di un templare abbia veramente cambiato
il mondo, ma vi addolorerete nei rimorsi, voi soli, e il mondo
esterno ve ne sarà grato.
È
un sacrifizio che l'umanità può sopportare.
Altaïr Ibn-La'Ahad
In
una nicchia sperduta dell'alveo di Mayaf giace l'eredità del
più
grande Assassino di tutti i tempi.
La
neve la ricopre e il vento l'accarezza, e solo un'Aquila riuscirebbe
a rubare quelle uova contenute in un così alto nido.
Due
strane polsiere, spesse e pesanti, che covano al loro interno due
lame, l'una sottile e rapida, l'altra spessa e incredibilmente
affilata, entrambe decorate da eleganti, ma tuttavia semplici
ghirigori.
L'una
reca il nome di Altaïr,
Maestro
Assassino, l'Aquila che vola più in alto della volta celeste.
L'altra
reca il nome di Malik, Rafiq di Gerusalemme, il navigante, che prima
di affogare in un mare rosso volse gli occhi e tutta la speranza che
gli rimaneva in cuore verso la stella più luminosa.
Quinto Posto
DeidaraDanna93
La Luna dei Morti
Genere: Triste, malinconico
Avvertimenti: one-shot, yaoi
Pacchetto scelto: 20 (lama celata)
Valutazione:
Ortografia e Grammatica: 7/10
Uso dei pacchetti: 8/10
Piacere personale: 12/15
Originalità: 13/15
titolo: 9/10
Totale: 49/60
Uhm, ho notato che che spesso confondi l utilizzo della "Z" con quello della "C" e questo sommato ad alcuni piccoli e quasi del tutto irrilevanti abusi di punteggiatura ha un po' penalizzato il tuo punteggio sull'ortografia e la grammatica, tuttavia il lessico è forbito e di piacevole lettura. Ho trovato nel tuo racconto parole che non ho mai visto usare a nessuno, e questo è un lato che apprezzo, visto che sono amante delle parole e del loro utilizzo più corretto.
L'idea di un Altair-Malik non mi affascinava molto, ma hai saputo descrivere dolcemente gli avventimenti, e sei riuscita a dare l'impressione che non fosse poi così sbagliato ciò che stavano facendo. Ho adorato i paragoni e le similitudini, anche li perchè sono un punto debole dei miei testi.
Ricapitolando hai fatto un bel lavoro a dispetto di un pacchetto non semplicissimo, hai saputo rivelare l'essenza di quello che i protagonisti provavano, tuttavia però il racconto sembra un po' inconcluso, o precisamente, concluso un po' rapidamente.