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Autore: Bloody_Rose3    21/11/2012    2 recensioni
E se il sorteggio di Prim non fosse stato un caso? Se a tutto questo ci fosse dietro un piano, cominciato sin dall'inizio? Una sorta di vendetta tardiva da parte di Capitol City. Perché Capitol City non perdona, le colpe e i debiti di una persona pesano perfino sui figli. Verity Ember, Distretto 4, si rifiuta di sottostare alla politica dispotica di Capitol City. Durante una rivolta, viene portata via da Logan, qualcuno che perderà la vita per tante altre, per portare giustizia. E Verity odia sentirsi in debito, ma con Logan ormai morto, come può sdebitarsi? Non resta che provare a sconfiggere il presidente.
Ecco a voi i Giorni Bui.
Genere: Azione, Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sono in trappola.

Le urla attorno a me non sono altro che rimbombi nella mia testa. Il pericolo è sempre stato la mia ombra, e la morte abbastanza vicina da lambirmi come un vento gelido, ma mai abbastanza per catturarmi e farmi sua. Credo che stavolta le basti cingermi e portarmi via, ma non capisco perché ci metta così tanto, a meno che non voglia rallentare le cose. Se trovo una pistola potrei spararmi in fronte e finirebbe tutto subito. Penso che mendicare armi non sia l'idea migliore, però. Probabilmente sarà la mia ultima risorsa... non tutto è perduto, potrei davvero trovare un'uscita, malgrado la piazza sia circondata da nuove forze dell'ordine firmate Capitol City: dicono che si chiamino Pacificatori, ma le loro armi sofisticate suggeriscono tutt'altro. Nel loro bianco avanzare non fanno che spargere il rosso del sangue. Poco fa un idiota mi ha spinto e ha spappolato i morsi della notte, condannandomi ad una lenta tortura, e come se non bastasse la pistola è inutilizzabile. La buona sorte non è dalla mia parte, oggi.

«Se vi arrendete Capitol City vi perdonerà!» grida un Pacificatore attraverso un megafono, ma nessuno, pur avendolo sentito, gli dà retta. Al diavolo, agli occhi di tutti siamo perdonati, ma sappiamo che in realtà muore dalla voglia di renderci la vita impossibile. Ormai il danno è fatto, non si può più tornare indietro: non ci si può ritirare, è come consegnarsi al nemico... Vanificare la morte degli altri ribelli. No, non ci arrenderemo. Qualcuno, dal centro della piazza, comincia a spingere e a gridare: “Meglio morire in piedi che vivere in ginocchio!”. Le persone dietro di me mi spingono sempre più fra le braccia dei Pacificatori, e non riesco a oppormi a loro. So che dovrei lottare, ma sinceramente non mi pare il modo più intelligente di morire. Insomma, io voglio vivere, poiché so che se moriremo tutti adesso, nessun altro combatterà per noi. Come il Distretto 13, che è stato cancellato dalla faccia della Terra.

Qualcuno si accascia, circondato da una pozza di sangue. I Pacificatori hanno deciso di testare i loro strumenti bellici. Mi piacerebbe vedere le loro espressioni dietro quei caschi, se sono inorriditi, spaventati, eccitati... se si sentono colpevoli o traditori.

«Attenta!» un ragazzo mi tira giù per il gomito e mi ritrovo a terra, la guancia contro le piastrelle roventi. Il proiettile deve aver colpito un'altra dietro di me, poiché sento i suoi gemiti di dolore. Dovevo essere io, dannazione, la morte mi ha quasi presa. «Senti, dobbiamo andarcene» propone, aiutandomi a rimettermi in piedi.

«Questo è “darsela a gambe”» sibilo, ma non mi dà il tempo di oppormi che mi ritrovo sulla sua spalla. «Perché lo fai?!»

«Oh, andiamo, credi di essere l'unica cui sto cercando di salvare?» mi sento avvampare di rabbia e imbarazzo. Mi ha appena accusato di essere una megalomane! «Sto cercando di portare in salvo i potenziali ribelli. Tu lo sei, vero?»

«Vuoi una dimostrazione?!» sghignazza, il suo torace vibra nel farlo. Mi mette giù una volta giunti in una chiesa, rimasta intatta nonostante i bombardamenti; mi chiedo perché sia rimasta, tanto nessuno la frequenta più, abbiamo tutti perso la fede. Eccetto questo sconosciuto. Lo aspetto tra due colonne in stile corinzio, con le loro raffinate decorazioni sui rispettivi capitelli, mentre fa il segno della croce; al termine di quel gesto, mi spinge con delicatezza sostenendomi con una mano. «Sei l'unico che sta giocando al supereroe o ci sono altri?», domando, impegnata a scrutare ogni singolo dettaglio dell'edificio.

«Ovviamente ho altri compagni» lo vedo allontanarsi in fretta, gli occhi azzurri più veloci dei suoi passi «attraversa questa porta a destra e segui il corridoio, lì troverai Nate. Lui ti scorterà sino al rifugio. Io... io continuo il mio lavoro». Annuisco, ma ormai è andato. Apro con cautela la porta pesante, ritrovandomi in un andito che pare infinito. Ciò che il mio occhio può vedere al di là è solo buio. Avanzo, posando lentamente la pianta al suolo. Non si sa mai, un Pacificatore potrebbe tendermi un agguato, eppure quel tale... Nate? Sì, Nate aspetta altre vite da salvare. Mi sento una codarda, perché là fuori la gente sta morendo, mentre io scappo, ma mi riprometto che tornerò: non è questo il momento adatto per combattere, ma ritornerò, come una fenice. Più forte. Tanto nessuno mi attende, non c'è famiglia che mi possa ricevere a casa e dirmi: grazie al cielo sei viva! Percepisco una strana sensazione.. non è claustrofobia, ma ho paura che, se i Pacificatori ci scoprono, saremo come pesci in un barile. Penso di essere ormai a metà strada quando la stessa porta che io ho aperto, rivela un angolo di luce e quattro sagome scure la richiudono. La voce del ragazzo di prima risuona ancora: seguite il corridoio e troverete Nate, lui vi guiderà fino al nascondiglio. D'un tratto, un pensiero paranoico si insinua nella mia mente: e se fosse tutta una trappola? Se questi fossero degli infiltrati? Questo Nate potrebbe legarmi, addormentarmi e mettermi in una cassa. Potrei essere trasportata fino a Capitol City, e me la vedrei con gli strumenti di tortura... Mi fermo improvvisamente, rischiando di perdere l'equilibrio. Quei quattro stanno in silenzio, come me. Sanno che non sono soli? Dovrei forse andare ad avvertirli? Sono indecisa se correre via o andare avanti. Mi soffermo qui, fisso i miei piedi, illuminati dalla luce che filtra attraverso alcune fessure nella parete, e i quattro si fanno più vicini. Non osano fiatare neanche loro. Inspiro profondamente, e decido di andare avanti. Dovunque decida di andare, c'è sempre Capitol City che mi attende. Se seguo il corridoio, forse Capitol City mi prenderà, se torno indietro, c'è la ribellione che mi aspetta, e in entrambi i casi, potrei morire. Disarmata, stanca, sola... non ho mai desiderato la compagnia di altri prima d'ora. Troppo tardi per tornare indietro, ho trovato la parete opposta alla porta da cui provengo.

«Distretto, nome» un sussurro mi fa voltare a destra e a sinistra, ma non riesco a localizzare l'uomo. Sento le mie braccia strattonate dietro la schiena e qualcosa di ruvido che le lega strettamente. Sulle prime decido di voler mentire, ma qualcosa mi dice che tanto non servirà a nulla. «Ember Verity. Distretto 4. Tu sei Nate, giusto?» pare colto alla sprovvista dal mio tono di voce mite e tranquillo. Quando parlo in quel modo, vuol dire che dentro sto per esplodere, che sto morendo di paura; chi non mi conosce lo considera coraggio, forza d'animo. È un bene, di questi tempi non bisogna apparire deboli.

«No, mi spiace per le maniere... rozze, signorina Amber, non si sa mai. Sa cosa intendo».

«Ember» lo correggo, «il mio nome è Verity, il cognome è E-m-b-e-r ».

Qualcosa mi punge il dito, l'uomo mi prende l'indice e lo preme su una superficie liscia, che si illumina immediatamente di verde. Evito di fare domande, ci sono altre persone dietro di me. «Capito, signorina EMBER» enfatizza il mio cognome e mi affida ad un altro uomo. Da come parla, scommetto che sta sorridendo. «Lui è Nate». Preme un tasto sull'aggeggio che tiene in mano – una specie di mini-telecomando – consentendo al muro di scorrere su un lato e di rivelare una scalinata. Appena io e Nate ci inoltriamo, la parete si richiude con un tonfo secco.

«Oh» sospiro, lambita da un'aria ferma ma fresca. Nate procede a passo spedito, cingendomi le spalle non solo per evitare che incespichi sul terreno irregolare, ma anche per invitarmi ad aumentare il passo. Scendiamo delle scale ripide e camminiamo lungo un dedalo di stretti passaggi. Qui è buio pesto, ma pare che Nate ci sia stato molte altre volte. «Questo percorso non è mai esistito, per Capitol City. Quando si stava ancora pensando se fare la guerra o meno, noi eravamo già qui a scavare. Per cui nessun Pacificatore ci troverà mai. Nemmeno gli occhi di Capitol City ci hanno raggiunti. Se entravamo in chiesa apparivamo soltanto come dei bravi cristiani che andavano a Messa. Per questo lavoravamo soltanto la domenica mattina e il sabato sera, o nei giorni festivi». Forse è un suo tentativo di tranquillizzarmi; in effetti, adesso posso respirare e camminare come al solito, senza aver paura di attirare l'attenzione del nemico. Nonostante ciò, non riesco ancora a trovare la voce. «Ovviamente gli attrezzi c'erano già. Ci ha coperti il sacerdote. Devo dire che non sono credente, ma in un certo senso... Amo Dio. Non so se esiste ma... vabbè, eccoci qui. A presto». Lo sento correre, forse racconterà la stessa storia ad altre dieci persone, e ancora, ancora e ancora.

«Sentiamo, chi è il prossimo?» dico, con voce rauca. Ci vuole un po' prima che qualcuno mi risponda. In realtà mi tira soltanto, portandomi giù attraverso una botola. Mi chiedo quando troverò mai quel benedetto nascondiglio, ma pare che questa sia l'ultima tappa. È qualcosa di simile ad un'enorme cantina: umida, fredda in confronto al caldo che c'è là fuori, illuminata da una lampada a batterie. Ci sono già molte persone: cinque, dieci, quindici... con me fanno trenta. Finalmente vengo liberata, e scuoto mollemente i miei polsi in aria per alleviare il bruciore.

«Non possiamo svuotare la piazza, lo sapete? Avete intenzione di lasciarli morire?» è la prima cosa che riesco a dire. «E poi cos'è sta storia dell'identificazione col sangue? Mi sa molto di Capitol City!»

«Calma, calma. Li ripaghiamo con la stessa moneta, no? E comunque, mai sentita la legge della selezione naturale di Darwin? I più forti vincono» risponde quel che pare il leader. Subito dopo, giungono altri quattro ospiti, gli stessi che erano dietro di me. Un sospetto terribile si fa strada nella mia mente: «Voi... voi ci avete osservati?!»

«Osservati a fin di bene» replica tranquillamente, spazzolandosi i capelli color sabbia con le dita. L'ho già visto in precedenza, nel Distretto 4, probabilmente durante qualche assemblea segreta, ma si era limitato ad un ruolo minore. Io, invece, ero tra gli organizzatori. Capisco perché mi trovo qui, e non sarà stato molto difficile trovarmi, e poi, non con tutta quella cerchia di ribelli che mi circondavano, chissà che le loro spie non fossero tra loro. E il sangue... certo, bastava recuperare un mio capello per ricavarne il DNA. Accorti, sicuramente, non vogliono infiltrati nel nostro gruppo ristretto. Non faccio domande, sono sicura che ci sono altri nuclei, da qualche parte: una trentina di uomini e donne non possono vincere contro l'unico ma influente presidente. In quel momento sussultiamo tutti quanti, tratteniamo il fiato, quando la botola si riapre, ma ognuno sospira soltanto a vedere le gambe di qualcuno. Nate, insieme al guardiano in fondo al corridoio e quello che mi ha trascinato nel nascondiglio, scendono le scale con rapidità e richiudono il tutto con catena e lucchetto.

«Logan?» domanda l'uomo dai capelli color sabbia. Realizzo immediatamente che Logan è il ragazzo che mi ha portato via nel bel mezzo del putiferio. Sul viso di tutti e tre si dipinge un'espressione mortificata, quasi colpevole. Conosco fin troppo bene quelle smorfie, e so già cos'è successo, così come tutti gli altri. Non l'ho mai conosciuto, ma mi sento male all'idea che lui non ci sia più: ha rischiato la vita per me, per tanti altri ribelli che in tutta onestà potevano essere per lui solamente degli estranei! Odio sentirmi in debito con qualcuno, e io non riuscirò mai a ricambiare il favore. Mai.

«LOGAN!» un urlo straziante, femminile, si leva tra i brusii. Non è più alta, né cerca di sovrastare i brontolii, ma tutti si zittiscono. Ci spostiamo, il “capo” urla di lasciarla respirare, ma appena si avvicina alla donna di circa una cinquantina d'anni, avvinghiata ad un'altra ragazza molto più giovane, questa lo caccia con un gesto brusco. Non posso starle a guardare mentre piangono, ed un pensiero quasi egoista diviene più importante del loro dolore: e se ci sentissero? Se i Pacificatori fossero già nel labirinto?

«Donna, so che...»

«No! No! No!» strilla lei, affondando le unghie tra i capelli grigi. Nate la afferra e la tiene ferma. «No. Allontanati! Via!» si dibatte, ma Nate, in lacrime, è più forte. Muove le labbra ma non dice nulla. Solo quando il biondo prende lo zaino e ne tira fuori una siringa, comprendo che quel che ha detto è «Morfamina».

«Mi dispiace, Donna» bisbigliano. Non ho il coraggio di guardarla negli occhi, ma ho visto di sfuggita che sono identici a quelli di Logan, ma così carichi di tristezza che mi è impossibile indugiarvi ancora. Io non piango in pubblico. Lei si spegne, ma non definitivamente quanto suo figlio, suppongo. Mi rendo conto di avere gli occhi lucidi, e mi copro subito il viso con i capelli. Attraverso la cortina dorata dei miei capelli posso vedere Donna che viene issata sulle spalle di Nate. La ragazza a cui era così attaccata procede in un religioso silenzio lontano da tutti. Credo che fosse la sua fidanzata, poiché non vedo alcuna somiglianza tra Logan, Donna e lei. Posso solo dire che almeno Logan è morto integro, da combattente, mentre Chuck... Non voglio pensare a quel verme traditore.

«Chace, siamo... al completo» Nate non osa alzare lo sguardo. Il biondo annuisce. «Sì, possiamo incamminarci». Qualcuno prende la lampada e la spegne. Improvvisamente cala il buio su di noi e il freddo pare aumentare, ma non credo che sia la temperatura, piuttosto è un gelo dentro di me, che mi fa tremare. In compenso, una torcia si accende e illumina i visi uno ad uno, mentre Chace fa l'appello a mente. Una mano mi sospinge piano, e cominciamo a marciare. La paura è tanta, così tangibile che mi è difficile respirare, e non penso di essere l'unica. Sappiamo tutti che, se le cose vanno male, saremo come pesci in un barile. Qui pare che tutti abbiano almeno un compagno a cui affidarsi, qualcuno a cui poter dire: mi fido, ma io sono sola, diffidente... Ho solo un'unica speranza, un barlume nell'oscurità fredda e umida. So solo che è quella la luce che devo seguire.

   
 
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