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Autore: londonici    24/11/2012    1 recensioni
Hayley, sedicenne di Beverly Hills, sembra la tipica ragazza che mette il broncio giusto per essere diversa. Una grande passione per i Paramore e un gruppo di amici eccezionali la aiuteranno a superare i primi "piccoli" problemi della sua vita. Ma poi si aggiunge Hitch, un rapper diciannovenne di fama mondiale, e tutto cambierà all'improvviso...
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Scolastico
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Anche mercoledì optai per una falsa malattia. A Jenna dissi che sì, stavo un pochino meglio, ma non volevo rischiare.

E lei se l'era bevuta.

Certo che non volevo rischiare. Non volevo rischiare un faccia a faccia con Jess o Jim. Adam sarebbe stato a scuola.

Beh, e io no.

Solito orario.

I gemelli erano a casa, li salutai dalla finestra di camera mia senza nemmeno fingermi in fin di vita. Jamie di sicuro aveva intuito quale fosse il mio vero “malessere”. Probabilmente anche Lara.

Jenna se ne stava al piano di sotto, la sentivo armeggiare con i trucchi e con le chiavi di casa.

«Tesoro, sto uscendo. Hai bisogno di qualcosa?», gridò dal salotto.

«No», urlai seduta alla scrivania. Presi un pennarello e iniziai a scarabocchiare sul gesso. Grazie al cielo mi ero rotta il braccio sinistro e non il destro.

Risi quando sentii il campanello proprio mentre Jenna stava aprendo la porta.

La voce di Adam tranquillizzava quella di mia madre, già rasserenata dalla presenza del nipote del suo uscente.

E pensare che Adam (volendo) poteva anche essere considerato il mio uscente. Non sarebbe stato illegale, se fosse stato possibile? Boh. Non era un mio problema, questo no.

Jenna salutò per l'ennesima volta e lui comparve sulla soglia di camera mia.

«Non penso che mi lascerebbe entrare così facilmente se sapesse cosa facciamo io e te quando siamo soli», mi salutò appoggiandosi al muro vicino a me.

«Beh. Anche quando non siamo soli, a dirla tutta. Ieri al piano di sotto c'era un tuo stretto parente, e una mia strettissima madre, capisci?», sorrisi alzando un occhio verso di lui. Polo verde scuro. Lo stesso verde dei suoi occhi. Jeans neri perfetti. Vans ai piedi. Da quando era arrivato aveva la carnagione più scura. E la barba appena accennata.

Sospirai e tornai a scarabocchiare sul mio gesso la frase “It's not faith if you use your eyes”, non è fede se usi i tuoi occhi. Hayley Williams la dice spesso quando canta “Miracle”, e io le credo. Insomma, se ti serve la vista per crederci, allora non è fede, ti pare? Anche se ammetto che questa frase non vale molto per me: io non ho fede in praticamente niente.

«Scrivi sul tuo gesso», constatò.

«Mmh-mmh», annuii impegnata.

«E non sei venuta a scuola nemmeno oggi. La gente mormora».

«E allora la gente andrà a farsi benedire. Oggi sono quasi di buon umore, non rovinarmi la giornata con cose che non vorrei sentire».

«Okay», concordò sedendosi accanto a me. Mi prese il pennarello dalle mani e, con delicatezza, pose il mio gesso sotto la sua vista.

«Posso scriverci io? È abbastanza triste avere un gesso e scriversi da soli le frasi, sai?».

Restai stupita. «Certo, scrivi pure», concordai. Ero curiosissima.

Restammo in religioso silenzio per qualche secondo. Poi, senza alzare lo sguardo dal gesso, mi chiese:

«Dimmi la verità, non vieni a scuola perché vuoi evitare me o perché vuoi evitare Jess?». Sembrava relativamente tranquillo parlando di quello che era stato il suo rivale.

«Numero due», risposi atona sospirando. «E non arrabbiarti, sono ancora la ragazzina che scappa dai suoi problemi, se può».

«Ma non stai scappando da me», affermò soddisfatto. «Quindi non sono un tuo problema».

Risi debolmente. «Tu sei un problema diverso. Tu sei una sfida, e io vincerò questa sfida».

«Quindi possiamo anche dire che non sei venuta a scuola perché vuoi vincere la sfida. Diciamocela tutta, oggi non c'eri perché sapevi che non mi avresti resistito avendomi intorno...», insinuò guardandomi con troppa insistenza. Cielo.

«Beh. Guarda che tu adesso sei qua, e le mie ginocchia sono ben chiuse», mi vantai.

«Perché non mi ci sto impegnando». Alzò gli occhi dalla sua scritta e mi sorrise appena.

«Che idiota», dissi arrossendo. Rise di me, e io cambiai argomento. «Che scrivi?».

Stava giusto concludendo l'ultima lettera, almeno così sembrava.

«Ti ho scritto “Heroin(e)”. Vuoi che te la spieghi?», fece strafottente ma sarcastico.

«Sì, dai, illuminami», accettai frivola.

«Okay. “Heroin” – con il significato di droga, hai presente? – è il titolo di una mia canzone. In tanti pensano che io l'abbia scritta parlando di un'amante pericolosa, una ragazza che poteva passare come Delilah. In realtà non si trattava di me o di lei; l'amante pericolosa era l'eroina. E si trattava di mio fratello. O volendo anche di me».

Deglutii e mi finsi a mio agio. «E poi c'è quella “e” tra parentesi...», lo incitai.

«Che fa diventare “Heroin” un “Heroine”. Sai, una persona eroica. E quella sei tu, la mia eroina. In tutti i sensi, sia brutti che belli». Mi fissò troppo a lungo.

«Eroina», ripetei allucinata. «Sia come droga che come eroe».

«Sì», rispose serio, con gli occhi dentro ai miei. Come faceva a restare serio e irremovibile?

Passarono un paio di minuti in cui sentii mancarmi le forze.

«Lo stai rifacendo», lo ammonii senza convinzione.

«Cosa?», fece abbozzando un sorrisetto cinico.

«Non mi seduci, stavolta». Sembrava tutt'altro dalla mia voce vulnerabile.

«Non ci stavo nemmeno provando». Si stava pavoneggiando.

«Buon per te, perché resteresti a bocca asciutta».

«E chi ha parlato di bocca?», rise genuino. E io con lui.

«Sei diventato spiritoso a starmi vicino, vedi?». Feci un respiro profondo e mi appoggiai sullo schienale della sedia, diminuendo la vicinanza pericolosa.

«Non solo spiritoso. Anche un rammollito indeciso».

Ahia. Non rideva più nessuno, adesso.

«Indeciso», ripetei amareggiata.

«Non voglio andare in tour», disse convinto.

«Ma...?».

«Ma non è così facile come sembra. Ho un contratto. Anche se, per quello che mi importa, potrei anche lasciar perdere tutto».

Feci una smorfia di delusione chiudendo gli occhi. «No che non puoi. Non si interrompono le carriere promettenti solo per stare con me. Non valgo tanto».

«Ma per favore, sei una malata di vittimismo che continua a sottovalutarsi. Questo mi fa pensare che tu non tenga a me tanto quanto io tengo a te».

«Okay, stiamo perdendo il filo logico e stiamo sparando entrambi cazzate. Forse dovremmo parlarne più in là», proposi agitata. Non sapevo rigirarmi in un discorso simile.

«È esattamente quello che ti ho detto ieri, solo che eri così incazzata e fuori di testa che mi volevi uccidere».

«Ho sbollito la rabbia, adesso. E non mi va di incazzarmi di nuovo».

«Sono d'accordo con te», fece concentrato. Si alzò dalla sedia e mi guardò di sbieco. «Ma ti prego, ti prego, domani vieni a scuola. E vienici con me».

 

Quella sera Jamie e Travis passarono da casa mia, dopo cena. Ero in giardino, accucciata su una sdraio.

«Hey, Hay!», salutarono in coro. Mi stupii del fatto che anche Travis mi avesse salutato con tanta enfasi, ma decisi di non fare troppo la schizzinosa.

«Ragazzi, ciao!». Era bello vederli insieme. Sorrisi senza nemmeno accorgermene.

«La smetti di fingerti malata, frignona?». Jamie, sempre a centrare il punto con naturalezza e stile.

«Già, è una noia insultare Dana e Bree senza di te», proseguì Travis. «E poi è da un paio di giorni che ti devo delle scuse per come mi sono comportato con te. Anche Chris voleva fartele, credo che domani si farà avanti – sempre se verrai a scuola».

«Scuse?», feci finta di niente.

«Sì, sai... Jess non può impormi di odiarti. Tu non mi hai fatto niente. Io conosco te da sedici anni, e lui da sei. Dieci anni non si cancellano per una scaramuccia che nemmeno mi riguarda, no?», disse sorridendo.

«Non ce l'avevo con te, Travis. Non sono arrabbiata».

«Ma domani vieni a scuola?», si intromise Jamie.

Sì, e già che ci sono vi dico anche che passa Adam, dite a Chris di non aspettarmi, volevo dire. Solo che mi mancò lo slancio completo.

«Sì, sì. Ecco, però...».

«Okay, passa il rapper», capì al volo Travis. Fantastico!

Trattenni il mio sollievo con un semplice “esatto, bravo”. Jamie mi sorrise complice e mi chiese di firmare il gesso.

Nessuno mi chiese di “Heroin(e)”.

Anzi, iniziammo a giocare al Link Game senza nemmeno accorgercene.

Casa, dolce casa.

I gemelli avevano di gran lunga il miglior intuito del mondo. O semplice buon senso, dipende dai punti di vista.

 

«Sai la faccia di Dana quando arriveremo a scuola», dissi preoccupata, più che vanitosa.

«Sai le foto dei paparazzi sul web, domani», rincarò la dose Adam. Eravamo chiusi in macchina da cinque minuti, in attesa che mi tornasse il coraggio per tornare a camminare a testa alta in quel carcere adolescenziale. Mi sentivo in convalescenza.

«Avanti, Hayley, non sono una piaga. Andiamo o no?», fece spazientito.

Annuii poco convinta. «Questa vale come uscita pubblica?».

«Ma che ti frega? Apri quel dannato sportello e sgambettiamo fino in classe, pivella», mi prese in giro con una vena di impazienza nella voce.

E va bene.

Dovevo smetterla di dare così tanto peso ai giudizi altrui.

Feci un respiro profondissimo e aprii lo sportello, trovandomi Adam già di fronte, in piedi. Chiuse lo sportello al posto mio e si comportò come se nulla fosse.

Ero alla luce del sole da nemmeno due secondi, e già tutti mi guardavano increduli. Fissavano prima me, poi Adam, poi di nuovo me.

«Forza», mi incoraggiò Adam mettendomi una mano intorno alla vita in modo non troppo spudorato.

«Sì», feci senza fissare troppo tutte le ragazze che parlavano le une alle orecchie delle altre. Sorridevano acide, poi mi squadravano e tornavano a parlare sottovoce.

E poi vidi il volto che meno volevo vedere, quello da cui stavo scappando.

Storse la bocca in una smorfia schifata, mi guardò malissimo per due secondi e poi mi voltò le spalle, andando a sparire dietro la sua moto insormontabile.

Ebbi un crampo allo stomaco e proseguii fino al mio armadietto.

Jim era lì, che mi aspettava. Merda.

Dalla sua faccia dedussi che non aveva preso in considerazione Adam, che subito scattò in avanti.

«Morrissey?!», fece Jim preso in contropiede.

«Faresti meglio a sparire subito», rispose.

«Ti è stato recapitato il messaggio?». Adesso Jim non lo temeva più, anzi. Strafottente come non mai, fissava me con aria maliziosa, e poi lui con uno sguardo atroce.

Dio mio, ma perché proprio a me?

«No, e fidati se ti dico che è meglio per tutti se non ne vengo a conoscenza». Presi le distanze da Adam. Così mi spaventava. Parecchio.

«Come ti pare. Sappi solo che non mi spaventi». Fece un passo avanti verso di me e mi mise una ciocca di capelli dietro l'orecchio. Nemmeno lo guardai in faccia.

«E tu sappi solo che sono in grado di romperti le ossa...», Adam fece una pausa e afferrò la mano di Jim con violenza disumana, «... anche adesso». Strinse la presa e sentii un crack poco raccomandabile. Jim cacciò un urlo da far accapponare la pelle e subito si allontanò, con la mano dolorante.

«Non è rotta, è solo... indolenzita. Se la vuoi rompere, fammi un fischio», minacciò Adam. Jim era già sparito da un pezzo. Per ora il momento era stato scongiurato.

Tirai un sospiro di sollievo e mi lasciai cadere sugli armadietti.

Adam non parlava più, mi guardava e basta.

«Così non va», dissi furiosa. «Datti una calmata». Presi un paio di libri e sbattei lo sportellino dell'armadietto. «Così proprio no».

E camminai veloce lontano da lui, filando in classe molto prima del suono della campanella.

Forse non era questa gran cosa essere una specie di droga. A cosa avrebbe portato? Cosa avremmo risolto?

Forse dovevo iniziare a preoccuparmi. Ma di chi?

   
 
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