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Autore: fedenow    12/11/2012    7 recensioni
Questa storia inizia così, con un elenco puntato di Cose Essenziali Da Fare Nella Vita scritto a sedici anni su un blocco per appunti.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Brian Molko
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I'm coming back for more



I'M COMING BACK FOR MORE




The sky is crying, streets are full of tears
Rain, come down and wash away my fears
And all this writing on the wall
Oh, I can read between the lines.




Questa storia inizia così, con un elenco puntato di Cose Essenziali Da Fare Nella Vita scritto a sedici anni su un blocco per appunti:


. Suonare
. Lasciare questo posto di merda!
. Essere felice

Mi piacerebbe sorridere, a questo punto, aprire un cassetto della scrivania vittoriana che non ho ed estrarre il vecchio foglietto ingiallito. Ci passerei sopra un pollice inelegante, annuirei, magari, prima di riporlo, e concederei un’occhiata pregna di significato allo studio dove conservo i cimeli.
La verità è che ho perso la lista qualche ora dopo averla sbozzata. Potrei averci risolto sopra degli esercizi di scuola, averci scribacchiato delle tablature, mio padre potrebbe averne usato il retro per segnarsi i numeri di telefono di gente che disprezza in segreto. Il fatto che sinceramente mi stupisce è il ricordarla ancora, nonostante tutti gli anni trascorsi a separarmi dal borioso ragazzino che impiegava tutte quelle lettere maiuscole, ma che forse aveva visto giusto. Nel lasciare il Lussemburgo al suo destino per cercarsi il proprio, nell’invitare a un proprio concerto un ragazzo svedese molto carino, nel rincorrere sogni che a quell’età non possono che essere confusi. Oscillavo fra una carriera teatrale che avrebbe soddisfatto il mio narcisismo intellettuale, un bisogno di vedere, suonare e toccare le chitarre in vendita nei negozi di musica e fiumi di droga per alleviare quel mal di vivere che Baudelaire svendeva a buon mercato.

Londra mi ha accolto con il grigiore di chi va di fretta, è stata il teatro dei miei primi passi dovunque essi fossero diretti. Se avessi conservato un po’ di quel romanticismo adolescenziale mi accorgerei che il suo ruolo non è stato troppo diverso da quello di mia madre, dal suo allevarmi lasciandomi sbandare tutte le volte che reputava necessarie, e gli altalenanti periodi di odio e amore non fanno che confermare questo. È una città bastarda, di quelle di cui credi sempre di poter fare a meno finché ti rendi conto di quanto in realtà le tue strutture mentali siano misurate su di essa. È stata l’Occidente per me che venivo dal microcosmo autoreferenziale della piazza di una cittadina anonima, è una donna a cui so di poter tornare senza che mi ferisca consapevolmente. E anche se non sentirò mai il bisogno di chiamarla casa, è stata indubbiamente la prima città in cui ho inciso il mio storto, malfermo, ingenuo graffio.

Incontrare Stefan ha avuto un peso significativo nel capire cosa volevo fare della mia vita. Al tempo suonavo più o meno intensamente in scantinati più o meno malfamati di Camden Town in compagnia di conoscenze più o meno occasionali, alternando live e visite a etichette discografiche che storcevano il naso davanti al mio metro e sessanta turbolento negli anni Novanta delle boyband e dei fisici scolpiti. Evidentemente la mia caparbietà presso i loro uffici, la cultura letteraria e musicale che non esitavo a esibire e il vedermi girare con quello che tutti prendevano per la mia babysitter le hanno convinte che non era mia intenzione fare la fine di Cobain senza nemmeno essermi preso la briga di diventare un mito generazionale, e fu così che hanno scucito il benedetto contratto. O forse non hanno pensato a nessuna di queste cose, forse ci hanno scritturato perché, da bravi economisti della musica, hanno visto i milioni colare dall’eye-liner degli alternativi che, con loro grande cruccio, andranno sempre di gran moda.

Resto comunque molto legato a quei primi mesi di attività musicale finalmente formalizzata, vedevamo un punto di arrivo in quella che era solo una colossale partenza e ci convincevamo giorno dopo giorno di poter davvero vivere del tempo che spendevamo a suonare nelle bettole e a registrare. E con il cuore in mano posso dire aver avuto poche volte una paura paragonabile a quella che ho provato vedendo Nancy boy al quarto posto delle classifiche britanniche. È stato un fiotto subitaneo, breve, seguito da una sberla di adrenalina che leggevo nei miei occhi allo specchio e in quelli di Stef, perché è immensamente grandioso mettere le mani sui tuoi sogni e farli diventare la tua realtà, ma richiede l’onestà di ammettere a te stesso che hai trovato quello che cercavi e che ti stai scegliendo con le tue mani ogni singolo momento che vivrai da lì in avanti. Ci guardavamo in faccia, io e Stef, e ci chiedevamo se fossimo pronti ad abbandonare la rassicurante codardia di chi è in lotta con il mondo. Me l’ha detto, un giorno, “Io dovevo andare al college, Brian! Dovevo studiare letteratura e laurearmi e lamentarmi di come fosse pallosa la mia vita convincendomi che se avessi fatto il musicista sarebbe stato tutto diverso! …Adesso che cazzo faccio?”. Eravamo fuori da un qualche pub, piangeva e rideva e capiva che abbiamo scelto una strada che non si può abbandonare, se non fallendo.

Che fossimo in tre, sopra quei palchi, è un mero dato numerico. Io Stefan e Robert. Io Stefan e Steve. Io Stefan e il nuovo Steve. Mi rendo conto, oggi più che in passato, che quel terzo posto è una costante sfuggente del nostro gruppo, un collettore di quello che io e Stef non siamo, un accredito riservato a chiunque sia abbastanza coraggioso da sfidarci, bravo da convincerci di poter migliorare la nostra musica e interessante da stuzzicare la nostra vanità. Steve Hewitt è stato a conti fatti la scelta più naturale, per quanto mi infastidisca ammetterlo i Placebo sono un’esperienza nata e cresciuta con lui. Sono stati anni in cui il tre sembrava davvero un numero senza crepe, nonostante a posteriori la realtà sia diversa. Non ho rimpianti se non quello di non averne saputo fare a meno dall’inizio. Sostituirlo con un ventenne esuberante è stata la più pratica delle soluzioni che ci si prospettavano. Prendo il meno e lo trasformo in un più. Bianco per nero. Luce per buio. Avevamo poco tempo, poca voglia di sperimentare e molta di dimostrare che la ragione era dalla nostra: rovesciare le nostre basi era la via d’uscita più accessibile e meno impegnativa. Diventare l’opposto di ciò che si è non richiede un grande sforzo, ed è molto più banale di quanto io stesso immaginassi. Non è un equilibrio. È una polarità che annulla la polarità precedente, e crea quel terreno neutro in cui ora ci troviamo, noi e la nostra difficile lettura di ciò che vogliamo fare. Che un giorno dopo l’altro è sempre più difficile fare. Se Steve ne fa parte nell’immediato, non so che cosa accadrà più avanti; mi auguro che possa continuare con noi, anche se sono abbastanza disilluso da non preoccuparmene.

Per cui, sì, quegli scarni propositi di tanti anni fa, insigniti di una lucidità lungimirante che non avevano, possono valere anche oggi. Continuerò a suonare finché sarà la cosa che saprò fare meglio. Ho abbastanza soldi e voglia di vedere il mondo per fuggire da tutto questo ogniqualvolta me ne venga il capriccio, ho una barca sulla Senna per convincermi di poterlo fare davvero. Mi interesso di meditazione nella speranza di scoprire parti di me che ancora non conosco e che non mi annoino come le altre, credo nell’influsso degli allineamenti astrali sulla vita dell’uomo perché è un modo come un altro per ammettere l’esistenza di Dio. Ho un concetto di felicità non molto diverso da quello della maggior parte delle persone che conosco: se piove m’incazzo, se c’è il sole sono felice; se mentre suono mi si spezza una corda m’incazzo, se trovo un film coinvolgente mi distraggo e sono felice; se mi tradiscono non sono felice; se faccio sold out sono felice; se mio figlio fa qualcosa di particolarmente stupido sono felice; se sono innamorato sono felice; se mangio bene al ristorante sono felice. La felicità è un meccanismo talmente banale da risultare intollerabile a chiunque sia abbastanza vanitoso da credersi diverso dagli altri, e rivestiamo il dolore di un’importanza smisurata per crederci unici almeno nella sofferenza. Sarà l’età e la stanchezza che si porta appresso, ma mi risulta sempre più faticoso riservarmi questi piccoli inganni narcisistici. La felicità per me è una serie di volti che affiorano nella mia vita in momenti differenti. Un bambino di sette anni che non mi assomiglia. L’attimo in cui ho creduto che con Helena sarebbe stato per sempre. Stefan. La foto in cui abbraccio David Bowie. La musica che entra nello stomaco. Il giorno in cui ho incontrato Bill. Alex. I Sonic Youth e i Pixies. Le mie chitarre. La mia libreria. I miei vinili. Le persone che mi insegnano qualcosa di nuovo. Lo sguardo ottimista che mi concedo quando penso al futuro.



Rain, come down, forgive this dirty town
Rain, come down and give this dirty town
A drink of water, a drink of wine.

Dire Straits, Hand in hand





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Mi sono resa conto di non aver pubblicato in questa sezione dal 2009, anche se di fatto sono stata sempre qui e sono sempre più qui. Mi sarebbe piaciuto tornare in un altro modo, con i tre capitoli (ADESSO LO DICO, COSÌ LO FARÒ!) su Brian e Helena che ho in progetto da un po’ di mesi e che credevo di scrivere quando mi sono messa al computer. Fa niente. È uscita questa cosa qua e – oh, ho riscritto questa frase tre volte e fa sempre schifo, la taglio così impara.
Ce l'ho la cosa importante da dire: il titolo è in inglese e ha vinto lui, ma solo perché tradurre le canzoni è impossibile e sbagliato, ecco.
A presto :)

   
 
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