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Autore: Klavdiya Erzsebet    22/11/2012    1 recensioni
Parte della serie Until Death Do Us Part
(Tornano Greg e Sophia Lestrade protagonisti. È dichiaratamente romantico, anche se l’amore non è il genere principale. E pensare che non credevo di essere capace di trattarlo anche solo minimamente.)
Una strana malattia colpisce Sophia Lestrade, e un caso particolarmente inspiegabile approda nell’ufficio di Greg. Due misteri, collegamenti inaspettati, una corsa contro il tempo e una modesta ipotesi di come l’amore per la vita abbia potuto portare alla morte: tutto è contorto. Talvolta è difficile determinare l’impossibile.
{Attenzione: fanfiction Greg–centrica a livelli vergognosi}
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Lestrade , Nuovo personaggio, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Until Death Do Us Part'
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Cap.XII

La Rabbia Paralizza

 

Il tonfo del libro contro il materasso e un dolore sordo alla gamba che sbatteva contro qualcosa di metallico mentre si girava gli fecero notare che si trovava fin troppo vicino alla brandina; Annabel Reimy era in piedi a un passo da lui, e sorrideva con le labbra rosse. I vestiti erano sporchi del sangue di Sophia.

Era più vicina lei alla borsa si stoffa bianca, eppure fu Greg a chinarsi per raccoglierla: allungò il braccio più che poté, improvvisamente intimorito dalla sola idea di sfiorare anche solo involontariamente la pelle olivastra di Annabel. “Come sei entrata?”

Lei sorrise e non parlò. Greg si sarebbe aspettato qualunque cosa di rassicurante – ho detto al proprietario che ero tua moglie, che ti cercavo disperatamente, che dovevo dirti una cosa importante (Sophia? Dio, fa’ di no). “È per Sophia?”

Annabel fece un passo avanti. Non rispondeva – perché non rispondeva? “Annabel. È successo qualcosa a Sophia?”

La ragazza allungò una mano e gli porse un’altra borsa: era la sua, questa volta. Dentro c’erano i jeans e la maglia di Sophia, più della biancheria e una felpa. Non le aveva preso una giacca, quando al buio aveva cercato a tastoni nell’armadio un ricambio per sua moglie. Avrebbe potuto avere freddo, tornando a casa – ma non era tornata. “Grazie. Sophia sta bene?”

“Sì, per ora” rispose Annabel. Greg sentì le gambe cedere.

“Cosa vuol dire?”

Lei si limitò a stringere più forte tra le dita il lungo manico della propria borsa. “Cos’è quel libro? Hai trovato qualcosa sui sintomi di Sophia? Come fai ad avere le cose che mi hanno rubato?”

Annabel sorrise e infilò una mano nella borsa, tenendocela così a lungo che Greg finì per temere di scoprire cosa ne avrebbe estratto; e quando vide il suo portafoglio di pelle marrone provò come un misto di sollievo, confusione e incredulità. Le dita della ragazza lo aprirono, e Greg notò di sfuggita che era stato svuotato. “Dove lo hai trovato?”

Lei lo piegò fino a mostrargli l’unica foto che ci teneva dentro: la sua famiglia. Per quanto si sforzasse di ripetersi che era una famiglia normale, non poteva fare a meno di notare ogni volta che erano solo loro due e nessun altro. Sophia era la sua famiglia e in quella foto vecchia eppure straordinariamente curata, per essere stata per anni dov’era stata, indossava l’abito da sposa bianco e invernale e sorrideva. Aveva solo ventisei anni.

Annabel tirò fuori dalla borsa anche l’orologio; quando lo vide Greg ebbe l’istinto di afferrarlo. “Come fai ad averli?” ripetè, questa volta molto più allarmato. La ragazza sfilò anche il cellulare.

La mano di Greg fu più veloce e le bloccò il polso mentre ancora stava riemergendo dal bordo della borsa; con l’altra, fece per prendere il portafoglio, o almeno l’orologio. Annabel li lasciò cadere, senza curarsene. Il suo pugno si schiantò sulla faccia di Greg, stordendolo; lasciò la presa sul braccio di lei e subito si ritrovò il proprio dietro la schiena, mentre dolorosamente girava su se stesso fino a ritrovarsi a guardare il muro sopra alla brandina. Annabel lo immobilizzò mentre con l’altra mano sollevava e metteva in disordine i vestiti di Sophia nell’altra borsa, fino a estrarne un coltello da cucina.

La lama era lunga e affilata e si posò sul suo collo; Greg si rese conto che avrebbe dovuto urlare, chiamare aiuto, fare qualcosa, nonostante lo sguardo di Annabel gli dicesse chiaro e tondo che tacere era l’unica cosa sensata che potesse fare. “La ami, vero?”. La domanda lo colse impreparato; forse la situazione era più semplice di quanto non sembrasse. Possibile che Annabel Reimy fosse solo gelosa – gelosa a tal punto da tentare di uccidere Sophia, in qualunque modo (anche con una finta maledizione?)?

“Annabel…” cominciò, incerto su come continuare.

“Ssh” lo zittì lei, e la lama gli accarezzò il collo senza ferirlo. La stretta sulle sue mani si allentò e Greg decise di agire.

Il suo gomito urtò il petto di Annabel, e la sua presa tremò; Greg percepì chiaramente il coltello tagliargli la pelle sotto la camicia. Si ritrovò le braccia improvvisamente libere e andò a toccarsi la ferita, ritrovandosi le dita bagnate di sangue.

Si distrasse troppo, forse; d’un tratto le mani di Annabel erano serrate intorno alla sua gola, sottraendogli l’aria. Le unghie erano affondate nel suo collo e le dita erano come i singoli tentacoli di una piovra: ognuna di loro stringeva, troppo forte per poter fare alcunchè. Cadde in ginocchio, all’improvviso, e forse bastò a far mollare la presa alla ragazza – ma il suo stupore durò solo un istante; qualcosa di duro urtò la tempia di Greg – il calcio di una pistola? Un rumore secco e per lui assordante: la brandina che si spostava di qualche centimetro e lui stesso che cadeva di faccia sul pavimento sudicio, battendo forte la spalla destra.

Annabel si chinò su di lui e cominciò a lavorare intorno alle sue mani, finchè Greg non sentì i polsi uniti saldamente da qualcosa che non riuscì a vedere; cercò di dibattersi ma il dolore alla testa era troppo forte. “Merda” disse cercando di alzare la voce; tutto quello che gli uscì fu un tono neutro, lo stesso con cui avrebbe detto ‘oh, è finito il tè’. Percepiva Annabel Reimy dietro di lui, eppure non riusciva a guardarla.

Tentò di girarsi soltanto con le gambe, dibattendosi. Un suono secco risuonò nello spazio claustrofobico della stanza esattamente un attimo prima che un dolore tremendo alla gamba lo facesse quasi urlare – e sperò che qualcuno nel motel l’avesse sentito, anche se in quel posto era sicuro che all’occorrenza fossero tutti sordi e un po’ ciechi. Era immobilizzato, quindi.

La vista cominciò ad offuscarsi e lui boccheggiò, praticamente insensibile, prono sul pavimento del motel. Non sentiva più la ferita sul petto, né la gamba. Annabel gli si inginocchiò accanto e lentamente gli slegò le mani; Greg ne sentì il tonfo, quando caddero inermi ai lati. Riuscì a scorgere la maglia viola di Sophia che aveva usato per legarlo; la borsa bianca da dove aveva estratto il coltello si era rovesciata, evidentemente quando il letto si era ribaltato.

Dentro c’era qualche foglio stampato a righe fitte, e una volta che smise di tremare Greg tentò di avvicinarsi. Osò guardarsi la gamba e si rese conto che era stato colpito solo di striscio. Annabel lo fissava e non diceva niente, come se si divertisse a vederlo arrancare; lui allungò la mano e riuscì ad afferrare un pezzo di carta, rendendosi conto che in realtà erano più fogli graffettati insieme.

C’era la foto di un ragazzo con i capelli rossi e gli occhi scuri come la pece; nel viso Greg notò una qualche somiglianza con Sophia, anche se non eccessiva. In alto a sinistra era stata fatta frettolosamente una croce.

In qualche modo riuscì a usare l’altra mano per girare la pagina e la prima cosa che vide fu un primo piano inquietante di Chris Lawrence, con i suoi grandi occhi verdi; era una bella foto, da cui era stata tagliata una seconda figura. Ricordò di averla già vista nel profilo di Facebook del ragazzo. Nell’angolo in alto a sinistra della pagina, nella stessa calligrafia tondeggiante dell’intestazione de La scienza del Male, c’erano solo due parole: ok e fatto.

Greg sentì un brivido risalirgli la schiena e voltò la pagina. Era una ragazza, questa volta, dal viso pulito e gli occhi chiari. C’era una vaga somiglianza, nelle labbra, ma la stessa croce che aveva visto sopra alla foto del primo ragazzo gli suggeriva che era stata scartata. Non era stato scelto nemmeno il successivo ma girando di nuovo pagina Greg riconobbe il viso doppiamente familiare di Luke Taylor.

Non sapeva cosa Annabel avesse cercato; ma era evidente che in lui l’aveva trovato. Doveva essere stata una bella fortuna, trovare quel volto assolutamente identico a Sophia tra i tanti catalogati. La sua foto era stata cerchiata e in effetti la somiglianza era spiccata: gli occhi verdi, le labbra, il naso. Sarebbe potuto essere suo fratello, oppure suo figlio.

Lesse la scheda dedicata a lui e trovò nome e cognome, subito prima di una sfilza di dati che Scotland Yard doveva avere trovato mentre lui era troppo ubriaco o disperato per lavorare sul serio.

Arrivava da Cardiff e studiava lì, a Londra; voleva diventare medico, per essere precisi. Ripensò alla sua fidanzata, la ragazza con gli occhi azzurri fuori dalla metro. Come era possibile voler diventare medici e fare una cosa del genere?

Annabel lo guardava, in silenzio. “Lo conoscevi?” le chiese.

“È un mio caro amico”

Mancavano poche pagine. Greg le scorse velocemente e vide solo crocette nella parte alta dei fogli, finchè non arrivò all’ultima scheda. Appena vide la foto trasalì; era una ragazza che non arrivava ai trent’anni, pallida e con gli occhi verdi, ed ebbe l’improvvisa visione di quello stesso volto contornato da un velo, in un giorno di tanti anni prima. Si chiamava Yuliya Qualcosa; viveva a Mosca.

“Chi è?” chiese, alzando lo sguardo. Sentiva un dolore sordo alla gamba e non riusciva ad alzarsi; sapeva che Annabel aveva ancora la pistola in mano.

“Yuliya” gli rispose solamente lei con un sorriso. La prossima candidata. “Arriverà tra una settimana”

“Cosa ti ha fatto di male?”

Annabel si chinò e accostò le labbra rosse al suo orecchio. “Niente” gli disse, col tono con cui si confida un segreto; “Non lo faccio per la rabbia. La rabbia paralizza”

“Perché sono tutti loro, allora?”

“Lo hanno scelto. Loro sono solo alcuni”

Greg andò a scorrere i fogli precedenti e vide i nomi di Paesi diversi – Svezia e Finlandia, soprattutto, ma la ragazza scartata con gli occhi chiari viveva in Florida, USA. Qualunque cosa fosse era folle e fin troppo estesa: volti di ragazzi con annessi ordigni esplosivi che appartenevano a ogni posto del mondo.

“Merda!” gridò Greg; gli venne da tossire ma non si curò di coprirsi la bocca con una mano, e il pavimento sotto di lui si ricoprì di fitte gocce rosso scuro. “Cos’hai fatto a Sophia?” urlò aggrappandosi alla brandina che si allontanava da lui al posto di reggerlo, e nell’istante in cui perse la presa sentì un dolore sordo sulla nuca.

 

***

 

Quando aprì gli occhi non avrebbe saputo dire con esattezza che ora fosse – e nemmeno che giorno, forse, ma soprattutto non aveva idea di cosa gli fosse appena capitato. Tentò di muoversi, piano, e sentì solo un dolore diffuso alla testa mentre la sua gamba destra era intorpidita, quasi insensibile.

Gli ci volle qualche momento per ricordare e appena ci riuscì sentì un nodo d’ansia alla gola; Annabel se n’era andata e aveva lasciato la stanza nel buio più totale, e tastando quasi istericamente il pavimento intorno a lui Greg si rese conto che si era portata via anche quei fogli.

No, fu la prima cosa che pensò. No. Attentato, settimana prossima, Yuliya. Continuò a cercare nell’oscurità finchè non trovò le gambe metalliche della brandina. Le sue mani tornarono indietro e all’altezza del suo viso trovarono del liquido denso – il suo sangue.

Le sfregò tra di loro, sperando di lavarselo via almeno un po’; tornò a esplorare, questa volta dalla parte opposta. Non trovò niente.

Poi si ricordò di avere ancora addosso la giacca – il riscaldamento nel motel non aveva mai funzionato; andò lentamente a cercare la tasca, estraendone il suo telefono nuovo (chissà se Annabel si era portata via quello che gli aveva rubato).

Pigiò il tre, a lungo, ma subito mise giù. Non era quello di servizio. Non doveva chiamare sua madre. Il due però corrispondeva a Sophia in entrambi: aveva sempre paura che le succedesse qualcosa, si era sempre illuso che sarebbe stato pronto. In realtà, l’aveva colto totalmente alla sprovvista.

Passò in rassegna la rubrica per un tempo che gli parve infinito – prima di trovare la S, almeno. Sherlock. Lo chiamò e attese.

Non rispondeva; Greg si rese conto di non aver nemmeno controllato l’ora. Si staccò un attimo l’apparecchio dall’orecchio e vide con orrore che erano le quattro del mattino. Fuori non sentiva la pioggia – era una cosa positiva? In ogni caso, faceva freddo; lo sentiva nonostante le calze pesanti che indossava (dov’erano le scarpe?).

“Lestrade?” rispose una voce stranamente sveglia. Greg realizzò che in qualche modo aveva trovato la posta vincente.

“Sherlock” si limitò a dire. Di sottofondo sentiva la voce ansiosa di John – ‘cos’è successo? Un altro attentato? È Lestrade?’. “Vieni, per favore” implorò lui, rendendosi conto che non riusciva a muoversi né ad alzarsi e a stento a parlare. Gli diede l’indirizzo del motel, poi mise giù. ‘Ti prego’, aggiunse forse, ma smise ben presto di ascoltarsi. Il cellulare morì esattamente un attimo prima che potesse mettere giù e sperò che Sherlock arrivasse presto – non poteva fare niente, se non aspettare.

  
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