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Autore: _vally_    10/06/2007    5 recensioni
Questa fanfiction è il seguito di "Fumi", il seguito della folle notte in cui l'alcool ha fatto accadere cose, ha permesso momenti... Storia Huddy, ma spazio a tutto e a tutti: un caso medico, del lavoro da svolgere, delle conseguenze da affrontare.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Grazie davvero a chi ha recensito il primo capitolo!

Wilson spettinato è piaciuto anche a me...devo ammettere che ho la fissa con l'aspetto delle persone appena sveglie...qui nel 2° cap ne avrete un altro assaggio!

Buona lettura, e a presto!!!

 

2- IL MIO INIZIO DIFFICILE

 

19 ottobre 2006, h 08.30 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Ufficio di House

 

Chase era in ritardo.

Erano rimasti d’accordo di trovarsi prima delle 8 quella mattina: avevano un articolo da  preparare, tutti e tre insieme, e le uniche ore di calma erano quelle di prima mattina, quando House non c’era ancora.

Era stata dura per Cameron convincere Foreman a fare qualcosa di importante tutti insieme, e ora sentiva il peso del ritardo del collega tutto su di sé.

Gli sguardi accusatori che il neurologo le lanciava ogni due minuti non facilitavano certo le cose.

Prese il cellulare e fece partire la stessa chiamata che stava facendo ormai da più di mezz’ora.

Niente, Chase non rispondeva al telefono.

“Non vorrei che fosse successo qualcosa…” disse titubante.

Chase considerava quell’articolo come un’opportunità importante, non era da lui ritardare così senza neanche avvisare.

Come risposta, ricevette solo un sorrisetto sarcastico da parte di Foreman che, scuotendo la testa, finì in un sorso il suo terzo caffè della mattina.

Come se non fosse già abbastanza nervoso di suo…

“Devo ricordarmi di sostituire la miscela con quella decaffeinata.” pensò Cameron, mentre osservava speranzosa la porta di vetro, pregando che il collega comparisse il prima possibile.

“Starà dormendo.” disse ad un tratto il neurologo, alzandosi e dirigendosi per l’ennesima volta verso la macchinetta del caffè.

“Ancora caffè?!” chiese la dottoressa, posando su di lui uno sguardo accusatorio.

“Si. Mi sono svegliato un’ora prima del solito per esser qui all’orario che abbiamo concordato. Ho puntato la sveglia prima, come hai fatto tu. Non è difficile, possono farlo tutti. Se vogliono.”

“Simpatico…” pensò ironica Allison, mentre sorrideva imbarazzata al collega.

Guardò l’orologio: 8.45.

Incominciava davvero ad essere preoccupata per Chase…non era da lui… Sapeva che lei ci teneva a quest’articolo, e…non l’avrebbe mai delusa di proposito.

Si alzò, afferrando la giacca e indossandola rapidamente. “Vado a casa sua.” disse,  dirigendosi alla porta “Tanto House non sarà qui prima delle 9.30.”

“Ma dai, Cameron! Starà dormendo, cosa vuoi che sia successo?” Foreman usò quel tono che lei odiava: accondiscendente. Le parlava come se stesse cercando di far ragionare una ragazzina adolescente.

“Magari alla miscela decaffeinata ci aggiungo anche un po’ Guttalax” pensò, mentre rivolgeva al neurologo un sorriso insicuro.

“Preferisco controllare. Ok?” si limitò a dire.

“Come vuoi.”

Mentre Cameron varcava per la seconda volta in un’ora la porta del PPTH, House, a qualche chilometro di distanza, raccoglieva dal pavimento della sua camera da letto una maglia sgualcita.

E sorrideva.

 

19 ottobre 2006, h 08.45 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Sala conferenze

 

Lisa Cuddy entrò trafelata nella grossa stanza, e si bloccò improvvisamente, sentendo tutti quegli occhi puntati su di lei.

Troppi occhi.

In effetti, non le era mai capitato di arrivare in ritardo ad un incontro così importante. Se c’era un ritardo lei era sempre dall’altra parte, lei era quella che ammoniva con lo sguardo.

Fece ammenda di essere più indulgente con i poveri ritardatari da oggi in poi.

Fece un respiro profondo, tentò un sorriso e, pregando che nessuno si accorgesse delle profonde occhiaie nascoste dal correttore, si buttò nella fossa dei leoni.

“Buongiorno, scusate il ritardo.”

Sorridente.

Amabile.

“Nessun problema dottoressa, a lei un ritardo di un quarto d’ora lo perdoniamo volentieri.”

Grazie al cielo era nata donna…

 

19 ottobre 2006, h 08.55 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital -Ufficio di House

 

Foreman, ormai solo e innervosito dal risveglio di quella mattina, stava sfogliando pigramente un giornaletto di enigmistica, abbandonato la sera prima da Chase.

Sentendo dei passi, alzò lo sguardo speranzoso.

“Hai qualcosa per me?” chiese a Wilson, appena varcò la soglia.

“Buongiorno anche a te.” rispose sarcastico l’oncologo, guardandosi in giro. “Non c’è nessuno?”

Foreman allargò le braccia al vuoto attorno a sé. “Ci sono io, e sono qui dalle 7.30 a bere caffè. Hai qualcosa per me?”

Wilson appoggiò distrattamente una cartella sulla scrivania. “Si, ho bisogno di tutti voi. House?”

Il neurologo, di risposta, indicò l’orologio.

L’oncologo annuì. “Chase? Cameron?”

“Chase non si è fatto sentire stamattina, e Cameron è andata a controllare che sia ancora vivo.”

Un’espressione perplessa si dipinse sul volto di Wilson, che decise però di lasciar perdere. “Ok, allora puoi leggere intanto la cartella. Mark Shone, 22 anni. E’ un mio paziente ma…dai un’occhiata!”

Foreman afferrò la cartella del paziente e, dimenticando finalmente il suo caffè, incominciò a leggerla.

“Fammi chiamare da House appena arriva.”

“…”

“Foreman!”

“Cosa?”

“House. Quando arriva House ho bisogno di parlarci. Sono in ambulatorio.”

“Si, certo.”

Wilson rimase a guardare qualche secondo il neurologo, pensieroso.

“Potrei rasarmi a zero come lui…”

Scacciò subito quella stupida idea, e lasciò la stanza.

 

19 ottobre 2006, h 9.00 am

Appartamento di Robert Chase

 

Era la terza volta che Allison schiacciava il campanello di casa del collega, e incominciava seriamente a preoccuparsi.

Stava già pensando di suonare a qualche vicino per chiedere notizie, quando finalmente la porta si aprì.

Chase, a petto nudo e con la faccia stravolta, la guardava incredulo. “Cameron…che ci fai qui a quest’ora?”

“Sono le 9.” rispose lei titubante “L’articolo…”

“L’articolo…” ripeté il collega, passandosi una mano sul viso assonnato. “Scusa…è che…Non è suonata la sveglia. Foreman mi ucciderà.”

“Probabile.” L’immunologa accennò un sorriso imbarazzato.

Aveva ragione Foreman, colpa della sveglia.

Si sentiva terribilmente stupida per essersi preoccupata in quel modo.

“Mi preparo subito.” farfugliò Chase, continuando a passarsi una mano sugli occhi.

La testa lo stava uccidendo.

Spalancò del tutto la porta, facendo gesto di entrare alla collega.

Lei esitò qualche secondo, e poi entrò: era la prima volta che vedeva l’appartamento di Chase, e si stupì di trovarlo così in ordine, ben arredato e…quadri, quadri ovunque!

“Che bella casa.” disse la dottoressa, guardandosi attorno.

“Rob è un’esteta!”

Cameron si voltò nella direzione della voce che aveva parlato: un ragazzo sulla trentina, con indosso solo un paio di boxer, la guardava sorridente appoggiato allo stipite di una porta.

Si diresse deciso verso di lei, porgendole la mano: “Sono William, piacere!”

“Allison.” rispose lei, disorientata.

Temeva di trovare qualcuno a casa del collega, ma non certo un ragazzo che si aggirava mezzo nudo e con l’aria di chi ha passato lì la notte.

“Si, immaginavo. Robert mi ha parlato di te.” continuò William, sfoggiando uno dei suoi migliori sorrisi.

“Ok Will, ora torna pure a dormire, io devo andare a lavorare.” si intromise Chase, prendendo per un braccio la collega e attirando così la sua attenzione. “Beviamo un caffè e poi mi preparo, va bene?”

“Certo.”

Si sedettero in cucina.

Chase incominciò a trafficare con tazze e pentolini, passandosi spesso una mano sul viso.

“Non ti senti bene?” chiese la collega, notando le occhiaie e la faccia distrutta del collega.

“No.” ammise lui, sedendosi di fronte a lei e passandole una tazza di caffè fumante. “Ieri sera mi sono ubriacato, mi ha portato a casa William praticamente in braccio, e a ditti la verità, la sveglia non l’ho neanche puntata.”

Disse tutto in un fiato, sicuro che la collega l’avrebbe coperto.

Si fidava di lei.

“Immaginavo qualcosa di simile...” rispose lei sorridendo “Ma facciamo in modo che Foreman non lo sappia, o mi rinfaccerà a vita di essere troppo apprensiva.”

“Ok, mi hai trovato svenuto sul pavimento!”

Risero insieme, complici.

William entrò in cucina, si versò un bicchiere d’acqua ed uscì, senza dire una parola.

Cameron guardò il collega, aspettandosi una spiegazione.

“Cosa c’è?” chiese Chase “Perché mi guardi così?”

“E’ per…” era imbarazzata “Lui…William.”

“Cosa?”

Cameron non rispose, limitandosi a guardarlo esitante.

Chase assunse un’espressione incredula. “Credi che io sia gay?” disse ridendo.

“No, non volevo dire questo!” mentì Cameron.

In effetti l’idea le era passata per la testa.

“Il fatto che una donna con cui sei stato a letto creda che tu sia gay, mi lascia molto da pensare.” esclamò William, spuntato da chissà dove.

Ridendo, sparì un’altra volta dalla stanza.

L’intensivista posò uno sguardo rassegnato sulla collega. “Grazie tante, mi tormenterà per mesi.”

“Ma io… E’ solo che non mi aspettavo di trovare un uomo a casa tua. Poi così…svestito!”

Chase si prese la testa tra le mani. “E’ un mio carissimo amico.” mugugnò sconsolato.

“Ehi carissimo amico! Ora che te ne vai posso buttarmi sul tuo letto? Quel divano mi ha ucciso stanotte.”

“Fai pure.” rispose Chase alzandosi. “Divano.” Continuò poi rivolto alla collega. “Ha dormito sul divano.”

Cameron annuì, pentita per le allusioni fatte.

“Prendo un’aspirina, mi vesto e andiamo. Prima che arrivi anche House.”

Chase uscì dalla cucina, lasciandola pensierosa, seduta al tavolo con la tazza di caffè ormai vuota ancora stretta tra le mani.

“Che bella casa” pensò.

Senza che ne capisse il motivo, le venne una gran voglia di abbracciarlo.

 

19 ottobre 2006, h 09.45 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital -Ufficio di House

 

House entrò in ufficio con passo spedito.

“Buongiorno!” esclamò.

Foreman alzò uno sguardo perplesso dalla cartella che stava leggendo. “Sei…allegro?!”

“Dove sono tutti?”

“Ti sei fatto la barba?!”

“Cameron e Chase?”

“Hai la camicia perfettamente stirata…”

Prima che potessero aggiungere altro, Chase e Cameron varcarono la soglia dell’ufficio.

“Ti sei fatto la barba!” Cameron era piacevolmente stupita.

“Troppo tardi, la gara delle ovvietà l’ha vinta Foreman qualche secondo fa.”

“Stai bene così.” disse Chase, ignorando il sarcasmo del suo capo.

House, di risposta, gli rivolse uno sguardo truce. “Anche tu stai bene. Le occhiaie ti donano. Dovresti ubriacarti fino a vomitare l’anima un po’ più spesso.”

Chase incassò la battuta in silenzio: stava riflettendo.

Aveva ricordi confusi della sera precedente: Cuddy ubriaca quanto lui, quel bagno.

House che li scopriva e li ricopriva di battute sarcastiche.

Il fratello della Cuddy, e poi la sua fuga.

Un’idea incominciò a farsi largo nella sua testa…

Sorrise al suo capo. “Alla fine è stata una bella serata, no?”

Cameron e Foreman, all’oscuro del loro incontro della sera precedente, li guardavano disorientati.

House si limitò a fissare per qualche istante il suo assistente, e poi strappò malamente la cartella di mano al neurologo. “Che abbiamo qui?”

“Maschio, 22 anni. Cancro ai polmoni, metastasi a fegato e pancreas.”

“Merce per Wilson.” tagliò corto House, richiudendo subito la cartella e gettandola sul tavolo più vicino.

“Non più.” lo corresse Foreman, attirando l’attenzione degli altri tre medici.

House riprese la cartella e incominciò a sfogliarla con cura.

“Due settimane fa il ragazzo viene in ospedale per farsi dare le sue medicine. Dice a Wilson di sentirsi molto meglio, e lui gli fa fare un controllo.”

Ormai gli occhi di tutti erano fissi sul neurologo.

“Non c’era più niente.” concluse questi. “Polmoni puliti, idem per fegato e pancreas.”

“Non è possibile.” Cameron si avvicinò alle spalle di House cercando di leggere la cartella.

Il diagnosta se la attaccò gelosamente al petto, voltandosi e guardandola torvo.

“Tu stai lontana da questo ragazzo.”

“Perché?”

“Perché scopriremo che ha ancora il cancro, e tu te lo vorrai sposare!”

Cameron alzò gli occhi al soffitto, e si scostò dal suo capo, appoggiandosi alla scrivania e incrociando le braccia, offesa.

“Ok, aveva un cancro ed è sparito… Sta bene. Perché abbiamo noi la sua cartella?” chiese Chase.

“Perché stava bene. Fino a due giorni fa, quando l’hanno ricoverato d’urgenza. E’ venuto al pronto soccorso per dispnea; gli hanno fatto un controllo aspettandosi di ritrovare il tumore, ma niente. Stavano per rimandarlo a casa, quando ha avuto un infarto. Dagli esami risulta che il cuore è sano.” spiegò Foreman.

“E’ cancro!” ripeté House. “Dev’esserci stato un errore negli esami. Trovatelo.”

“Ma se sei convinto che sia cancro, perché non rimandi la cartella a Wilson?” chiese Cameron.

“Perché tu e Chase siete arrivati in ritardo, e Foreman …ha una cravatta che non mi piace!”

I suoi assistenti lo guardavano con aria interrogativa.

“Vi voglio fuori di qui, fate tutti gli esami che potete al paziente di Wilson, rivoltatelo come un calzino e trovate quel tumore. Se finite presto…ho qualche ora arretrata di ambulatorio che potete fare al posto mio. Non voglio vedervi per tutto il giorno.”

I tre assistenti rimasero qualche istante immobili, stupiti dal cambiamento d’umore improvviso del loro capo.

“Meno male che era allegro…” pensò Foreman, mentre recuperava la cartella e precedeva i colleghi fuori dalla sala.

“Ma che gli è successo?” chiese Cameron ai colleghi, una volta arrivati agli ascensori.

“E’ colpa vostra.” affermò Foreman sicuro. “E’ entrato che sembrava quasi…felice. Poi Chase ha aperto bocca ed House è tornato il bastardo di sempre. A proposito…di che serata stavi parlando prima?” chiese poi rivolto all’intensivista.

“Niente, ci siamo incontrati per caso.” i due colleghi lo guardavano sulle spine. “Tutto qui!” concluse.

Non aveva nessuna intenzione di parlare con Foreman degli incontri della notte precedente.

A Cameron magari l’avrebbe detto, ma non adesso.

Ora voleva trovare quel tumore il prima possibile, e tornare a casa a dormire; la testa aveva ricominciato a pulsare in modo insopportabile.

 

House si sedette dietro la sua scrivania.

Rimase per qualche minuto con lo sguardo perso nel vuoto, cercando di riflettere.

Stava bene, fino a qualche minuto prima.

Gli era bastato quel riferimento di Chase alla serata precedente per fargli precipitare l’umore.

“Guastafeste di un australiano!”

Non ci aveva ancora pensato quella mattina.

Non aveva pensato al fatto che Chase aveva lasciato Cuddy, ubriaca, con lui; che poteva sospettare qualcosa. Anche il fatto che quella mattina Cuddy era andata a prendere Wilson, confermando i suoi sospetti sollevati dalla telefonata di quella notte, era una cosa a cui non aveva pensato.

Tutto questo lo innervosiva.

Quello che era accaduto quella notte era suo e basta.

Magari anche un po’ di Cuddy.

Ma di nessun altro.

Era dei momenti suoi, privati, di cui era geloso.

Nessuno ne doveva parlare, nessuno ci doveva nemmeno pensare.

Lo squillo del telefono lo fese sobbalzare.

Sollevò la cornetta e l’avvicinò all’orecchio, senza dire niente.

“House?”

La voce famigliare del suo migliore amico gli arrivò confusa al mormorio della sala d’aspetto dell’ambulatorio.

“Mhm…”

“Stai bene?”

“Stavo meglio prima di sentire la tua voce.”

Wilson sospirò, capendo all’istante il tono dell’umore dell’amico. “Foreman ti ha detto che ti devo parlare?”

“No.”

“Come immaginavo…Puoi raggiungermi in ambulatorio?”

“No.”

“Ok... Salgo io. Dammi 10 minuti.”

“No.”

“House…Mi è venuta a prendere Cuddy stamattina, con la mia macchina.”

La forte sensazione che stessero intaccando qualcosa di SUO lo colpì ancora più forte. Senza replicare nulla, riattaccò.

 

19 ottobre 2006, h 11.15 am

Princenton Plaisboro Teaching Hospital-Sala conferenze

 

Quella dannata riunione era finita.

Finalmente.

Cuddy aspettò che fossero usciti tutti prima di lasciare anche lei la sala, chiudendola a chiave.

Camminò svelta verso il suo ufficio, ignorando il richiamo di un’infermiera. Qualunque cosa doveva firmare, avrebbe aspettato.

Si chiuse la porta alle spalle, chiuse le tendine e, toltasi le scarpe, si lasciò cadere sul suo divano.

Quella riunione era stata terribile. Non per quello che avevano analizzato, valutato, approvato o respinto. Quello neanche se lo ricordava.

Era stata terribile perché l’aveva costretta a ragionare, a pensare razionalmente, a concentrarsi su tutte quelle parole senza senso.

Lei aveva solo una cosa in testa, ed erano delle immagini: il divano di House, la maglia di House, il letto di House.

In quel momento quello era tutto ciò che aveva senso per lei.

Erano immagini violente, invadenti, che le risvegliavano le sensazioni di quella notte.

Aveva provato a cacciarle, ci provava dall’istante in cui si era chiusa alle spalle la porta di casa di House.

Niente; tornavano e tornavano, stordendola.

Non poteva essere così sconvolta per una notte di sesso, non lei.

Non ci sarebbero stati problemi…i rapporti tra lei e House sarebbero presti tornati come prima, magari ci avrebbero anche riso sopra, assieme.

Erano due adulti.

No, non era quello il problema.

Il problema erano le immagini, le sensazioni.

Ancora quel divano, ancora quel letto, nella sua testa.

Ancora, ancora e ancora.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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