Era un giorno di pioggia.
Era un giorno di pioggia come tanti
altri, ma ai suoi
sciocchi occhi infantili sembrava unico e particolare, irripetibile
nella sua
banalità. Era certo che non avrebbe mai più
rivisto gli alberi piegarsi a quel
modo, e le nuvole scure coprire il sole alla stessa maniera. Il
paesaggio che
aveva osservato tante volte dalle finestre appannate di casa sua,
adesso si
presentava con lo stesso presentimento che precedeva
un’avventura. Tutto doveva
cominciare. Nulla avrebbe avuto fine.
C’erano solo loro, il vento, le macchine che sfrecciavano a
tutta velocità per la strada. Un passo. Sarebbe bastato un
passo a decidere, e
sarebbe stata una decisione solo loro.
Era tutto ciò che gli serviva sapere, per renderlo quel
passo speciale.
Di fianco a lui, sua sorella piangeva sommessamente.
La cosa lo innervosiva. Lo innervosiva parecchio. Perché
doveva piangere? Avrebbe dovuto essere contenta. Emozionata,
esattamente come
lui. Loro dovevano stare sempre insieme, dovevano essere sempre uguali,
sempre,
sempre. Se lui era felice, non vedeva motivo per il quale lei non
dovesse
essere contenta. Bastavano l’uno all’altro, non
avevano bisogno di nessuno.
Ed era per questo che se ne erano andati. Perché loro volevano dividerli, mandarli
l’uno
lontano dall’altra: parlavano di uno stupido collegio, ma a
lui non servita
ascoltare oltre: dicevano che era sbagliato, che era una cosa orribile.
Che
erano due bambini orribili. Dio non li avrebbe mai perdonati, dicevano
loro.
Ma perché poi? Erano solo fratelli. Erano solo fratelli, e
si volevano solo bene. Se era così sbagliato,
perché nessuno glielo aveva detto
prima?
Sì, senza dubbio era una regola stupida che si erano
inventati al momento, solo
per far dispetto a lui. Tipico di loro.
Ma forse, nella foga, doveva aver stretto quella manina un
po’ troppo, perché i suoi singhiozzi si fecero
ancora più forti, ancora più
insistenti. E la cosa incominciava davvero a farlo arrabbiare.
Ma non si sarebbe arrabbiato, no. Lui
si arrabbiava sempre, ed era mostruoso. Il bambino non era
cattivo, invece. Non era come lui. Voleva solo essere libero.
Se non avesse fatto tutto quel rumore, mentre piangeva, avrebbe
potuto anche far finta di niente.
Era bravo a ignorare le cose spiacevoli. Chiudendo gli occhi
e aggrappandosi alle lenzuola, si concentrava su qualcosa di bello, e
allora
non sentiva proprio niente. Era come stare un po’ sdraiati
sul letto a pancia
in giù. Nulla di grave. Andava tutto bene.
Pioveva. Erano bagnati. Tutto era bagnato. Era solo acqua,
non faceva male. L’acqua non era mica cattiva: le aveva
spiegato con molto
calma che non c’era nulla da temere, nella pioggia: ma lei
no, doveva lamentarsi
e gemere e piagnucolare comunque. non lo sopportava. Non lo sopportava.
Ma non disse nulla. Lui era grande. Lui aveva sopportato
tutto. Aveva sempre sopportato loro,
le cose che facevano e dicevano, aveva sopportato ed era stato in
silenzio. Era
sempre stato bravo.
Perché doveva essere sbagliato quello che faceva? Lui era
sempre stato bravo.
Così conciata, la sua graziosi sorellina dagli occhi scuri e
i capelli rossi non appariva più così carina come
dalle foto che teneva nella
cameretta.
Non lo sopportava. Non sopportava che lo accusassero ingiustamente. Lui
era
sempre stato bravo. Sempre. Sentì la rabbia montare in gola,
e le lacrime gli appannarono
la vista.
Bastarono pochi passi sull’asfalto scivoloso, lei cadde e
lui gli fu sopra in un attimo. La macchina rossa li prese in pieno,
spezzando
con la ruota anteriore la spina dorsale a entrambi.