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Autore: Lucy_lionheart    18/11/2012    0 recensioni
Si muoveva alla continua ricerca dell’apertura e, al contempo, emetteva versi striduli che facevano rizzare i peli sulla pelle di lei. Un’altra mossa, più violenta, che fece spostare tutto di una decina di centimetri, e ciò che agitava la busta face capolino da essa con un gemito soddisfatto.
« Cosa diavolo sei. »

Umano e sovrannaturale, su due piani tanto sottili da potersi capovolgere.
Nel battito delle ciglia di un essere mostruoso e di una nuova amica riuscirà Camille a capire che ciò che le manca è ciò che ha lasciato chiuso tra ebano e avorio?
{ A Serena, la mia migliore amica. Grazie per tutto. }
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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« Hai trovato le Rime Petrose? »
« Il signore della biblioteca le sta cercando! »
« Allora vieni, dai, che sennò si fredda il the. »
Camille andò da Lucy, che stava seduta al tavolo più vicino alla grande finestra a vetri del secondo piano, dove si trovavano scaffali e scaffali pieni di classici stranieri molto più vecchi della stessa biblioteca e mangiucchiati dai tarli della metropoli, con una tazza fumante di the ai mirtilli in mano.
Il sole bagnava i capelli ad entrambe, facendo risplendere i riflessi tanto quanto le tazze, che luccicavano come se fatte della più fine porcellana, e i grandi occhiali di Lucy.
« Ci vieni spesso qui? »
« Praticamente ci passo i pomeriggi.»
Confessò, con un ché di timidezza che fece sorridere Camille. Se si metteva da parte quello strano lato caratteriale che aveva assunto vicino alla mandragola, Lucy era una ragazza decisamente dolce.
Erano quasi due ore che le ragazze stavano lì, immerse nel profumo della carta e del the, a leggere della malinconia di Alighieri, e arrivate a quattro pagine di stesura avevano convenuto che una pausa non avrebbe fatto loro male.
 « Ti sembrerò un’impicciona, lo so. »
Iniziò Lucy, facendo distrarre Camille dall’attenta operazione di non versare nemmeno un granello di zucchero lungo il percorso zuccheriera-tazza.
« Penso di aver capito cosa vuoi sapere. »
Rispose la riccia, abbandonando il cucchiaino nella tazzina e osservando lo zucchero cadere lento verso il fondo.
« Non è della decisione che voglio sapere… Ma del motivo per cui non vuoi suonare più. » Lucy pronunciò quest’ultima frase mettendoci tutto il timore che avrebbe dovuto mostrare di fronte alla mandragola. « A casa tua mi è caduto lo sguardo su parecchi premi, certificati e diplomi in pianoforte, tutti con date che non vanno oltre il 2011. E’ strano che tu ora lo rifiuti così totalmente. »
Camille rimase in silenzio, non aprendo le labbra morbide nemmeno per farci passare l’aria. Lo sguardo  si perdeva sulla superficie rossastra del the, che, nel frattempo, aveva smesso di fumare e appannare e i suoi sottili occhiali da lettura.
L’odore era diventato stucchevole, fastidioso come quella domanda così sensata.
« Fino a poco fa il mio sogno era quello di suonare per tutta la vita. Hai presente quelle grandi orchestre, quella schiera di persone vestite elegantemente…? Volevo esserci pure io, lì, a scaldare la soffitta di un teatro con le note del mio piano.
Me lo sognavo tutte le notti e tutti i giorni ad occhi aperti. »
Camille sorrise, ma il suo sorriso era amaro come il vecchio limone che avevano loro servito.
« Poi, però, tutti hanno ben visto di aprirmeli veramente, gli occhi. »
E quelle stesse pupille scivolarono sulla vetrata, su New York, che ruggiva sotto di loro, isolate in quella bolla di malinconia e libri ingialliti.
« Sai quanto guadagna un’orchestrante? Una miseria o qualcosa di più. E sai quanto deve studiare? Tanto, troppo, un mucchio di anni chiusa in conservatorio.
Io ero rafforzata dall’avere tutti quegli attestati appesi in casa, ma non aveva pensato di non essere l’unica. »

Lo ricordava bene, quel giorno.
Ricordava il sorriso quasi compassionevole della sue professoressa di musica, la quale, posato il metronomo, con una dolcezza che si riserva al più sciocco dei bambini, le aveva detto:
“Sei proprio sicura?”
Lei, seppur interdetta, aveva risposto che sì, ne era convinta.
Da lì tutto era cominciato a crollare: crollavano i moduli per il conservatorio, crollavano le sopracciglia di amici e professori, in un’espressione delusa, quando lei diceva che voleva fare la pianista. Crollava la sua fiducia quando sentiva per sbaglio l’insegnante di piano dire a sua madre d’indirizzare la figlia verso qualcosa “di più proficuo”.
Tutto, poi, era finito in misera cenere dopo un piccolo dialogo con sua sorella.
Discutevano spesso, Camille e Jade, nate con quattro anni di differenza, e svariate volte si erano prese a brutte parole, ma avrebbe preferito qualunque insulto rispetto a quello.
La riccia la poteva vedere, ora, contro le vetrate, mentre, seduta sul divano di casa, scandagliava le bollette. Sentiva la sua voce lamentarsi di tutti quei soldi spesi per un hobby e poi udiva la propria, a dir poco risentita, che controbatteva che quello non era uno svago, ma un impegno per il suo futuro.
La ferita che fino allora aveva cercato di chiudere si aprì dall’alto al basso del suo cuore, al ricordo di come Jade aveva spostato gli occhi su di lei, con una faccia di bronzo che il suo cervello aveva fotografato.
“Ancora con questa storia?”
Quattro parole che le avevano bruciato tutta l’aria nei polmoni.
Ma la sorella non si era fermata e, tirando un sospiro di pazienza, aveva continuato:
“Anch’io da piccola volevo fare l’attrice, Camille. Ma la differenza che separa il “desiderare” dal “concretizzare” non è tanto sottile e tu, vista la tua età, avresti dovuto già vederla.”
Quella stessa sera i suoi genitori le parlarono con finta spensieratezza di un college dagli interni candidi e il nome di un medico famoso.
« Ho firmato il modulo. Ho firmato tutti quelli che mi hanno passato, ho detto sempre sì. Quasi tutte facoltà di medicina, niente psicologia, però, lì ce ne sono troppi. »
La voce di Camille era piatta come il silenzio che regnava sovrano attorno a loro. Non si udiva nemmeno il vecchio padrone, forse addormentatosi sulla poltrona rossa che aveva visto all’entrata e doveva fungere solo come decorazione.
« So che se sfiorassi di nuovo il pianoforte, allora ricomincerei. »
« A fare cosa? »
Quella era la prima frase emessa da Lucy dopo il lungo monologo di Camille.
« A suonare. »
Rispose l’altra, meravigliata da una domanda tanto ovvia; ma le labbra di Lucy si piegarono nuovamente in quel sorriso segnato dalla furbizia di migliaia e migliaia di rughe invisibili.
« No, riprenderesti a sognare. »
La gola di Camille si seccò come nell’episodio prima raccontato, ma la causa dell’incendio, quella volta, era ben diversa.
 Avvertiva ardere qualcosa  con chiarezza tra lo stomaco e il cuore e tra il lobo destro e sinistro: era un desiderio che aveva soffocato con violenza.
Capì troppo tardi che non era nessuna tubatura bucata a gocciolare nel suo ormai imbevibile the.
Lucy non disse una parola, ma lasciò che Camille piangesse in silenzio tutte le lacrime che aveva lasciato a stagnare in una laguna marcia dentro di sé.
Quasi non capiva perché quel mare salato stesse traboccando tutto insieme, o meglio, non voleva capirlo. Non voleva ammettere a se stessa quanto Lucy e quel suo sorriso invecchiato avessero ragione.
« Non ti preoccupare per la ricerca, la finisco io. »
Le aveva detto, alla fine, con un sorriso tanto gentile da far interrompere momentaneamente le lacrime di Camille.
« Tanto manca solo il Paradiso, è la parte più facile. »
Camille non disse che per lei quella era proprio la più difficile, bensì accettò e si lasciò accompagnare a casa.
Strusciò gli occhi azzurri più forte contro il fazzoletto che Lucy le aveva dato; ora, guardandola meglio, notò che le loro pupille avevano lo stesso identico colore.
Tal osservazione riuscì, buffamente, a darle quel poco di allegria che bastava per fermare il suo pianto, ma i pensieri, tutto ciò che fino ad allora aveva nascosto, continuavano ad agitarsi in lei anche dopo aver tolto la chiave e acceso le luci del suo appartamento.
Camille procedé a piccoli passi, in silenzio, mentre la luce filtrava dalla finestra del salotto; come se fosse un qualcosa di lontano dal caso, un filo di essa scivolò sui petali della mandragola e sul bordo sottile del pianoforte a coda.
Le  gambe, senza che lei potesse minimamente opporsi, si fermarono proprio di fronte allo strumento. La mandragola, svegliatasi da un sonno annoiato, la fissava con uno sguardo assonnato, ma Camille non aveva occhi che per il leggio.
Su di esso era stato lasciato un quaderno pentagrammato, aperto su di un brano di Debussy nella quale, tra crome e pause, stavano mille granelli di polvere.
A Camille prudevano le mani.

Non l’avrebbe vista nessuno, nessuno sarebbe andato a ricordarle tutta l’inutilità della cosa. Perché lei sapeva che era inutile, totalmente inutile e non producente.
Se lo ripeteva migliaia di volte mentre sfogliava il quaderno alla ricerca di quattro fogli che si ricordava molto bene, gli ultimi quattro che le sue mani avevano toccato.
Li vide subito, piegati in mezzo a Beethoven, l’ultimo strappato in due pezzi, diagonalmente.
Su quella carta sfigurata c’era tutta la rabbia che aveva vissuto.
Aveva iniziato a scrivere quella composizione nel gennaio passato, fermandosi a poche battute dalla fine, quando aveva avuto la lite con sua sorella.
Le note erano state scritte più volte, a matita, marcando i tondi neri e chiudendo le battute con decisione.
Camille si sentì orrendamente colpevole mentre si sedeva sullo sgabello messo di fronte al pianoforte e il suo senso di colpa urlò quando sfiorò con gli indici la base in abete della tastiera. Solo adesso notava che l’avorio era ingiallito.
Si sentiva alla stregua di un’assassina che sceglieva l’arma del delitto, perché ormai le sue mani si erano posizionate spontaneamente, anzi, erano corse sulla tastiera, con la foga di due amanti ricongiuntisi dopo tanto tempo.
Guardò la prima nota: La bemolle, come si ricordava. E si ricordava anche come finire quella cinquina di battute mancanti, ma….
No, non poteva; invece che la musica, nella sua testa non facevano che vorticare le voci di sua sorella, della sua insegnante, dei sui professori, di mamma e di papà.
Ma in quell’uragano di pena e delusione un’altra voce, una tutta nuova, si fece sentire sopra ogni altra: era quella di Lucy.
“ No, riprenderesti a sognare.”
Stavano così le cose? Aveva paura di sognare ancora, di staccare un piede dalla realtà alla quale si era incatenata?
Forse, non lo sapeva. In quel momento, sotto tutta quella coltre di parole, viveva come mai la voglia di suonare.
I piedi si posarono sui pedali, chiuse gli occhi. La mandragola fremeva con l’aria di chi aspetta un bacio.
Le prime crome suonarono, poi le seconde, e anche le semicrome, le minime e le semiminime, alcune percosse leggermente, altre con impetuosità.
I tasti d’avorio ed ebano si abbassavano, inchinandosi alle dita sottili di Camille, regine che vi danzavano sopra.
Presto le note scritte sull’ultimo foglio finirono, ma ne vennero altre, nate spontaneamente dal sangue che le scorreva nelle mani e arrivava dritto dal cuore.
Fu come se non avesse mai smesso di suonare, fu la rinascita di un sogno…
…. E anche la salvezza di un incubo.
Quanto l’ultima nota di perse nel petto di Camille  e nelle mura dell’appartamento, la ragazza aprì gli occhi e, sorpresa, non trovò nessun paio di pupille gialle e verticali a fissarla.
Solo un seme grande quanto il suo pollice.

I vicini, quel giorno, furono ben contenti di sentire nuovamente il suono dolce del piano di Camille dopo tanto tempo, ma preferirono non commentare la discutibile performance canora di chi la stava accompagnando.
                                                                         
























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Omamma, scusate, mi ero dimenticata di aggiornare! Che scema...
Beh, siamo alla fine, il prossimo sarà l'ultimo capitolo!
Spero che qualcuno mi faccia sapere la sua opinione...!

Baci!

_Valkyrie.












   
 
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