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Autore: Hagne    18/11/2012    7 recensioni
Una donna innamorata è capace di tutto, persino di annientare se stessa, ma quando Musa si trova a dover affrontare l'ennesimo tradimento, il suo cuore innamorato non può far più tacere la voce aspra della sua coscienza.
Non quando è il suo stesso corpo ferito a dar voce alla sua pena, a maledire quel tradimento.
Ma le apparenze ingannano, e a volte è necessario scavare più in fondo per trovare la verità, per scoprire che l'amore non è sempre gentile, semplice e onesto, ma che può tradire, ferire, e uccidere.
Una lezione che Musa imparerà a proprie spese, con il sangue e lacrime di chi, in passato, prima di lei, ha sofferto per un amore più tragico del suo.
Genere: Mistero, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Musa, Riven, Saladin, Un po' tutti
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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slòablò

“I'm still trying to figure out how to tell you I was wrong

I can't fill the emptiness inside since you've been gone
So is it you or is it me?
I know I said things that I didn't mean
But you should've known me by now
You should've known me “
[…]
“If you believed
When I said
I'd be better off without you
Then you never really knew me at all
If you believed
When I said
That I wouldn't be thinking about you
You thought you knew the truth but you're wrong
You're all that I need
Just tell me that you still believe “
[…]

I can't undo the things that led us to this place
But I know there's something more to us than our mistakes
So is it you or is it me
I know I'm so blind when we don't agree
But you should've known me by now
You should've known me
Cuz you're all that I want
Don't you even know me at all
You're all that I need
Just tell me that you still believe”
( Belive – Skillet )








Dormire era stato un lusso che Musa non si era potuta concedere in quei mesi, figurarsi svegliarsi riposata, senza dover provare la desolazione di trovare nuove cicatrici, nuove ferite a scalfirle la pelle come il tessuto rattrappito di un vecchio mantello malconcio, eppure la fata si scoprì beatamente indolenzita, con il languore del dormiveglia a solleticarle la voce smorzata dal sonno in un lieve borbottio concitato.
Le venne in risposta un respiro regolare, lento e profondo come un tuffo nel mare aperto, poi la sentì, la pesantezza sui fianchi, una lingua di calore che le cingeva la vita.
Il braccio di qualcuno.
Qualcuno con un corpo molto caldo, bollente, e deliziosamente comodo, questo la fata lo pensò nel trovare il petto sul quale poggiava la guancia estremamente rassicurante.
Un petto morbido, come un maglione di lana calda, soffice come un coperta, ma quando Musa schiuse le ciglia con un lungo sbadiglio si ritrovò a dilatare le pupille nell’accorgersi che quella a contatto con la sua guancia era pelle nuda, pallida e levigata dagli allenamenti che l’avevano resa così comoda per il suo capo dolente.
E non ci fu bisogno di alzare lo sguardo quando  i suoi occhi, che si muovevano  a scatti  per memorizzare ogni particolare, notarono il pettorale destro scolpito e decisamente maschile.
- Riven ? – soffiò incredula, esalando il primo nome che da sveglia pensava, ogni mattina, ma lui non poteva averle permesso di usare il suo torace come cuscino, non l’avrebbe tenuta abbracciata nel sonno, non avrebbe potuto.
Eppure, quando il sibilo basso e familiare la raggiunse  non potè che scattare a sedere, torcendosi tra le lenzuola aggrovigliate attorno alle  gambe prima che un dolore acuto all’orecchio la portasse a coprirlo con una mano, riscoprendolo avvolto da bende, mentre davanti al suo sguardo incredulo Riven abbassava il braccio con il quale l’aveva cinta, lentamente, tirandosi su per poggiarsi contro la testata del letto.
E lo vide, il guizzo di dolore che gli aveva attraversato il viso come una scarica elettrica, scoperchiando nervi tesi e zigomi tirati prima di rilassare la mandibola e ammorbidire il taglio duro delle labbra nel seguire la sua mano coprire l’orecchio.
Poi tutto si fece nero.
Nero come il livido che Musa riscoprì con orrore sul torace di Riven, un ematoma  che gli azzannava metà busto, come il morso di uno squalo che pareva avergli scoperto carne viva quando la fata si accorse, con orrore, della pelle tesa ed escoriata poco sotto il pettorale, lì dove lei aveva poggiato la guancia per tutta la notte.
- Mi dispiace – esalò desolata, allungando una mano che ritirò subito nel vederlo coprire la ferita con il lenzuolo, con indolenza, come se non lo turbasse vederlo lì, ma  lei si, la turbò la vista, la turbò il pensiero di sapere quale fosse stata la causa di quell’escoriazione, dell’orecchio che sentiva pulsare sotto le dita.
- Non piangere.
Musa si morse le labbra per non dare un suono al proprio dolore, ma il lamento che le sfuggì dalla gola intensificò le lacrime che le inondavano gli occhi mentre le sue mani si stringevano sull’orecchio che Riven le aveva morso, strappato via, mentre l’orrore di sapersi responsabile della ferita dello specialista le incendiava la gola di nuove urla.
- Ti ho detto di non piangere – la rimbeccò acido, allungando una mano per tapparle la bocca, o forse, per farla stendere di nuovo, ma quando le dita callose le arpionarono il fianco destro, Musa si trovò con le mani pressate sulla bocca e il mento poggiato sulla spalla destra di Riven, le braccia tornate sulla sua schiena, ma in un abbraccio morbido, delicato come se stesse stringendo qualcosa di dolce, di tenero, di suo.
Il calore di quel torace  fu un balsamo per in mulinello d’ansia e angoscia che, come una bolla di sapone, esplose sotto i suoi occhi sgranati per lo stupore di quell’abbraccio, e della mano corsa ad accarezzarle i capelli.
Inumidì la spalla sulla quale poggiava il mento con le proprie lacrime, seguendo le scie umide rigargli la schiena come una finestra picchiettata dalla pioggia battente, e quando ne seguì il contorno con l’indice si ritrovò a rilasciare un singhiozzo strozzato.
- Mi dispiace – rantolò affannata, stringendolo con tanta forza da sentire i muscoli contrarsi sotto le sue mani, tanto che Musa potè sentire le sue stesse carni tendersi in uno spasmo incredulo, desolato, come il pianto che sfogava sulla spalla dell’uomo.
- Mi dispiace – singhiozzò oramai senza forze, incapace di fare altro se non scusarsi con lui, con se stessa, per dove erano arrivati.
Perché avevano toccato il fondo entrambi, lei, con quel livido che accarezzava con i polpastrelli, nella speranza che potessero cancellarne l’ombra violacea, lui, con quell’orecchio martoriato che pulsava come la ferita aperta mai chiusasi del tutto.
 Un altro singhiozzo portò via con sé l’ennesima preghiera, l’ennesima supplica, ma quando la stanchezza la agguantò Musa si abbandonò tra quelle braccia con l’arrendevolezza di una bambina stanca di dover cercare un amore che non trovava mai, ma che la fata, dopo tanto penare, riuscì a trovare.
E lo trovò, quell’amore che era sempre stata la sua condanna e la sua maledizione.
Lo trovò nei baci tiepidi e leggeri che Riven le depositava sul capo, uno dopo l’altro, tanto vicini e impalpabili da sembrare le dita di un neonato che tastavano la vita, in cerca di un posto per sè, piccoli e fuggevoli tocchi che sembravano colmare i buchi che Riven aveva nel petto, nella voce, in quello sguardo che sembrò gonfiarsi di emozione, come una vela immobile soffiata dal vento della ragione, della consapevolezza di aver trovato la via di casa.
- Grazie.
Un bisbiglio.
Un sussurro forzato, dettato più dall’incapacità di esprimere l’opprimente sensazione di calore al petto per dargli un tono più dolce, meno aspro, ma non c’era mai stato nulla di dolce in quell’uomo che l’abbracciava come se stesse stringendo la sua unica ragione vita.
Non ve ne fu nelle mani rozze che le accarezzavano i capelli, non ve ne fu nel bacio che Riven le rubò assieme al respiro, strofinano il pollice ruvido sulle guance umide, un polpastrello umido del velo impalpabile che rendeva quegli occhi viola tremolanti come il bagliore incerto di una candela accesa dopo tanto tempo.
E Musa sentì il petto gonfiarsi di commozione, di amore per quello sguardo che la ringraziava di aver creduto in lui, di aver creduto in loro, e in qualcosa che non sarebbe mai nato senza la sua perseveranza, senza la sua compassione.
Qualcosa che Riven aveva sempre calpestato e fatto finta di non vedere fino a sbatterci contro e scivolarci sopra, trovandosi lì, dove sapeva, sarebbe sempre dovuto essere.
Con quella voce gentile a mormorare il suo nome, e quelle mani di bambina ad incorniciare il suo cuore con dita morbide e calde che sapevano d’amore.
Sapevano di Musa.
Sapevano di casa.





°°°
     






- Siamo pronti.
Musa chiuse gli occhi con un lungo respiro, abbozzando un passo che fu costretta a troncare quando un braccio la tirò indietro, facendola cozzare contro un petto che riscoprì ugualmente caldo, ma meno rassicurante di quella mattina.
Perché c’era tensione nel torace contratto contro le sue scapole, c’era paura, terrore, e un angoscioso senso di smarrimento che la fata raccolse tra i palmi nel rigirarsi tra quelle braccia e abbozzare un sorriso gentile.
- Andrà bene – lo rassicurò, ma persino la sua voce tradiva una nota d’ansia, di insicurezza.
Riven guardò i suoi occhi blu, i lunghi capelli acconciati in onde sinuose, e il vestito di seta porpora, un po’ rovinato sulle maniche, spruzzato sull’orlo della gonna da chiazze sulle quali  né le Winx, né gli specialisti avevano voluto soffermarsi.
Non ne avevano avuto il coraggio, neanche Musa quando lo aveva estratto dal baule nel quale Salzar riponeva altri indumenti di Arya.
Le andava un po’ largo sui fianchi, ma fatta eccezione per l’innocenza dei suoi lineamenti, nulla avrebbe potuto renderla meno somigliante alla fata veggente.
Erano identiche, e ciò sarebbe servito a rafforzare l’incantesimo che avrebbe dovuto risvegliare il passato del quale quelle pareti conservavano il ricordo.
Un passato che però Musa cominciava a temere, per paura di non trovarvi le risposte che cercava, non quelle che avrebbero potuto salvare lei e Salazar.
- Musa?
La voce di Bloom le giunse lontana come l’eco in una caverna, ma la fata sapeva che una volta entrata nel cerchio magico tracciato dallo stregone avrebbe perso cognizione di ogni cosa, persino di se stessa, per ospitare  nel suo corpo il ricordo di Arya, così da  riviverne gli ultimi momenti.
Strinse il diario nascosto sotto le vesti, tremolando un po’ quando si trovò con la punta delle scarpe a contatto con la scia di sale, ma ancor prima di varcare il confine tra sogno e realtà si voltò a guardare Riven, e non potè che sorridergli per rassicurare entrambi.
Lei, e quel cuore che sapeva, le sarebbe scoppiato nel petto se avesse continuato a battere con quella ferocia.
E l’uomo dallo sguardo smarrito e perso che le chiedeva, la pregava di non lasciarlo solo, non dopo aver compreso e accettato se stesso e l’orrore delle sua anima per lei, solo per lei.
- Qualunque cosa accada – cominciò con voce insicura, trovando nella posa rigida di quelle spalle ampie la sua stessa agitazione –  continuerò a proteggerlo, a difenderlo, con o senza il tuo consenso – concluse con voce più ferma, quasi sprezzante, e quando lo vide tendere il viso in un guizzo di denti bianchi, nell’imitazione di quella che solo lei, poteva ritenere un sorriso, non potè che deglutire e ringraziarlo silenziosamente prima di voltarsi e compiere un passo che cadde nel vuoto assieme al suo  strillo.
L’orrore la agguantò come una lancia conficcata nel ventre che qualcuno avvitava dentro il suo petto come se volesse cavarle fuori il cuore e i polmoni, perché non ci fu più aria alla quale attingere quando la sua bocca si fece asciutta, secca e arida più degli occhi che presero a bruciarle dolorosamente.
Ma era la sensazione di essere schiacciata, di avere una mano che la rigettava a terra più e più volte, quasi per mettere alla prova la tempra del suo corpo e del suo spirito a farla strillare, e quando il presentimento di stare per andare in frantumi la costrinse a lanciare l’ennesimo urlo disperato si trovò improvvisamente a correre su gambe che sentiva leggere, tanto leggere che le sembrava di volare.
E non ci fu più dolore al petto, men che meno agli occhi che schiuse per osservare la figura ammantata di nero che sostava sotto la statua del gagoyle e verso la quale tendeva uno  sguardo innamorato.
Si riscoprì a sorridere senza che potesse impedirlo, come se non ne fosse cosciente, ma sapeva di starlo facendo, che Arya stava sorridendo con la sua bocca, e l’impressione di essere lei, quella rinchiusa nel corpo della fata veggente, le diede uno strano senso di ansia e angoscia.
Abituarsi ai cambi d’umore di Arya le risultò difficile, perché sentiva la paura e l’ansia artigliarle la voce, ma poi tornava a sorridere quando il profilo aguzzo di Salazar si faceva più chiaro, meno sfocato, fino a quando Arya non si fermò a pochi passi da lui, ansimando per la corsa.
- Sei qui – mormorò senza fiato, schiudendo le labbra nell’ennesimo sorriso delicato, e per quanto Musa fosse influenzata dai sentimenti della fata si accorse con un sussulto interno che c’era qualcosa che non andava nell’uomo che le stava di fronte.
Non solo perché lo riscoprì meno umano di quanto avesse pensato, sarebbe stato da vivo, ma perché lo sguardo che le puntò addosso, a lei, ad Arya, parve velarsi di calore per un attimo, un misero attimo prima che entrambe sussultassero nel vedere quegli stessi occhi stringersi in una striscia di odio puro.
- Salazar ? – si trovò a mormorare, sorpresa, retrocedendo quando lo stregone frusciò dall’ombra della statua per mostrarsi in  tutta la sua altera figura, e Musa lo trovò ancora più alto, più feroce, più cattivo di ogni suo incubo.
Perché non c’era niente di buono in quella bocca schiusa in un ringhio, non nell’ombra cupa di occhi che sembravano bulbi iniettati di sangue viscoso, non quella voce che lei non aveva mai sentito così fredda e tagliente.
- Sapevo che prima o poi sarebbe successo – soffiò lui con voce strascicata, sibilando nelle sue vesti che ondeggiavano ipnotiche sulle spalle larghe e piazzate – solo che non pensavo sarebbe successo così presto – continuò con la voce sempre più flebile, come se stesse pensando ad alta voce.
Musa provò orrore nel vedere quel movimento, quello strisciare grottesco che lo faceva sembrare un rettile, ma si riscoprì impossibilitata a non farsi assalire dalla sorpresa di Arya, solo sorpresa, non paura, non terrore, semplice stupore.
Disorientata come poteva esserlo una bambina alla quale si cerca di impartire una lezione troppo dura da poter incassare con un sorriso, e Musa lo sentì scivolare via solo dal suo, di  volto,  quando la vide tendere una mano verso quell’espressione contratta in una smorfia disgustata.
E l’orrore, il terrore di vedere le labbra di Salazar arricciarsi assieme alla pelle tesa delle guance le inviò una scarica di paura per se stessa, per Arya e per quella mano che Musa fissò con occhi sgranati prima di urlare alla fata di scappare, di allontanarsi da lui.
Ma l’innocenza che permeava anche il suo, di cuore, venne uccisa dalla fitta alla schiena che fece gemere lei e urlare Arya quando  ricadde carponi al suolo dopo l’impatto con una colonna della sala.
Trovò difficile rimettersi in piedi, perché il corpo di Arya era pesante, era più gracile del suo, meno avvezzo al dolore, e provò a far forza a se stesse e alla fata, incitandola, aiutandola e aiutandosi a rimettersi in piedi, un po’ traballante sulle gambe che tremavano per il contraccolpo.
Eppure c’era ancora innocenza nel suo sguardo, lo sentiva, lo vedeva da dentro, lo percepiva scorrere nel cervello della fata assieme alla sorpresa e questa volta, alla preoccupazione per ciò che aveva portato Salzar a colpirla, a farle del male.
Poi li notò anche lei, i lividi sugli avambracci, lividi che lei non aveva fino a poco fa, ma che Arya osservò con un sospiro pesante prima di alzare lo sguardo e tendere le braccia con l’ennesimo sorriso.
Un altro ringhio, e il dolore le bruciò il cervello per quanto l’impatto con il terreno fu doloroso, agghiacciante come lo sguardo calmo e gentile che Arya rivolgeva al soffitto, distesa sul pavimento a gambe divaricate e con un piccolo sorriso triste in volto.
Ma non avrebbe dovuto sorridere, sarebbe dovuto scappare, fuggire da lui e da quello sguardo cupo e feroce che la seguiva in ogni caduta, dopo ogni impatto e crollo contro un piedistallo, la scalinata, la stessa statua del Gargoyle.
Aveva la bocca piena di sangue, un fiotto che sputò a terra prima di rimettersi in piedi e tornare a tendere le braccia a quell’uomo mostruoso che la sovrastava come l’ombra affamata di una bestia crudele.
La paura era scomparsa, l’orrore ucciso, l’incredulità ghiacciata, la speranza dilaniata da quello sguardo cattivo e dalle sue braccia tese ricoperte di graffi e ferite.
Arya non aveva parlato, non aveva detto una parola, si era limitata a cadere e a rialzarsi ogni volta, colpo dopo colpo, trovandosi con il fiato mozzo ma con quel sorriso in viso che Musa non riuscì ad imitare, non volle, non potè.
Perché anche lei avrebbe permesso a Riven di ucciderla, di farle del male, di poter disporre della sua vita, lo aveva già fatto, ma lui aveva capito, l’aveva accettata, e si era fermato.
 Salzar non lo fece, non ci provò neanche.
- Dalbhach.
Morire non faceva male, questo Musa lo pensò con l’ultimo sprazzo di lucidità prima di lasciare che la sua mano si allungasse sul collo dello stregone, arpionandosi all’amuleto che Arya trascinò nella caduta del  braccio lungo il fianco prima che un rigurgito di sangue le scuotesse il petto in uno spasmo doloroso.
Un singhiozzo che puntellò la palpebra destra di Salazar di tre sfere scarlatte, poco lontano dalle ciglia biondissime che Musa vide sbattere lentamente, come a rallentatore, su occhi che riscoprì velarsi di dolore, di comprensione.
- Arya.
Sorrise, senza fiato, racimolando la forza che serbava per respirare per accarezzargli il viso con l’indice, uno sforzo che le costò un ultimo doloroso battito, portando via con sé il suo ansito e il fruscio raccapricciante con il quale lo stregone ritirò il braccio dal petto della fata.
- Musa!
Nel sentire il suo nome, il suo vero nome, l’ansia patita fino a quel momento la spinse a rilasciare il primo singhiozzo, e quando un braccio la tirò su con forza, il dolore di quel bruciore al petto la fece strillare dall’orrore mentre Riven provava a bloccarle i polsi che agitava davanti al viso con strilli e suppliche angosciate.
- No! – strepitò isterica, sentendo ancora affondato nel petto quel braccio freddo e impietoso che l’aveva trapassata da parte a parte.
E l’orrore di quell’omicidio le strappò l’ennesimo singulto, l’ennesimo ansito disperato mentre gli occhi le bruciavano per la consapevolezza di aver perduto tutto in un  battito di ciglia.
- È finita.
Musa riuscì a concentrarsi sulla voce di Riven conto l’orecchio, sul tono dolce e gentile delle sue corde vocali, sulla familiarità della pelle calda sotto i polpastrelli, non fredda, non gelida, solo calda, un tepore che la portò a rilassarsi contro il petto dello specialista con un singhiozzo spezzato.
-
È finita – le ripetè gentile contro la tempia, passando le labbra sulle guance per raccogliere le lacrime che le rigavano il viso, un velo impalpabile attraverso il quale Musa lo vide.
Vuoto.
La fata non riuscì a leggere altro nello sguardo vitreo di Salazar, solo vuoto, un vuoto incolmabile, silenzioso e ghiacciato come la patina umida che gli imperlava le ciglia.
E avrebbe voluto abbracciarlo, assicurargli che avrebbero sistemato tutto, ma non c’era più nulla da rimettere in sesto.
Perché lo avevano visto tutti attraverso gli occhi di Musa, di Arya.
Un’uccisione veloce e indolore.
Veloce e silenziosa come il morso di un aspide, ma un’uccisione.
Impietosa.
Crudele.
Violenta come lo sguardo che Salazar rivolse al vuoto, feroce come uno sparo, rabbioso come l’urlo nero di una bestia errante, e Musa avrebbe voluto confortare quell’anima disperata, avrebbe voluto cingergli il capo tra le braccia e consolarlo, ma la disperazione aveva assalito anche lei, il suo cuore, e quella mano che aveva teso al vuoto, inconsciamente, e che fu costretta a ritirare quando uno scoppio sulle loro teste costrinse Riven a trovare riparo sotto l’arcata.
Il polveroso soffitto piovve giù in briciole e ammassi rocciosi che avrebbero potuto schiacciarli se i riflessi degli specialisti non li avessero avvisati anticipatamente della loro caduta.
Eppure c’era chi a spostarsi non c’era riuscito, non ci aveva neanche provato.
E quando Musa schiuse le palpebre  si scoprì con un groppo in gola nel notare la figura immobile dello stregone, fermo in mezzo alla desolazione del suo maniero, ferito da piccole schegge che gli tagliarono la pelle tenera delle guance, una dopo l’altra, causando nella fata l’ennesimo ansito disperato.
Poi lo seguì anche lei, lo sguardo di Salazar, perso nel vuoto, nell’immensità di quel cielo che Musa non trovò più  buio e tenebroso, denso come una cappa di fumo, ma luminoso, puntellato di enormi scintille scarlatte che se fecero tremare lei per la paura, portarono Bloom e Sky a lanciare, in un richiamo, i nomi dei loro genitori.
Perché erano i sovrani di Domino ed Eraklyon a guardarli dall’alto delle loro navi corazzate, loro, e il numeroso esercito che un uomo canuto guidava con lo sguardo impietoso di un dio vendicatore.
Il mago dal sorriso osceno che la fece trasalire, lei e quel cuore che le sussultò in petto quando, altalenando lo sguardo dal preside di Fonterossa al Fantasma immobile, perso nel suo dolore,  comprese l’orrore di quanto stava per accadere, il terrore di vedere piccole scintille dorate pulsare nel cielo nero come tagli nel vuoto, minuscoli raggi di magia che avrebbero ucciso, distrutto Salazar.
Perché Musa sapeva che lui non avrebbe fatto nulla per difendersi, non avrebbe lottato, ma si sarebbe arreso, semplicemente, lasciandosi morire come nel più tragico dei finali.
 Un finale al quale però lei non volle assistere, non potè, neanche se la consapevolezza di non poterlo più aiutare le segnasse lo sguardo di amarezza.
Ma lì di fronte a lei vi era comunque un uomo, per quanto assassino, che l’aveva difesa, protetta, e al quale inconsciamente si era legata.
Non perché era destinata a farlo, ma perché aveva voluto, aveva desiderato fare parte della sua vita, per quanto miserevole e triste.
E quando Musa scivolò dalle braccia di Riven seppe di stare facendo la cosa più giusta, per se stessa, e per quella donna che aveva teso le braccia all’uomo persino nella propria morte.
Lo schianto alzò fuliggine, schegge di marmo e persino schizzi di sangue, ma quando il polverone si diradò, sospinto da un piccolo spostamento d’aria, Musa bloccò il battito flemmatico delle sue ali, alzando lo sguardo da terra con un gesto lento e morbido mentre il campo di energia che aveva eretto su di lei tossicchiava un po’ per il contraccolpo.
Ma non si mosse da lì, tenne le braccia piantate ai lati della testa e lo sguardo altero e cattivo di chi di arrendersi  non ne aveva alcuna intenzione, anche quando Saladin la vide e la condannò con lo sguardo ad un futuro che prometteva morte e dolore.
Per lei, e per lo stregone che stava proteggendo, che, nonostante tutto, avrebbe sempre difeso, a costo di mostrare cosa avrebbe potuto fare, pur di saperlo al sicuro, al prezzo di barattare per la vita di una creatura già morta la lordura di quell’anima nera che ora la portava a ringhiare come la più feroce delle belve.
Selvaggia e crudele come Musa sapeva, sarebbe potuta diventare.
Come era diventata.
- Perché?
Fu un sussurro quello di Salazar, simile a quelli che la fata rammentava, i lamenti disperati di chi non crede di meritare nulla ma che continua, inutilmente, a ricercare una pace che non gli era dovuta, che non gli era stata concessa.
Ma quella volta le parve ancora più fragile, flebile come il richiamo di un bambino che non capisce ma che vorrebbe farlo pur di comprendere il significato delle proprie azioni, di quelle degli altri, e Musa non potè che accogliere quell’ennesima debolezza con un sorriso gentile.
Come quelli di Arya.
Come quelli di chi aveva amato con innocenza e che continuava a farlo, riscoprendo lì dove non vi era altro che lordura la purezza di un’anima che desiderava solo essere amata, compresa, accettata.
E lei lo aveva accetto da tempo.
La sua bassezza.
La grottesca ricerca di piacere nel dolore altrui.
Ma anche la prova che l’amore poteva avere delle sfumature un po’ meno confortanti, meno dolci ma pur sempre sfumature di un sentimento che ognuno esprimeva secondo le proprie possibilità.
E quelle di Salazar erano state poche, se non inesistenti.
- Perché gli amici non si abbandonano mai – confessò con la voce resa un po’ roca dalla magia che stava incanalando nelle sue corde vocali quando vide nuove scintille brillare nel buio del cielo – e per quanto la cosa continui a risultarti impossibile da credere, perché voglio aiutarti, semplicemente.
 L’onda d’urto fu devastante, ma quando le schegge di magia si schiantarono contro il muro sonico che Musa aveva eretto, l’ennesimo tentativo di far del male al Fantasma andò a vuoto, così come i precedenti.
Perché più i loro attacchi si facevano  veloci, più la fata riempiva la sua gola di magia, di energia che espelleva dal corpo sotto forma di barriere invisibili che si accartocciavano sulle navi come gli artigli di una bestia, e quando Musa seguì l’onda con il proprio corpo, lo scoppio di un motore e di alcune navicelle  causate dall’impatto contro una massa di materia invisibile portò via assieme alle maledizioni di Saladin il sorriso di vittoria della guardiana.
Un sorriso macchiato di sangue, dal rivolo che Musa sentì scendere  dalla narice e picchiettare con un suono raccapricciante il suolo quando le navi fecero pressione sul suo muro, costringendola a flettere le gambe per mantenere la sua posizione, richiamando altre onde da abbattere come una mannaia sulle navi da guerra.
E per quanto il suo potere fosse devastante, per quanto fluisse docilmente nell’aria sotto i suoi comandi, lei era sempre sola, era sempre una ragazza, benché fata, sola contro un’armata magica che prese a cozzare con più ferocia sulla lastra di magia che li proteggeva tutti.
Quando la terra le si sbriciolò sotto i piedi Musa rischiò di perdere l’equilibrio, ma qualcosa riuscì a reggerla prima che il cratere apertosi sotto di lei le falciasse le gambe come un colpo di frusta.
Il braccio che non era mai stato tanto dolce, tanto presente come in quel momento, la presa ferrea e confortevole di un uomo che ora si trovava al suo fianco, con la spada tesa in aria e il fisico piantato a terra cosicchè da reggere entrambi in ogni caduta, dopo ogni schianto.
Lo scoppio alla sua destra la costrinse a distogliere l’attenzione dalle navi, e quando Musa vide Aisha volare verso l’entrata della sala capì che oltre alle navi, Saladin aveva richiesto l’aiuto di rinforzi da terra, e quando Faragonda sbucò dal passaggio la sorpresa la costrinse ad aggrapparsi al braccio di Riven per incassare l’ennesimo colpo contro il muro sonico.
- A sinistra! – gridò Tecna nell’avventarsi contro un manipolo di specialisti filtrati dalle immense finestre, avvisando Bloom di difendere il fianco sinistro, ma anche quando si chiusero in cerchio, la netta minoranza numerica le rese prede facili di quel dispiegamento di forze.
- Dobbiamo andarcene di qui – le avvisò Flora con voce soffocata dall’ansia, ma quando Musa tornò a fissare in alto sentì l’orrore ghiacciarle il sangue nelle vene.
Perché le navi erano riuscite a rimpicciolire il suo muro, a renderlo meno efficace con l’ausilio della spada di Oritel e della sua scia magica che fendeva squarci, ma fu l’assenza del mago che la fata fronteggiava con arroganza a farla sbiancare.
L’uomo che riscoprì ad un soffio da lei prima di sentire il bastone dorato accostarsi al ventre e rilasciare una scarica elettrica che la sbalzò via dalle braccia di Riven.
L’impatto fu doloroso, ma fu la mano con la quale qualcuno le schiacciò il viso a terra a  farla strillare dal dolore mentre Codatorta le torceva le braccia dietro la schiena per ammanettarle i polsi.
- Musa!
- Non così in fretta Riven! Con te farò i conti dopo! – lo blandì Saladin con asprezza, invitando due specialisti ad immobilizzare l’uomo che lanciava occhiate furiose all’insegnante che teneva Musa inchiodata a terra, e quando Oritel ed Erendon fecero la loro entrata assieme alle proprie guardie fu il turno di Bloom e di Sky quello di avventarsi sui genitori con la richiesta di rilasciare la fata.
Ma persino il re di Domino non potè che negare con il capo e pregare la figlia di essere ragionevole.
- Ascolta tuo padre, giovane fata. E cerca di non fare più danni di quelli che avete già fatto.
Riven lanciò un ringhio frustrato quando i due specialisti lo buttarono in ginocchio per impedirgli di correre dalla fata verso la quale Saladin avanzava con passo marziale, fermandosi con le sue scarpe a contatto con la bocca che Musa raggrumò in un ringhio basso prima di sgranare gli occhi nel sentire il bastone pungolarle con forza la sua ala nera.
- Ecco la prova che cercavate – inziò austero, abbracciando con lo sguardo le espressioni cupe degli altri ex membri della Compagnia della Luce – ecco cosa succede a chi viene rubata l’anima da Salazar.
- Lui non ha fatto un bel niente – sputò sprezzante Musa, ritrovandosi a singhiozzare un gemito quando il mago la colpì ferocemente al volto, facendole sanguinare una tempia.
E quando Saladin percepì un movimento alla sua destra fu abile nel congelare il Fantasma scattato nella sua direzione, la bocca schiusa in un ruggito che si limitò a covare nel petto assieme al suo rancore.
- Allora è vero – esalò Oritel con orrore, stringendosi la figlia al fianco quando sentì gli occhi ametista dello stregone puntarsi con ferocia sul suo volto.
- Sei vivo – continuò  Erendor, ma nella sua voce c’era solo rabbia, odio, e l’orrore di chi davanti a sé riscopre il male del mondo.   
- Vedo che siete tutti felici di rivedermi.
Gelo.
Nessuno di loro potè contenere il ribrezzo nel sentire la voce bassa e flautata dello stregone, nel riconoscere quella scia di malvagità e cattiveria che gli velava lo sguardo, ma il ricordo si infranse quando Salazar tornò a fissare Musa, addolcendo il taglio affilato degli occhi in modo quasi impercettibile.
Ma Saladin lo riconobbe, quel battito di ciglia morbido e delicato, un gesto umano, troppo umano, familiare, e il rancore gli fece prudere le mani che strinse attorno al bastone per sfogare la sua rabbia sulla causa di quel cambiamento, un colpo che non la raggiunse quando lo stregone si tese in avanti con la preghiera di non farle del male, di non ferirla.
E Musa non potè che ricambiare quello sguardo supplice con una patina di sofferenza, dimenandosi nella presa che Codatorta dovette rafforzare quando la fata provò a fuggire via.
- Non fatele del male. Vi prego.
Il sorriso nato sul viso del mago fu raccapricciante, abominevole come il parto innaturale di qualcosa che non sarebbe dovuto sembrare tanto sbagliato, tanto malvagio, e Musa non potè che azzannare l’aria per allontanare la mano che le chiudeva la bocca per dire la sua, di verità.
Quella che non aveva avuto il tempo di confessare alle sue stesse amiche, a Riven, ma che strillò con tutto il fiato in gola.
- Siete stato voi a strapparmi l’ala, non Salazar. Siete voi  il mostro qui! – strepitò furibonda, torcendo il collo per guardare le espressioni ghiacciate delle amiche, e  quando incrociò gli occhi di Riven vide l’orrore, la rabbia divorare il viola cupo dello sguardo che si fece nero.
Quando Saladin si voltò per zittirla con l’ennesimo colpo il dolore al fianco lo costrinse ad inclinarsi in avanti, ma Riven ,tornato in piedi dopo averlo scostato bruscamente con la testa lo colpì ancora, calciando il viso del suo mentore con rabbia, con ferocia, allontanando i due specialisti corsi a fermarlo ancora con l’ennesima testata.
Sky non potè che correre in suo aiuto quando vide Saladin allungare il proprio bastone per attaccarlo, e quando gli specialisti e le Winx ripresero a far valere le proprie ragioni, Musa colse l’occasione per mordere la mano di Codatorta e fuggire dalla sua presa.
Corse tra gli specialisti che si azzuffavano tra loro, abbassandosi quando una spada rischiò di tranciarle la testa di netto, ma fu abbastanza accorta da gettarsi a terra e rotolare fino al fianco di Salazar per liberarlo dalla magia benché avesse ancora i polsi incatenati.
E quando l’ebbe davanti, sempre ferita, ma con quello sguardo gentile, lo stregone non potè che abbozzare un ghigno e poggiarle una mano sulla guancia con un che di nostalgico.
Quando Musa capì il perché di quel gesto, il ringraziamento taciuto in quello sguardo ferito ma che sapeva divenire dolce e tenero, quando era su di lei, non potè che scuotere la testa e abbozzare a sua volta lo stesso ghigno.
- Non dovresti mai sottovalutare la testardaggine di una donna innamorata.
Si sorrisero a vicenda, complici, una complicità che qualcuno trovò oscena, raccapricciante, un’intesa che Saladin fagocitò nelle iridi tinte di magia, di odio verso quel passato che tornava a ripresentarsi e a chiedere il conto delle sue azioni.
Perché ciò che aveva fatto era la cosa più giusta, la cosa più saggia, l’atto di chi crede in un bene supremo che talvolta l’onore e la giustizia tende a dimenticare.
Riven fece appena in tempo a tornare in piedi e sputare sangue prima di vedere il vecchio alzare il bastone e puntarlo contro la fata alla quale Salazar accarezzava una guancia, e il panico lo sommerse, rese la sua voce più stridula, più acuta di ogni strillo e grido disperato, un urlo che Musa udì a stento prima di percepire il sibilo poco lontano dall’orecchio.
E quando il suo corpo venne gettato malamente contro la parete opposta il silenzio calò tra di loro, seguito dal tonfo che la fata emise nel rotolare a terra senza più muoversi, riversa al suolo con le gambe divaricate e il viso coperto dai capelli.
Immobile.     
- M-Musa – biasciò Tecna con voce incolore, ondeggiando su se stessa prima di zoppicare in contro alla schiena ferita dell’amica, verso quelle ali rigide abbandonate al suolo come steli di fiori strappati.
Bloom sentì la bocca invasa dalla bile quando persino al suo richiamo la fata non le rispose, e quando lanciò uno sguardo disperato a suo padre Oritel non potè che fissare la povera ragazza prima di puntare sul mago uno sguardo truce e funesto.
- Cosa hai fatto! È solo una bambina !– lo rimproverò aspro, avanzando verso il vecchio compagno d’armi con passo iroso – eravamo d’accordo che non le avresti fatto del male!
Saladin tornò in piedi con un sorriso sprezzante, spolverandosi il mantello con un sufficienza, calmo e pacato come chi sa di non avere colpe, chi sa di aver fatto del bene, di farlo sempre, ma quando sentì il lieve gemito di dolore tornò a fissare la schiena della fata con rinnovata rabbia, percependo la follia bruciare ogni nervo sano rimasto nel suo corpo quando Musa allungò le gambe con un sospiro soffocato.
- Musa ?
La fata schiuse le palpebre con stanchezza, emettendo un piccolo singhiozzo, ma il dolore era tanto forte da non permetterle di alzarsi, o di voltarsi per rassicurare gli amici della sua incolumità, non ne ebbe la forza né la voglia, perché i suoi occhi erano puntati sul diario aperto a pochi centimetri da lei, sfuggitole dal corpetto a seguito del contraccolpo contro la parete.
Un diario che fissò con insistenza, sussultando internamente nel sentire una voce di donna cominciare a sibilare nell’aria, a sovrastare le voci dei compagni alle spalle, a lanciare un'ombra sul suo viso assieme al buio cupo dell’eclissi.
E quando delle scritte infuocate cominciarono a sporcare  le pagine che lei aveva trovato sempre bianche, pulite, sentì la mente abbandonare il corpo per gettarsi in quelle lettere che una mano invisibile trascriveva.
Il racconto di una storia che Saladin aveva tentato di storpiare fino alla fine, uccidendo quella verità che tinse le pupille di Musa di nuova comprensione, e di incredulità.
Tecna smise di avanzare quando udì un sussurro provenire dalla fata distesa a terra, un mormorio concitato che Musa ripetè come una litania nel girarsi su un fianco, lasciando che alcune ciocche le adombrassero il viso mentre la sua bocca continuava a sillabare quella parola, a ripetere la prova che aveva sempre cercato, guardando il responsabile di tutto quello.
Della morte di Arya.
Dell’inspiegabile uccisione alla quale Musa aveva assistito.
Del tradimento che Arya aveva subito e visto risplendere nelle iridi dell’amato poco prima di spirare, in quella pupilla nera attraverso la quale non aveva visto il suo riflesso, ma il viso aguzzo e rigido dell’uomo che realmente l’aveva tradita.
L’uomo che Musa fissò con rabbia, con odio, sillabando quella parola che Saladin registrò con sgomento prima di sbiancare e osservare la fata con nuova ansia, con terrore.
Avvelenato.
La risata di Saladin risuonò storpiata, isterica e nervosa per l’intera sala, facendo retrocedere i suoi sottoposti, persino Oritel che nel vecchio dal viso grinzoso e dalla pupilla dilata non riconobbe l’antico amico e compagno.
- Saladin? – lo richiamò Faragonda con tono cupo, non ricevendo risposta dal mago che continuava a ridere di cuore, alzando il viso per guardare l’eclissi, per trovare una via di fuga ad una condanna che quella piccola fata continuava a sussurrare, ancora e ancora, facendo crescere in lui l’ansia di essere scoperto, di non essere capito.
Di essere creduto pazzo.
E Saladin sapeva di non esserlo mai stato. Non quando aveva soffocato l’odio per sua sorella e per quell’amore malsano.
Non quando aveva deciso di proteggerli tutti da quell’unione sacrilega.
Non era pazzo, non lo era mai stato, ma lo avrebbero creduto tale se l’avessero udito, se quella lurida ragazzina fosse riuscita a farsi capire, e lui non poteva permetterlo, non arrivati a quel punto.
- Fermo!
La scarica elettrica sibilò in mezzo a loro come una spada lanciata nel vuoto, una scia metallica che Riven osservò con terrore quando ne intuì la direzione, e Musa non avrebbe potuto difendersi da quello, non avrebbe mai potuto senza l’aiuto di qualcuno.
Un aiuto che la fata ebbe.
L’aiuto del vento, e di una scia bluastra che la sovrastò come la più algida delle divinità prima che dall’inconsistente nube cerulea apparisse un viso di donna dagli occhi silenti, i lunghi capelli blu a fluttuarle attorno come una coperta mentre la scarica veniva risucchiata dalla mano che aveva teso in avanti.
E quando l’apparizione abbandonò il braccio lungo il fianco, alzando il mento con lentezza, la donna puntò lo sguardo evanescente sull’uomo vecchio e tremante che cadde carponi con il suo nome incastrato in gola.
- Arya.
L’incredulità dipinta sui loro volti fu nulla se paragonata all’orrore su quello di Saladin, lo stupore di riconoscere nello spirito magico chi lui un tempo aveva tradito.
Ma c’era chi si era trovato a cancellare il proprio stupore per far spazio alla gioia di quella visione, alla commozione di poter rivedere un viso che Salazar aveva amato con tutto se stesso, fino a morirne.
- Arya.
La fata distolse lo sguardo dal fratello nell’udire il soffio fuggevole ai suoi piedi, e quando Musa riflettè la propria immagine in quegli occhi tanto simili  ai suoi non potè che tendere un sorriso incerto e tremolante prima di sentirsi sfiorare da una mano della donna.
- Sei stata brava.
Il sorriso le si allargò in viso quando sentì l’esclamazione del fantasma, riuscendo a ritrovare la speranza per un destino che non doveva avere quel finale tragico, non ora, non dopo aver  scoperto la verità.
- Tu- tu…
Oritel soppresse la propria sorpresa quando vide la vecchia amica aiutare la fata della musica a tornare in piedi, porgendole con un sorriso il piccolo oggetto dal quale la scia bluastra che ne componeva il corpo fuoriusciva, il diario che Musa strinse al petto nel sentire le ferite rimarginarsi sotto il tocco della donna.
Poi Arya lo udì ancora, il suo nome, ma senza l’orrore e la sorpresa a storpiarne la dolcezza, solo il suo nome, il richiamo più dolce che lei avesse mai udito, anche se era sempre stato atono e inespressivo.
Eppure la donna non potè che abbozzare un sorriso che mordicchiò prima di volare per la sala e discendere con lentezza davanti all’uomo dallo sguardo smarrito che continuava a ripetere il suo nome.
- Arya.
Gli sorrise, delicata come era sempre stata, allungando una mano per sfiorargli una guancia, e quando anche la donna sussurro il nome dell’uomo, il suo vero nome, Salazar non potè che allungare le braccia e stringersela al petto con un sorriso tremulo, fissando il vuoto e imprimendo nella memoria quel tocco gentile che secoli prima lo aveva costretto ad ammettere il bruciante bisogno di essere amato da qualcuno.
Straziante.
Musa non potè che patire il dolce strazio di vederli insieme, finalmente, abbracciati e uniti dopo un secolo di lontananza, di bugie, trattenendo a stento l’istinto di urlare dalla gioia, ma lo avrebbe fatto, lo avrebbe fatto dopo aver svelato il segreto che Saladin serbava nel cuore corrotto.
Un segreto che la fata rivelò con la più semplice delle accuse.
- È stato Saladin ad ucciderla.  
 Il mago sobbalzò quando la udì parlare, tradendo la sorpresa di sentire quegli occhi blu guardarlo con disgusto, ma quando anche Oritel e i presenti gli rivolsero occhiate confuse Saladin fu lesto a camuffare un sorriso bonario nel tornare in piedi.
- IO ? – sibilò incredulo, reggendosi sul bastone per non mostrare altre debolezze – credi davvero che sia stato io ad ucciderla ?
Musa trovò quel tentativo di sviare il discorso, di difendersi, profondamente patetico, ingiusto per quella donna abbracciata all’uomo dal quale era stata crudelmente strappata, e lei non avrebbe permesso a Salazar di pensarsi ancora come l’orco cattivo.
- Non è stata Arya a mandare la lettera. Siete stato voi. Avete scritto di vostro pugno le missive che avete spedito ad entrambi per farli incontrare segretamente.
Gli sfuggì una risata nervosa con la quale tentò di stemperare il tono serioso della fata, ma lo sguardo cupo dei maghi e delle fate lì presenti lo fecero trasalire dalla paura.
- Ma noi lo abbiamo visto, Musa, abbiamo visto Salazar uccidere Arya – si insinuò la voce confusa di Tecna, un’ammissione che se fece sorridere di vittoria Saladin, portò la fata della musica a smozzicare un ringhio feroce.
- Perché Salazar era stato avvelenato.
- Che sciocchezze stai dicendo! Suvvia, non vorrai davvero…
- Cerchi ancora di difenderti fratello ?
Saladin tremò nel sentire la voce delicata della sorella alle spalle, e quando incrociò lo sguardo di Arya si trovò a inghiottire il sussulto spaventato.
- Ciò che mi hai fatto, ciò che ci  hai fatto è ingiusto. Io amavo Salazar, e lui amava me, non mi avrebbe mai fatto del male – confessò con enfasi, stringendosi a quelle braccia che lo stregone irrigidì lungo il busto della fata prima di scoccare un’occhiata incredula a Musa.
Lei gli annuì, addolcendo il sorriso prima di tornare a pugnalare la schiena del mago con uno sguardo furioso.
- È vero che Salazar ha trafitto Arya, lo abbiamo visto tutti – confessò Musa con voce dura, abbracciando con lo sguardo le espressioni silenti dei presenti – ma solo perché  nella boccetta che Salazar portava al collo vi era veleno, un veleno che gli ha fatto credere di avere davanti Saladin, non Arya.
- E di quale veleno si tratterebbe? – domandò con rabbia il mago, sorprendendosi nel vedere Flora fare un passo in avanti e guardare il nonno del suo compagno con malcelato astio.
- Belladonna. La belladonna è in grado di causare allucinazioni, tachicardia, lesioni interne e spasmi incontrollati.
- E tu come fai a saperlo ? – le chiese Helia con un filo di voce, guardando la fidanzata con la gola secca.
Flora provò pena, dispiacere per il dolore che gli avrebbe inflitto, ma la fata sapeva di dover essere fedele anche all’amicizia con Musa.
- Perché Musa ha avuto alcuni sintomi. Non so come abbia assorbito la belladonna, ne ho percepito l’odore su di lei, e sono sicura che  sia  stata l’esposizione al veleno a farla stare male ieri.
Salazar sembrava l’unico a non riuscire a comprendere, a capire, ma quando Musa lesse sorpresa in fondo a quello sguardo desolato, quando vi lesse speranza, seppe di dover punire Saladin e di dover liberare lo stregone di una colpa che non aveva mai avuto.
- Ricordi quando mi è caduta la boccetta e mi sono punta il dito ? – gli chiese con dolcezza, sentendo il sollievo nel vederlo annuire mentre anche in lui la propria innocenza cominciava a dipanarsi.
- Ecco come sono venuta a contatto con la belladonna. Doveva esserne rimasta qualche goccia quando è andata in frantumi – spiegò infine, riuscendo a trovare quello che cercava, quello che aveva sempre cercato in fondo al suo sguardo.
Pace.
Per se stesso, e per quell’anima che finalmente, dopo un secolo di afflizioni, aveva trovato ciò che poteva donargliela.
L’innocenza da un delitto che non aveva compiuto volontariamente, non avrebbe mai potuto.
- È finita.
Lo era davvero, finalmente, ma Saladin non sembrò far caso alla sentenza della fata, continuava a fissare sua sorella e lo spirito malvagio che l’aveva plagiata, che l’aveva portata via da lui, e non trovò giustizia in quello che vedeva.
Non l’aveva mai vista, non in quell’abbraccio e in quegli sguardi innamorati, non nell’odio che Arya non avrebbe mai nutrito nei suoi confronti se non fosse stato per Salazar e per quella stupida fata che aveva distrutto tutto.
- Non è finita fino a quando non sono io a deciderlo.
Quando Arya si curvò in avanti con le mani pressate contro il ventre tutti sobbalzarono per la sorpresa di vedere Saladin svanire in una nube di fumo e di sentire il  singhiozzo della donna, ma fu un altro suono, ben più flebile e silenzioso a far irrigidire Salazar e Riven, il respiro mozzato alle loro spalle, fioco e spento come il singulto di una bambina spaventata.  
Un rigurgito di sangue le sfuggì dalle labbra  mentre la sensazione di soffocamento aumentava, ma gli occhi rimanevano vitrei, sgranati sui due uomini che vide voltarsi con lentezza nella sua direzione prima che il bastone affondasse più in profondità, trapassando il diario che teneva stretto al petto e il torace che ormai Musa non sentiva più.
Non sentiva più nulla, in verità.
- Ora, è finita.
Il fruscio del bastone contro le carni martoriate dei suoi organi interni le costò un’ultima fitta di dolore prima che la fata perdesse sensibilità nelle gambe, nelle braccia, afflosciandosi come il gambo di un fiore calpestato, cozzando duramente contro il suolo,  e fu proprio la dolorosa caduta a toglierle l’ultimo respiro che fu in grado di incanalare nel corpo assieme allo sguardo divenuto opaco, spento.
Morto.
- NO !
Il grido di Riven squarciò l’aria, frammentandola in piccole particelle d’ossigeno che l’uomo fece fatica a respirare quando si gettò in una corsa goffa verso il corpo disteso al suolo, immobile come la più triste delle bambole abbandonate a se stesse, e quando cadde in ginocchio accanto a lei le prime lacrime gridarono il dolore di quella visione.
Lo strazio di toccare pelle fredda e di non vedere quegli occhi blu voltarsi ai suoi richiami.
Saladin, che aveva appena fatto in tempo ad indietreggiare non potè che scoppiare a ridere quando vide il suo pupillo prendere tra le braccia la fate e provare a bloccare con la mano pressata sul petto il fiotto di sangue, il tentativo patetico di un uomo che non sapeva arrendersi alla realtà.
Perché lei era morta, aveva pagato il suo affronto, ed era stato lui a vincere ancora, l’unico a ridere in un luogo dove solo l’orrore e il dolore saturava l’aria.
Aria che il mago inghiottì a vuoto quando, nell’alzare lo sguardo si trovò faccia a faccia con il suo peggior incubo, l’uomo dagli occhi ametista che lo afferrò per la gola, costringendolo a fissare le pupille nere risucchiate nel viola cupo dello sguardo.
Quello che ruba le anime, quello che rubò la sua, prima che il corpo dello stregone ricadesse al suolo con un tonfo sordo, ma nessuno vi fece caso.
Non le Winx accorse al capezzale di Riven, non lo stregone che vide lo spirito dell’amata svanire assieme alla vita di chi non avrebbe potuto ritornare da chi più l’avrebbe rivoluta indietro.
- Andrà bene. Andrà tutto bene – singhiozzò lo specialista con la voce strozzata dal pianto, tamponando l’emorragia con la mano che però continuava ad essere spruzzata di sangue, troppo sangue per non fargli comprendere  che il suo fosse il tentativo inutile e disperato di un uomo di vincere la morte.
Eppure, inutile o meno, l’uomo non potè che continuare a bloccare il rigurgito di sangue, a stringere il corpo che aveva depositato dolcemente sulle ginocchia, a rassicurare entrambi che sarebbe andato tutto bene.
Proprio come Musa gli aveva promesso.
E lei manteneva sempre le promesse, lui lo sapeva, ne era certo, anche se lei continuava a tenere gli occhi incollati al vuoto, anche se quel sangue continuava a bagnargli i vestiti e le labbra che accostava all’orecchio della fata per sussurrarle quello che avrebbero fatto, una volta tornati a casa.
- Sono sicuro che tuo padre mi prenderà a calci, ma ne verrà la pena – biasciò stancamente, prendendo ad accarezzarle i capelli e a continuare, stupidamente, a pressare la mano su quel torace che aveva smesso di sputare sangue, ma non perché l’emorragia fosse stata bloccata, perché, semplicemente, non c’era rimasto più sangue da espellere.
- E dovrai cantare quella canzone che avevi dedicato a tua madre, mi è sempre piaciuta, anche se non te l’ho mai detto – confessò dolce, sorridendo nel sentire il sospiro sul proprio viso, ma quando Sky, che si era chinato a guardarlo, provò ad allungare una mano sul viso che accarezzava ritmicamente Riven riuscì a scollare la mano dal torace per afferrargli la gola con un ringhio.
- Non toccarla – sibilò feroce, soffiando sul volto del principe di Eraklyon la propria follia, gli occhi dilatati su pupille che erano state soffocate dal viola sgargiante dell’iride, lucidi di un pianto che Riven sfogava a tratti, trovandosi a sorridere e piangere senza che ne fosse pienamente cosciente.
- Riven, ti prego – lo supplicò Helia con voce stanca, ma lo specialista non potè che  urlare loro di lasciarli soli, perché Musa doveva riposare, e non doveva essere toccata da nessuno se non da lui, perché le avrebbe dato fastidio mostrare il proprio disagio. Lo sapeva, lo aveva sempre saputo.
Eppure, quando Faragonda riuscì a farsi spazio tra le sue ex allieve per sedersi accanto a lui Riven non potè far finta di nulla, o ringhiarle di andare via, non ne ebbe la forza, neanche quando la vecchia fata gli prese la mano tornata a coprire il foro nel petto di Musa per scostargliela.
- Mi dispiace – iniziò lei mortificata, con la gola stretta dal dolore, ma lo specialista la scacciò via con un gesto brusco del braccio, tornando a chinarsi sulla fata per rassicurarla che nessuno l’avrebbe più disturbata, ma quando gli occhi fino ad allora fissi di Musa ruotarono innaturalmente verso il basso quando Riven mosse il braccio indolenzito qualcosa si spezzò dentro di lui.
L’innaturale e patetica speranza di aver immaginato tutto, di non stare stringendo un corpo privo di vita ma il gracile peso di una donna dormiente.
- È morta.
- No.
- Riven, non puoi…
- Ho detto che non è morta – urlò fuori di sé, facendo tremolare lo sguardo che scostò dal viso addolorato dell’anziana preside per tornare a guardare il viso pallido e puntellato di sangue che continuava a non rispondergli.
- Lei non è morta – sussurrò, ma questa volta sembrava solo pensare ad alta voce – ha promesso che sarebbe andato tutto bene. Che ce l’avremmo fatta. Mi ha promesso che sarebbe stata sempre con me, che mi avrebbe aspettato – balbettò straziato, deglutendo più volte per trovare la voce, ma non la trovò più, non quando, nel poggiare la fronte su quella gelida della fata non sentì alcun respiro tra le ciglia.
Solo silenzio.
Un silenzio ingombrante, gravido delle sue urla e della disperazione di  chi aveva perso tutto, ancora una volta.
Ma Riven sapeva  che non avrebbe più potuto riprendersela, non dalla morte.
- Lasciatemi solo.
- Ma…
- Lasciatemi solo ho detto – sibilò incattivito dall’amarezza, osservando l’iride opaca di Musa con un groppo in gola.
Uno spostamento d’aria però lo costrinse a tornare ritto, e questa volta la rabbia tornò a sformargli i lineamenti quando scoprì chi aveva accostato il corpo di Musa.
- Cosa diavolo vuoi ora ?
Salazar non gli badò, preferendo guardare quello sguardo innocente perduto nell’oblio, occhi che lo aveva spronato, perdonato, aiutato e infine salvato da un orrore che non gravava più sulla sua vita.
Una pace che era costata la vita a quella fragile creatura dal cuore forte e coraggioso.
- Non la toccare.
Solo allora lo stregone lo degnò di uno sguardo, e si  sorprese  di ritrovare se stesso nello sguardo feroce e crudele che il ragazzo gli stava rivolgendo, nella piega dura delle labbra, e in quel ringhio animale che Salazar aveva covato nel petto fin da ragazzo.
- Posso aiutarla - confessò atono, tornando ad allungare la mano che lo specialista gli aveva bloccato per sfiorare in una carezza la guancia della fata.
- Tu puoi …
- Riportarla in vita ? – lo precedette, storcendo la bocca in una smorfia desolata – no, ma posso provarci.
Riven lo avrebbe sgozzato con le proprie mani se solo lui non avesse detto quella parola.
Provarci.
Non che ci sarebbe riuscito, ma che avrebbe provato, e tanto gli bastò.
Si fece da parte, con un po’ di reticenza, lasciando che lo stregone incorniciasse il viso della fata tra le mani per avere gli occhi nei suoi, affinchè potesse farvi fluire all’interno il potere che aveva covato per un secolo nella speranza di uccidere e torturare l’uomo che gli aveva rovinato la vita per l’eternità ma che ora utilizzava per salvarne una.
Eppure il pensiero di rivedere quel sorriso, di saperla al sicuro, gli concesse l’incitamento necessario per tentare di riportarla tra i vivi.
Durò meno di un attimo, e quando lo stregone le abbassò le palpebre sugli occhi statici si voltò verso Riven, verso le fate accasciate a terra in un pianto disperato, sulla desolazione di quel luogo pregno di morte e urla.
- Tutto qui ? – lo accusò Riven con tono grave, riprendendola tra le braccia senza notare però alcuna differenza.
- Tutto qui – gli concesse Salazar, sentendo il proprio spirito cominciare a perdere consistenza quando la magia che lo aveva risvegliato e che aveva riversato nel corpo della fata smise di legarlo al mondo mortale.
- Sta a te ora decidere il da farsi, se aspettare il suo possibile risveglio, o farti una nuova vita.
In entrambi i casi,  sappi che è una tua scelta, e che forse lei non si sveglierà mai.
E con quell’ultima sentenza Salazar il ladro di anime scomparve, tornando da colei la quale aveva agognato per l’eternità e che avrebbe ritrovato oltre quei cancelli che finalmente, trovata la pace, avrebbe potuto varcare.





“In qualche modo io so che io troverò un modo,
in un più brillante giorno, nel sole.
In qualche luogo io so che lui mi aspetta,
Un giorno o l’altro presto lui vedrà, che sono l’unica”




Fastidio.
 Musa non riuscì a provare altro quando il sole la colpì in viso come la peggiore delle sveglie, costringendola a rotolarsi tra le lenzuola ed affondare il viso nel cuscino, ma  la luce era così forte da filtrare anche  attraverso la delicata coperta di lana calda.
Eppure la fata trovava difficile alzarsi, perché si sentiva stanca, davvero tanta stanca, come se qualcuno l’avesse costretta a correre all’infinito prima di concederle un po’ di riposo.
Poi il fastidio lasciò spazio alla confusione di sapersi stesa in un letto morbido e profumato  anziché di  trovarsi sul pavimento ruvido e sgretolato del palazzo di Salazar.
E quando i ricordi la soffocarono con domande e quesiti ai quali non seppe dare risposta scattò a sedere con gli occhi sgranati che fu costretta a socchiudere per l’ondata di luce che la accecò per un attimo.
Aveva la gola secca, e si sentiva stranamente indolenzita, tanto che nel provare a scendere dal letto con ancora le palpebre socchiuse si ritrovò a rotolare goffamente con le lenzuola attorcigliate attorno al corpo.
Solo che quelle che scostò con fastidio nel rimettersi seduta non erano coperte, ma capelli, i suoi capelli, tanto lunghi da circondarla come una pozza d’acqua nella quale era stata dolcemente depositata.
L’incredulità ebbe il sopravvento sulla sensazione di smarrimento che quella stanza le diede, perché non c’era nulla di familiare in quel letto pulito e non sporco di sangue come quello che ricordava, né nelle immense finestre che fissò per ultimo, ingoiando uno strillo spaventato nell’accorgersi che vi era qualcuno affacciato.
Qualcuno che non riconobbe, non con quella luce che rendeva dorata ogni porzione di pelle sulla quale posasse lo sguardo, ma qualcosa le diceva che non era Salazar, una vocina che le sussurrava di fare attenzione alle spalle ampie e muscolose sottolineate dall’alta divisa rossa che indossava, una divisa sconosciuta.
Purtroppo il problema dei capelli le diede altri grattacapi ai quali pensare quando, nel provare a tornare in piedi, si trovò a gambe all’aria , imprigionata in una massa di capelli che solo poco dopo riscoprì con orrore, raggiungeva i piedi del letto in un’onda blu chilometrica.
- Perché diavolo ho i capelli così lunghi – borbottò tra sé e sé, tirando la ciocca più lunga, quella che le si era attorcigliata attorno al polpaccio prima di irrigidirsi nel sentire la voce dello sconosciuto che aveva momentaneamente dimenticato.
- È quello che succede quando si dorme per dieci anni – la informò l’uomo con una voce  che non riconobbe, perché troppo virile, calda e lontana, ma qualcosa in quel suo tono acido, quasi scanzonato le fece trillare una campana di allarme nella testa.


“I won't give up on this feeling
And nothing could keep me away”



- E tu chi sei ? Dov’è Salazar, ma soprattutto, dove sono io ? – strepitò stizzita, non riuscendo a non mostrarsi influenzata dalla marcata indifferenza dello sconosciuto di spalle, non soffermandosi però  sull’aspetto più importante della confessione dell’uomo.
Lui non le rispose, preferendo di gran lunga guardare fuori dalla finestra che  degnarla di attenzione, e fu proprio quell’incomprensibile ma familiare disinteresse  a convincerla a cercarsi da sé le risposte.
Ma Musa trovò difficile pensare anche solo al modo di fuggire da lì quando si accorse di un inconsueto luccicore al suo anulare, riscoprendosi completamente terrorizzata dalla fede d’oro che le abbracciava il dito.
E l’orrore di quella scoperta la portò a guardare le mani che l’uomo teneva intrecciate dietro la schiena, trovando ciò che stava cercando.
Una fede.
Una fede identica alla sua.
-  No!No!No! – strillò isterica, altalenando lo sguardo dalla propria fede a quello dello sconosciuto, sentendo la rabbia congestionarle il viso divenuto oramai quasi blu dall’orrore – non è te che dovrei sposare! Non un dannato sconosciuto!
- E chi avresti dovuto sposare ? – la riprese l’uomo con voce incolore, velata da un fastidio che la fece irrigidire stupidamente con le mani corse a sfilare la fede stretta tra pollice e medio prima di scuotere la testa e tornare a ringhiare.
- L’uomo che amo, che domande sono! – ribattè acida, stupendosi di come l’anello non venisse via, quasi fosse incantato.
- E chi sarebbe l’uomo che ami ? – le chiese ancora, questa volta più emotivo delle altre tre volte, perché c’era ansia nella sua voce, paura, angoscia forse, e Musa non potè che trovarlo strano, lui e quella curiosità morbosa.
- Riven - ammise asciutta, sobbalzando nel sentirlo ridere sofficemente prima di ruotare il busto e lasciare che il sole la colpisse in pieno volto, costringendola a coprirsi con entrambe le mani chiuse a coppa sugli occhi.
Poi udì dei passi, lenti, eleganti, ritmici, come la marcia di un soldato, e la paura di essere attaccata la portò a serrare le mani per opporsi a quelle dita che provavano a sciogliere l’intreccio con il quale copriva le palpebre serrate.
Ma lui era molto più forte di lei, e quando finalmente riuscì a stringerle le mani tra le sue Musa pensò che quelle mani lei le conosceva.
Perché erano ruvide, con dei calli prominenti poco lontano dalle nocche, dovute agli estenuanti allentamenti alle quali si sottoponeva, e fu con un groppo in gola che schiuse le palpebre, riscoprendo un viso che riconobbe a stento.



"Cause I still believe in destiny
That you and I were meant to be
I still wish on the stars as they fall from above
'Cause I still believe
Believe in love"



 
- Hai la barba.
Riven aggrottò le sopracciglia in un cipiglio cupo, reggendo lo sguardo lucido e sorpreso della fata con un pò di difficoltà vista la fissità di quelle pupille.
- È questa la prima cosa che hai da dirmi dopo aver dormito per dieci anni ? – le domandò stranito, pentendosi delle proprie parole quando la vide inghiottire a vuoto e sbattere le palpebre su occhi che ora erano pieni di lacrime.
- Volevo dire che …
- Hai i capelli più lunghi – lo interruppe lei con voce stozzata, accarezzando con lo sguardo le ciocche sfuggite al codino morbido che l’uomo aveva sulla spalla prima di riscoprire lo stesso luccichio di poco prima, questa volta sdoppiato.
E la commozione le riempì la gola di singhiozzi convulsi che Riven la costrinse a soffocare contro la propria spalla quando la prese tra le braccia, accarezzandole la schiena con mani delicate, quasi insicure, come se non ricordasse più come si facesse.
- Continui a dire cose senza senso, ma credo sia normale, Tecna aveva detto che saresti stata un po’ confusa all'inizio – borbottò pensieroso, continuando ad accarezzarle la schiena e a sentire il cuore singhiozzargli nel petto con intervalli tanto lunghi da affannargli il respiro.
- Dieci anni.
Musa lo sentì tendersi contro di lei prima di tornare a rilassarsi, ma rimase comunque dell’incertezza nei muscoli guizzanti che le stringevano la vita, una debolezza che la fece sorridere.
- Mi hai aspettato per dieci anni – esalò sconvolta, stringendosi a quel corpo che riscopriva per la prima volta sorprendentemente fragile tra le sue braccia, delicato come mai lo era stato.
- Non avevo nulla di meglio da fare – fu la sua risposta sagace, quasi arcigna, ma la fata colse il tremore, la commozione tra gli spigoli della sua voce, riscoprendo una dolcezza nella quale aveva sempre confidato.
- E ci siamo sposati – continuò senza parole, aggrottando le sopracciglia nello scostarsi un po’ da lui per guardarlo in viso – come hai fatto a sposarmi senza avere il mio consenso ?
Lo vide deglutire sonoramente, ma Riven mascherò quell’attimo di debolezza con un colpo di tosse che gli consentì di ritrovare la voce e di non farla sembrare troppo goffa e incerta.
- Era sottinteso che avresti detto di si a me – commentò sicuro di sé, forse troppo, una sicurezza che l’uomo sentì traballare nel vedere quello sguardo farsi serio come non lo era mai stato.
- Cosa …
- Ti amo.
Fu un colpo basso.
Questo Musa lo riconobbe con se stessa, ma quando vide la reazione di Riven capì che ne era valsa la pena.
Bordò.
Riven era diventato completamente bordò, un po’ bianco sulla linea morbida della fronte, come se non sapesse bene  come reagire alla sua confessione, limitandosi a tenere le labbra divenute incredibilmente secche appena schiuse, e lo trovò tenero come non lo era mai stato.
Gli gettò le braccia al collo con una risata deliziata, beandosi della rigidità di quegli arti ancora sconvolti e confusi su come reagire, ma ci pensò Musa a rassicurarlo con una pacca sulla spalla che aveva capito, che sapeva che anche lui l’amava.
Perché l’aveva aspettata per dieci anni, e qualcosa le diceva che l’avrebbe aspettata in eterno, se necessario.
Rimasero così, abbracciati, tanto stretti da non riuscire a respirare, poi l’incantesimo si ruppe  quando una covata di bambini stranamente biondi e stranamente logorroici costrinse entrambi a dare loro attenzione.
- Cosa vi ha insegnato la mamma ? – cantilenò una Stella più matura, con i capelli biondi acconciati in un grazioso caschetto e quella nidiata di bambini attorno che Musa scoprì, le assomigliavano in modo imbarazzante con quei musini imbronciati.
- Di non fare rumore perché la zia Musa sta dormendo – ripeterono all’unisono, mostrando la dentatura perfetta alla madre che convinta di non doverli richiamare all’ordine alzò il viso per trovare la sua migliore amica stesa nel letto.
Ma quando non la trovò e i suoi occhi dorati la riscoprirono in piedi, abbracciata a Riven, e con un sorriso imbarazzato in volto, Stella non potè che sentire un tic nervoso all’occhio prima di perdere i sensi mentre i  suoi figli urlavano al padre che la loro povera mamma era svenuta un’altra volta.
Uno svenimento che si ripetè altre cinque volte, uno delle quali venne  però indotto da Riven quando Aidan sgattaiolò dentro con un mazzo di fiori che il nuovo preside di Fonterossa pestò con rabbia, afferrando l’uomo per la collottola per condurlo via da quella che oramai era  indiscutibilmente sua moglie.



"Love can make miracles
Change everything
Lift you from the darkness and make your heart sing
Love is forever
When you fall
It's the greatest power of all"




- Coraggio. Non vorrai rovinare la festa con il tuo muso lungo, vero 
Dalbhach ?
Lo stregone emise un lungo  grugnito di fastidio quando Arya gli sventolò davanti una mano per costringerlo a distogliere lo sguardo irritato  dall’orda di bambini urlanti che correvano attorno alle statue del giardino di Fonterossa.
Statue, che, per una bislacca coincidenza, assomigliavano in modo imbarazzante a lui e alla sua compagna di vita.
Il tributo delle vettime di Saladin il feroce, la causa della sua presenza lì, nella maledetta accademia nella quale lui ed Arya avevano preso dimora  quando avevano capito che avevano un compito più alto lì sulla terra, che avevano ancora delle cose in sospeso.
- So che sei contento di vederla di nuovo, solo che io riesco ad ammetterlo  – lo prese in giro la donna, soffermando lo sguardo blu sulla fata dal sorriso ingenuo che l’uomo in alta divisa teneva vicino per i fianchi.
Un altro grugnito le giunse in risposta, ma quando Salazar posò a sua volta lo sguardo sulla giovane non potè che smorzare un sorriso e ammorbidire il taglio degli occhi, trovano in quel sorriso la stessa gentilezza che lo aveva aiutato.
Ed anche se erano anime inconsistenti, spiriti guida, lo stregone ebbe come l’impressione che lei si fosse accorta della loro presenza, della sua, e di quella della donna alla quale non aveva mia smesso di stringere la mano.
- Hai detto qualcosa ?
 
Dalbhach  scosse il capo con un ghigno deliziato, prendendo Arya tra le braccia prima di ritornare a infestare Fonterossa e  a vegliare sui suoi abitanti, reprimendo a stento il sorriso nostalgico che lo aveva assalito nel capire le parole che la fata aveva sillabato al vento.
Una promessa che alla fine, Musa era riuscita a mantenere.
Perché ce l’avevano fatta.
Ce l’avevano fatta davvero.


The End


* La canzone è "I Still Belive" , colonna sonora di Cenerentola III.


Sorprese di vedermi così presto ? Anche io lo sono, ma quando l'ispirazione arriva  è bene coglierla al volo
. Ammetto di essere un pò triste al pensiero di averla finita, ma sono felice di come sia riuscita, e spero che anche voi, come me, abbiano pensato ad una fine come questa. Spero di aver fatto pensare anche a voi che   il vero amore esiste per chiunque, persino per le anime più sole.
Ringrazio tutti per avermi seguito in questa nuova avventura, e di essere arrivati fino a qui.
Un saluto caloroso,
Gold Eyes


 


  
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