Storie originali > Introspettivo
Segui la storia  |       
Autore: Glenda    25/11/2012    1 recensioni
Questa è una storia scritta molto tempo fa, e l'affetto che ho per questo sito fa si che voglia condividerla con tutti voi. Nella Firenze degli anni novanta, Mattia, studente fuori sede, affronta il primo anno all'università di lettere. E' solo in una città che non conosce, impacciato, timoroso, ma soprattutto confuso su se stesso e sulla sua capacità di vivere la propria giovinezza pienamente, di saper veramente gioire, soffrire, buttarsi nella vita, amare. Gli serviranno incontri importanti per iniziare a capire, incontri con amici speciali: amici "della razza che non rimane a terra". Storia d'adolescenza, di formazione, d'amore e amicizia che tenta di rispondere ad un vecchio quesito: ma la vita, davvero, come diceva Pirandello, "o si vive o si scrive"?
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

X

 

 

 

 

 

"E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell'inquietudine

e del vano desiderio -

È una barca che anela al mare eppure lo teme".

 

(E.L. Masters)

 

 

 

 

 

- Signor Loira, santo Iddio, lei è impazzito! - esordì Mauro Nissori non appena io fui comparso sulla soglia di casa e gli ebbi teso la mano.

Era venuto addirittura a suonare il mio campanello, non avendo saputo aspettare di trovarmi in redazione il mattino successivo. Fui costretto ad invitarlo a passare in salotto, mi aveva fatto subito capire che non sarebbe stato affare da poco sbarazzarsi di lui.

- Si rende conto di che cosa ci accusa? E' una calunnia, perbacco, è un'infamia! Siamo lavoratori onesti, siamo sempre stati in regola...Scusi se mi scaldo, sa, ma qui si va ben oltre le insinuazioni del suo scomparso collega. Scizio, almeno, si "limitava" a rinfacciarci delle presunte tangenti! Ma da questo a pensare...Come diavolo le è saltato in mente, Loira? Se non altro mi spieghi in base a che criterio, con quali prove, lei abbia potuto mettere su una montatura del genere! -

Non mi scomposi: il modo in cui il terribile dirigente si accalorava con me, che aveva sempre trattato come il galoppino di Filippo Scizio, mi procurava una cattiva soddisfazione. Ma guarda un po': mi considerava persino più avventato dell' "implacabile direttore"!...Aveva forse paura, il Nissori?

- Spiacente di doverla contraddire - risposi, ostentando una sufficienza glaciale - Ma è stato proprio il mio "scomparso collega" a fornirmi i dati in base a cui formulare la denuncia. Abbia pazienza, sa, ma sto dando per scontato che lei rivesta un ruolo di un certo peso, e quindi non sia estraneo alle sfere di gestione della sua prestigiosa società...Ma naturalmente è più che possibile che mi sbagli! Comunque sono sicuro che lei fosse al corrente che Filippo Scizio avrebbe formulato un'accusa del tutto analoga in sede di dibattimento. Lo so perché me lo ha detto, per cui, la prego, non faccia finta di cadere dalle nuvole -

La faccia allampanata di Nissori si contrasse in decine di rughette minute. Pensai di aver ecceduto, e svicolai

- Del resto, se non avete nulla da nascondere, di che si preoccupa? Vorrà dire che nel peggiore dei casi vincerete il processo, nel migliore non si arriverà neanche a svolgerlo! -

In realtà non capivo niente di questioni giuridiche, anche se mi ero scrupolosamente documentato, ma cercavo di dare l'impressione di intendermene moltissimo

-Tutto sommato vi restituisco solo pan per focaccia: anche voi avevate denunciato la nostra rivista! -

- Dunque la sua non è altro che una sorta di vendetta! Mi permetta, Loira, ma come risarcimento dei danni morali questo mi pare un po’ eccessivo -

- Se le piace pensare ad una vendetta, padronissimo. Per me, si tratta piuttosto di un caso di coscienza. Ma questo lei non lo capirebbe -

Non lo capiva, infatti, e provare a spiegarglielo non sarebbe certo bastato a imbonirlo e mandarlo via: così dovetti inventarmi una scusa per togliermelo di lì.

Mi sentivo forte: ciò nonostante dovevo riconoscere che il suo era un ragionamento sensato; fatta eccezione della testimonianza di Filippo, del resto insussistente senza prove, la mia accusa poteva apparire poco più che una supposizione.

Lui, invece, se le era procurate, le prove: aveva rubato alla Canavan una bolla di consegna...! Chissà se Nissori, che faceva tanto lo sprovveduto, ne era a conoscenza...Io, tra me e me, ero certo di sì: non avrebbe avuto ragioni, altrimenti, di minacciare Filippo...

Se solo avessi saputo dove diavolo era andato a cacciarlo, quel documento, sarebbe stato tutto più semplice! Mi proposi di cercarlo, ma la frenesia di quel mese affannoso mi distolse spesso e volentieri da un'impresa che sembrava, almeno dalle premesse, tanto impossibile, e mi indirizzò invece più spesso agli impegni meno eroici che mi si prospettavano quale nuovo direttore in carica della rivista.

Il numero di gennaio uscì regolarmente e cominciammo a organizzarci per il successivo: dal mare Rino mi spediva articoli, racconti e poesie, continuava a scrivere a piè di pagina "torno presto" e poi non si aveva notizia di lui fino alla lettera successiva, dove si dimenticava o tralasciava di spiegare il perché della mancata promessa. Anche Alberto mi aiutava spesso con inchieste e recensioni, o semplicemente con sani consigli al momento opportuno. Dulcis in fundo, tentai quasi per gioco l'esame di letteratura e ne ottenni un insperato ventisei, di cui mi vantai per diversi giorni più che del trenta e lode in latino conquistato mesi prima con uno studio "matto e disperatissimo".

In casa, Camilla mi stava vicino con una premura quasi ossessiva: non mi parlava più di Vito, non mi parlava neppure di Filippo se non ero io ad introdurre l'argomento, ma spesso voleva che le raccontassi di me, e volentieri indugiava in lunghi elogi immotivati, con più dolcezza di come non facesse un tempo. Complimentosa lo era di natura, ma fino ad allora aveva sempre cercato in me piuttosto un confidente dei propri guai: dalla morte di Filippo, invece, chissà come, il centro delle cure e delle attenzioni ero stato io, e pareva che questa sollecitudine affettiva le procurasse altrettanto piacere che quando era Dido a coccolarla e sopportare le sue pene d'amore.

Mi faceva sentire in colpa: possibile che fossi soltanto io a provare oppressione di fronte ai dolori altrui? Cercavo di motivare questa differenza col fatto che Filippo fosse stato anche suo amico, ma ciò non mi impediva, di quando in quando, di sospettare che Camilla non soffrisse per lui ma per me.

Un giorno volli provare a ribaltare la situazione, e vedere se mi sarei trovato più a mio agio nel ristabilire l'equilibrio precedente

- E con Vito? - chiesi.

Lei sbuffò, abbozzando un sorrisetto che poteva nascondere un smorfia

- Così così... - poi scrollò le spalle e aggiunse - ho altro per la testa! -.

Il discorso finì lì, senza che nulla del suo atteggiamento cambiasse.

 

Era il primo di marzo quando Rino finalmente tornò. Andai a prenderlo in stazione: non aveva valige con sé, solo uno zaino in spalla e una giacca di lana annodata in vita, perché per lui era già primavera e aveva caldo, era rosso sulle gote e sui polpastrelli gonfi e grassocci delle dita, come sempre.

Ci abbracciammo in silenzio davanti al binario uno, in quell'angolo riposto della stazione che serve solo per le partenze di quei trenini di due o tre vagoni che sono sempre scarabocchiati dappertutto e si fanno tutte le fermate.

Era mattino presto, la sciarpa arrotolata al collo due volte mi arrivava fin sotto il naso e faceva sì che ad ogni respiro mi si appannassero gli occhiali. Li avevo cambiati, però, finalmente: ora ci voleva proprio una bella appannatura perché rischiassi di confondere i numeri degli autobus o gli orari delle lezioni appesi in bacheca nell'atrio della sede di piazza Brunelleschi.

- Quanto tempo... - bisbigliai a Rino, un po' perché non sapevo cosa dire, un po' perché mi sembrava ne fosse passato davvero più di quanto non ne era trascorso in realtà

- Eh, lo so... - fece lui, esitante - ma sono cambiate tante cose -.

Dovevano esserne cambiate molte davvero: me ne ero accorto appena lo avevo visto, nel momento stesso in cui scendeva dal treno, già prima che me lo dicesse, forse per via di quello strano sorriso sulle labbra, incantato e triste, quasi lo stesso che avevo notato sulla sua faccia il mattino che mi aveva ripetuto ritmicamente, come in una formula magica, "era importante"...

Aspettai che mi raccontasse, invece per lì non aggiunse niente e cominciò a rivolgermi domande sulle vicende degli ultimi mesi; gli raccontai di Camilla, dello staff, dell'esame, riuscii anche a confidargli i miei sospetti su Nissori: lui non si pronunciava e annuiva.

- Filippo ci assillerà tutta la vita, eh? - mi sorprese ad un tratto, facendomi sobbalzare.

Poi diventò cupo: cupo e maestoso come se stesse per pronunciare un voto definitivo, o una sentenza inappellabile, ma necessaria, forse garanzia di felicità futura.

- Mattia - disse, quasi senza guardarmi - Io non torno a casa -

Visti i preliminari avevo pensato a qualcosa di peggio, anche se non avevo idea di cosa di tanto grave avrebbe potuto confidarmi, e mi rilassai

- Davvero? - chiesi - E perché?...Ti sposi? -

Lui sorrise, misterioso

- ...Forse! -

Poi si lanciò in una delle sue corsette saltellate liberatorie, tornò indietro, recuperò la serietà, e stavolta mi fissò dritto negli occhi

- Scherzo - disse - Sono entrato in un'opera missionaria. Parto per il Brasile domattina, torno forse l'anno prossimo. Scusa se non ti ho avvertito prima, ho anche provato ma non ce l'ho fatta. Dovevo dirtelo a voce. Lo sai, odio il telefono. Per telefono mi imbarazzo, mi trema la voce: mi fa paura l'idea di non poter vedere...di non riuscire a immaginare la reazione della gente...Sono tornato apposta, riparto stasera. Non dirlo agli altri. Sono venuto solo per te -

Ero rimasto talmente stordito da quell'annuncio frettoloso che non trovai spazio per il pensiero che ero di nuovo di fronte a un addio, forse meno duraturo, ma pur sempre definitivo, come tutte le cose che restano. Me ne accorsi solo più tardi, quando fui rimasto solo lungo lo stesso binario uno, dove lo avevo riaccompagnato verso il tardo pomeriggio, che c'era ancora luce - e notai come erano diventate già lunghe le giornate, meno pungente e cattiva l'aria ghiaccia della sera. Ma nella stazione di Firenze non mancava mai, neanche d'estate, quello spiffero gelido di vento che filtrava da un lato all'altro, lungo una fila di self service e tabacchini ferroviari...

Mi strinsi nel cappotto, posando a terra la valigia piena di libri e cianfrusaglie che Rino aveva preso da casa, e che mi aveva affidato un secondo per potersi frugare nelle tasche e trovare una cosa che aveva preparato - disse - per me.

Ne tirò fuori un pezzo di carta verde, stranamente piegata...

Ma no, ma no...era...un origami...un origami cinese....

Una rana di cartoncino costruita da lui.

Si piegò su un ginocchio, la depose per terra, la schiacciò col dito indice sull'estremità posteriore, e quella spiccò un salto, come spinta su da una piccola molla invisibile.

- Sbalorditivi effetti della tecnologia! - esclamò, alzando la testa, quasi in faccia ad un gruppo di ragazzotti che si erano fermati a guardare e sghignazzavano.

Poi scattò di nuovo in piedi e me la mise in mano: la guardai, ferma sul mio palmo teso, e pensai che io non avevo mai saputo fare neanche le barchette di carta.

- Dentro ho scritto due righe - mi disse - Portano fortuna, ma devi leggerle quando il treno è partito, altrimenti non funziona. E' vero - aggiunse, come per precedere una mia obiezione - sono strano: vengo qui apposta per parlarti, e poi affido l'ultimo saluto alla parola scritta. Ma, checché tu ne pensi, io non sono bravo a parlare. E poi il timbro di una voce è cosa estremamente effimera e sottile, così come momentaneo e passeggero è un viso, che senza difficoltà la memoria confonde, e che nessuna fotografia restituirà. Volti e voci se ne vanno, Mattia, è sempre stato così, e tu, preso come tutti nel giro assurdo delle cose, dei guai che non finiscono mai, li dimenticherai: anche se sono quelli di Filippo, anche se sono i miei...Per me non è mai stato un problema: io sono un essere di passaggio, sono fatto per i rapporti occasionali, sono abituato ad arrivare e a sparire....Così va la vita. E la mia durata è tutta lì, nel salto di quella rana... -

Guardai il treno che partiva: mi sembrò quasi irreale essere io quello che rimaneva a piedi e lui che se ne andava; poi, secondo le istruzioni, cercai sul retro della rana, ritrovai la sua mano incerta, il ghirigoro scarno della sua scrittura, e lessi così:

"Una volta Rino costruiva con cura (a suo modo) una decina di miei simili: ci stampava sopra un numero cerchiato e le allineava sulla riga di una mattonella. Le rane dovevano fare il giro della tavola di salotto e saltare ostacoli di carta. Prima c'era anche Filippo, ed era divertente. Poi non c'era più, ed era triste. Ora anche Rino va via, ma vorrebbe che tu, al posto suo, mi facessi saltare...e vorrebbe che ridessi, e che non ci fosse più posto per la tristezza, nelle migliaia d'anni del tuo sfolgorante avvenire"

Mi chinai anch'io su un ginocchio, curvo per terra, come aveva fatto lui: non mi riuscì far saltare la rana tanto bene, ma gli feci ugualmente percorrere un bel metro e mezzo.

Poi la ripresi, me la infilai in tasca: mi sedetti lì, per terra, lungo il binario, e mi misi a piangere.

 

Tornai a casa che era ormai buio, era proprio molto freddo per essere marzo, e io pensavo ancora al maglioncino leggero di Rino che si gonfiava tutto sotto le sferzate del vento.

Salii le scale fino al pianerottolo del secondo piano, e mi accorsi che la porta del mio appartamento era socchiusa. Lì per lì mi dissi che doveva essere Camilla, rientrata prima del previsto, ma dall'interno venivano strani rumori, e un suono di passi che non mi pareva il suo. Pensai a Vito...che fosse venuto con lei, e, scacciati a forza ancora una volta i pensieri più cinematografici, feci capolino all'interno. Ma mentre allungavo la mano all'interruttore, una stretta violenta mi serrò il polso e me lo storse dietro la schiena, costringendomi a voltarmi e a dare le spalle al corridoio e il viso alla porta d'ingresso.

Stavo per gridare, ma una mano inguantata mi tappò la bocca.

Rimasi paralizzato: il cuore mi batteva così forte che mi sentivo di nuovo mancare il respiro, e quel guanto sulla bocca e quasi anche sul naso non faceva che peggiorare la situazione.

"Calmati" mi ripetevo nella testa "non ora, non adesso, rilassati", ma più mi facevo coraggio, più mi accorgevo di star tremando come una foglia.

Sentii uno scalpiccio di passi alle mie spalle, la persona che mi stava tenendo mi spinse forte per terra, ruzzolai sul pavimento come un sacco di patate e feci appena in tempo a vedere tre individui scivolare via in fretta e furia fuori dalla porta, e l'ultimo prendersi pure la briga di sbatterla in faccia a me, che, pure, non avrei avuto neanche il fiato per rialzarmi e inseguirli.

Mi rovesciai supino e misi a fuoco il soffitto: avrei voluto correre subito ad accendere la luce, ma avevo la sensazione che se mi fossi anche solo sollevato a sedere la pressione sarebbe scesa sotto zero in un batter d'occhio: sentivo un forte pulsare alla testa, poco sopra la tempia sinistra. Mi portai due dita nel punto dolente e mi accorsi di perdere sangue: nella caduta dovevo aver urtato contro lo spigolo del termosifone ed essermi ferito.

Non riuscivo a tener rilassato un solo muscolo: mi aggrappai con un braccio al mobiletto dell'ingresso e tirai su il busto, appoggiando il capo e le spalle nell'angolo tra il termosifone e la parete: di lì potevo arrivare al telefono, allungai una mano all'apparecchio e chiamai Camilla.

 

Quando la chiave girò nella porta ebbi un nuovo sussulto di spavento, ma mi calmai subito, appena la vidi entrare

- Milly - la chiamai con una vocina quasi infantile che a stento riusciva a venir fuori - Milly...è successo un guaio -

Non avevo finito di parlare che lei era già curva su di me e aveva preso a balbettare agitando qua e là le dita mentre cercava di allontanare la mia mano, che sembrava pietrificata, dalla ferita

- Mio Dio, Dido, Dido...! - gridava - Che hai fatto? Che hai fatto? -

Le opponevo esili tentativi di ribellione, quasi che non volessi esser mosso dalla posizione d'equilibrio in cui mi ero faticosamente sistemato

- Lasciami stare, ti prego - bisbigliai - Lasciami stare così...ti spiego tutto -

- Ma Dido, stai sanguinando! - continuò a gemere lei (e mi abbracciò stretto, seduta come me per terra) - stai sanguinando dalla testa! -

Mi sforzai di sorridere

- Lo so - dissi.

Lasciai che mi aiutasse ad alzarmi, offrendomi d'appoggio la sua spalla, e raggiungemmo il divano: lei mi piazzò un bel cerotto sulla tempia, ed io riuscii a raccontarle con una certa lucidità l'accaduto. Poi ci guardammo in giro per constatare l'entità dei danni: ci accorgemmo che la porta era stata forzata, le stanze erano in subbuglio, ogni mensola era stata rovesciata: una babilonia completa.

- Vorrei sapere cosa credevano di rubare qua dentro! - si lamentò Camilla, una volta che si fu tranquillizzata - E poi, con tutti i vicini al lavoro, quando mai i ladri salgono fino al secondo piano?! -

- Sempre che di ladri si tratti - feci io, talmente concentrato su un solo pensiero che non riuscivo a immaginare che quel fattaccio fosse frutto di una pura casualità - E non di qualcuno che ce l'ha con me... -

- Perché tu pensi... -

- Al nome che stai per fare, esattamente -

- Ma è pazzesco, Dido! Che potrebbe mai volere la Lefis, da te? Non è smontandoti la casa che ti convinceranno a ritirare la denuncia -

- Perché no?...Come hanno minacciato Filippo... -

- Hanno minacciato Filippo? Ma...ma come? Ma quando? -

Non glielo avevo mai detto: davvero mi pareva di ricordare il contrario. Ma forse non avevo mai detto niente a nessuno, come con nessuno mi era sfuggita parola sui miei sospetti. Eppure alle volte mi sembrava che tutte le mie congetture mentali venissero fatte alla luce del sole, e che, chiunque conoscesse la storia, dovesse pensare ciò che pensavo io.

Le raccontai di quella sera, della mia paura, della mia occasione ("ora capisci perché li denuncio, vero?"), della bolla di consegna che Filippo aveva preso e che non si trovava...Chissà, - mi venne in mente - forse credevano che l'avessi io, ecco perché avevano rovistato nel mio appartamento...Magari avevano cercato anche in quello di Filippo, vuoto (in quella stanza con la finestra che dava sulla mia...) e nessuno se ne era accorto...Magari volevano fare lo stesso nell'ufficio di redazione...Mi sentivo addosso una grande amarezza, dolente, arrabbiata...

- Che cretino - dissi - e pensare che gliel'ho detto io, a Nissori, di essere molto ben informato sul loro conto...Eppure dovevo già saperlo di cosa erano capaci... -

Rimanemmo in silenzio e ascoltai il divanetto consumato cigolare ai lenti ondeggiamenti della mia schiena, che non trovava una posizione comoda ed era ancora tutta contratta. Per un momento pensai a cosa avrebbe detto di tutta quell'avventura quel divano, se, per qualche fiabesco prodigio, gli fosse stato dato il dono della parola...Oh, sicuramente avrebbe espresso il desiderio che lo togliessero una buona volta di lì, e che, di grazia, non gli toccasse mai più una sorte del genere: dover ascoltare vita natural durante le paranoie dei due inquilini del secondo piano...Era una fantasia appropriata per spiegare i rumori sinistri delle sue molle...Se così non fosse stato, di certo a Filippo non sarebbe sfuggita una simile imperfezione e avrebbe preteso che il divano venisse sostituito o, quanto meno, riparato, prima che l'appartamento fosse dato in affitto...

- Dido... - mormorò ad un tratto Camilla - Tu credi davvero che...Che sia stato assassinato? -

Di fronte ad una domanda tanto diretta, un brivido di terrore mi attraversò tutta la spina dorsale.

Già...ci avevo pensato un'infinità di volte. Avevo addirittura "desiderato" di renderlo credibile...ma adesso, adesso che io stesso ero posto nell'occhio del ciclone, io, e non più Filippo, di fronte ad una vicenda che aveva dell'irreale, e che poteva essere sul serio irreale, ma aveva anche buone chance di essere verissima, mi attanagliava una paura molto diversa da quella che avevo provato fino ad allora, un sentimento molto lontano dai miei toni soft, e mi sentivo insieme eroe e vittima, indegno seguace di Filippo Scizio di fronte allo stesso rischio.

- Non lo so... - risposi, senza tono, in cadenza - Non lo so. Non lo so -

- Mattia - fece Milly, serissima - In che guaio ti sei cacciato... -

Scrollai le spalle, come a dire "oramai..."

- Sei...sicuro di quel che stai facendo? -

- No...non so...neanche questo... -

Lentamente, mi alzai in piedi

- Ma in compenso ora mi sento bene. Andiamo a fare ordine -

 

La mia stanza avrebbe potuto rappresentare l'essenza stessa del caos: non c'era un solo oggetto rimasto al proprio posto, pareva un magazzino in sede d'inventario o un deposito di cianfrusaglie da buttar via...Non c'era più neppure posto per scavarsi un angolino e sedersi per terra.

Passai la notte a risistemare ogni cosa: certo - mi dicevo tra un libro appoggiato su una mensola e un maglione ripiegato nel cassetto - se avessi dovuto fare il conto anch'io, come il Renzo manzoniano, delle conquiste raggiunte nel corso del mio anno d'esilio fiorentino, questo ce l'avrei messo senz'altro: le notti insonni. Un tempo non riuscire a dormire, o anche solo perdere preziose ore di riposo per colpa della tachicardia, o, nei casi più fortunati, di trastulli o faccenducce, mi procurava una strana ansia, quasi che il sonno accumulato non bastasse a sostenermi per il giorno successivo. Adesso ero diventato sereno compagno delle notti bianche e dei caffè neri, e avevo imparato ad apprezzare il piacere che si prova nello spremere il tempo come un'arancia, fino ai limiti della resistenza.

Dalla mia finestra, quella sera, la vista della strada era limpidissima, c'era la luna alta e bei lampioni accesi che parevano emanare una luce più forte del consueto: da un angolo della stanza, a sbirciar fuori, si intravedeva un riflesso strano sul vetro dell'appartamento di Filippo, che poteva farlo sembrare quasi illuminato dall'interno...

Avrei avuto voglia di affacciarmi, e dirgli che mi avevano quasi distrutto la camera per colpa di quel suo benedetto documento....

Chissà dove l'aveva messo...!

Pensai che erano state tantissime le volte che avrei voluto fare lo stesso: affacciarmi e chiedergli cosa stesse ancora facendo alzato a quell'ora, e poi, invece, me ne ero rimasto lì, con le mani in mano seduto alla scrivania, fissando quella finestra sull'altro lato della strada a immaginare dall'esterno un po' della vita che viveva l'incredibile direttore tuttofare, a tarda sera...

Era strano, ma mi sentii bene.

Tutto era caos, la testa mi pulsava, eppure avevo come l'impressione che, proprio mentre mi trovavo all'apice dello sconforto e dell'inverosimiglianza, tutto stesse tendendo lentamente e inevitabilmente verso una fine, una fine al cui centro c'ero io, e che non sarei più stato solo colui che sta fuori a raccontare, non sarei stato più nemmeno quello che può prendersi il lusso di cavillare sui propri sentimenti.

...Ma sì, "segua che può"...in qualsiasi modo fosse andata, sarebbe stato comunque un finale: ne avrei finalmente avuto diritto anch'io!

Mi guardai attorno: avevo finito. Adesso la stanza era vuota e in terra c'erano solo il mio quaderno d'appunti e la mia rubrica delle collocazioni.

La fissai: probabilmente l'avevano sfogliata appena, con noncuranza, e l'avevano buttata lì, senza sospettare...

Oh, non potevano certo sospettare...

...Eppure...erano stati furbi: avevano pensato alla cosa più ovvia, quella a cui, pur nel mio fervido fantasticare, non avevo pensato io: che Filippo avrebbe fatto in modo che una copia del documento finisse in mano a me!

...in un posto che solo io conoscevo...

...in un posto...che solo a me aveva “detto”...

Che idiota!...

Come aveva fatto a non venirmi in mente?

...Dovevo capirlo subito che a uno come Filippo non poteva interessare sul serio un libro di archivistica!

 

Il mattino corsi in facoltà al banco prestiti della biblioteca: la collocazione l'avevo ancora, schedata scrupolosamente in corrispondenza di una letterina rossa sulla mia rubrica. Mentre compilavo il modulo col mio nome stampatello ben leggibile ebbi per un attimo un moto di sconforto, legato ad una pulsione razionale che mi ripeteva che tutto questo era una buffonata, che la notte, e l'eccitazione e lo spavento potevano giocare brutti scherzi, che mi stavo comportando come il pupazzetto di un cartone animato.

Tuttavia mi dissi che ormai era inutile lasciarsi corrompere dalla voce del buon senso, e, poco dopo, potei constatare che il mio slancio intuitivo aveva avuto la meglio sul rispetto della verosimiglianza: la bolla di consegna era lì, fissata con cura sotto il risvolto di copertina, tramite alcuni pezzetti di scotch.

Avrei potuto prenderla, e restituire subito il volume, ma ero - ohimè - già calato fino al collo in una sorta di realtà falsata, che in qualche modo sembrava coincidere sempre con la mia immaginazione, e la paura di essere stato in qualche modo pedinato e osservato mi spinse a lasciare il documento lì dov'era e infilarmi con noncuranza il libro nello zaino.

Tornai verso casa guardandomi in giro circospetto, e, al tempo stesso, sforzandomi di comportarmi con naturalezza, anche se ero certissimo di non riuscirci ed ero ossessionato dal sospetto che qualcuno potesse leggere sul mio viso i segni della mia paura. Ponevo molta attenzione nel selezionare tutti i marciapiedi più trafficati, dove larghe vetrine mi permettevano di scrutare il via vai della gente alle mie spalle; ero talmente convinto di poter incappare in un minaccioso aggressore a qualsiasi angolo della strada che più d'una volta ebbi la sensazione di essere seguito: allora saltavo al volo sul primo autobus e rimanevo al finestrino ad osservare, mentre procedevano imperturbati, per la propria direzione, gli sconosciuto ritrasformati all'improvviso in comuni passanti, completamente ignari non solo della mia paura quanto anche della mia esistenza.

Non mi fidai neppure del telefono di casa e chiamai Alberto da una cabina. Con una lucidità che non mi aspettavo da me stesso gli raccontai a grandi linnee l'accaduto, e mi sentii bravo nel ruolo di chi si sforza di essere realista e non allarmare il prossimo. Gli dissi poi che i particolari avrei preferito riferirglieli di persona, e gli chiesi se poteva fare un salto a Firenze prima possibile, perché avevo nuovamente bisogno delle sue preziose "consulenze".

Purtroppo la mia faticatissima impassibilità ebbe l'effetto contrario: Alberto fu colpito dalla mia freddezza più che da un ennesimo crollo emotivo, e, con una nota d'ansia che non m'incoraggiava affatto, mi promise che sarebbe partito quel pomeriggio stesso.

 

Una cosa non potrò mai inserire, accanto alle notti insonni, nel bagaglio degli apprendimenti: la dissimulazione della stanchezza. Non era ancora sera e già mi sentivo uno straccio. Mi chiedevo se per caso l'insolita elettricità che avevo addosso e l'innaturale ostentazione di coraggio fossero conseguenza di un accumulo di sonno arretrato.

Me ne andai dall'ufficio di redazione un po' prima del solito, e, lungo la via del ritorno, sempre seguendo il principio della strada più popolata, mi capitò di passare vicino al locale di Vito. Pensai che Camilla, novantanove su cento, fosse là, e mi sarei sentito molto meglio se avessi potuto arrivare fino a casa in compagnia.

Entrai, e subito un'ondata di fumo mi travolse e mi costrinse a tossire: pure, il locale non era affollato, ma un gruppetto di persone aspirava intensamente dalle sigarette proprio lì sulla porta, e un anello soffiato fuori da uno di loro mi era salito dritto su per le narici.

Non lo riconoscevo, quel posto, così vuoto e privo della luce soffusa e inebriante con cui ricordavo d'averlo visto l'ultima volta che ci avevo messo piede. Avanzai tra i tavoli vuoti guardandomi intorno, nel tentativo di intravedere Camilla o almeno Vito. Il barman mi fissava curioso; speravo mi domandasse se cercavo qualcuno, ma, siccome non lo faceva, mi sentii in obbligo di avvicinarmi e ordinare un ennesimo caffè. Lo bevvi tutto d'un fiato e mi affrettai a tirar fuori il portafoglio per pagare.

- Non importa, Mattia - mi fermò una voce alle spalle - Offre la casa! -

Sorrisi, imbarazzato

- Figurati, non è il caso - risposi, riconoscendo Vito, che era saltato su uno sgabello e aveva chiesto "il solito"

- Non fare complimenti - insistette lui - in fondo, quasi un anno che ti conosco e mai che ti abbia invitato a bere qualcosa! -

- Mi conosci? -

- Come no! -

Mi trattava con l'affabilità con cui ci si rivolge ad un vecchio amico: mi sentivo spiazzato

- C'è anche Milly? - chiesi.

Sul suo volto comparve un mezzo sorriso ironico

- Milly? - fece eco, scandendo con voce insinuante quel diminutivo, ma subito cambiando tono e diventando serio - Suvvia, non ci credo che non sai... -

Sospettai alludesse alla "scappatella" della sua ragazza, e finsi ingenuità

- Cosa? -

Lui s'accese una sigaretta e - era forse un vizio dei soci del club? - mi soffiò il fumo quasi in faccia

- E' almeno un mese che mi ha lasciato - dichiarò, con una certa noncuranza - Davvero non te lo ha detto?...Pensavo che ti raccontasse proprio tutto! -

Ero rimasto stupito: in effetti pensavo anch'io che, se non proprio tutto, almeno un particolare del genere non me lo avrebbe taciuto

- Sorpreso? - procedette lui - Guarda che non c'è da meravigliarsi molto. Anzi, mi sembrava proprio d'aver intuito che tu lo sospettassi da sempre -

Mi parve di avvertire nella sua voce una nota di astio, che subito però scomparve, lasciando il posto ad un timbro da narratore impassibile che vuol cimentarsi in una tirata di saggezza

- E probabilmente avevi ragione. Ti pare davvero credibile che una come Camilla possa stare con uno come me? Non ho intenzione di auto commiserarmi, ma, capirai, io non sono proprio l'ideale di uomo che va bene per una persona che, in fondo, va alla ricerca di certezze. Ho quasi quarant'anni, Mattia, ne ho fatta di vita, di donne ne ho avute un'infinità, e ho anche intenzione di continuare ad averne, complice, del resto, il lavoro che ho scelto. Te lo dico in tutta franchezza: della stabilità me ne frego da sempre. Mi piacciono il rischio, l'avventura, l'incertezza. Mi sono fatto ingannare dall'apparente leggerezza di Camilla, pensavo che fosse simile a me, e (questo ti prego di crederlo) non ho mai avuto intenzione di farla soffrire. Ma non sono cambiato, in questo ho mentito. E sono felice - e pronunciò questa parola con una intensità inaspettata - che lei se ne sia accorta prima di me -

Non capivo se fosse sinceramente dispiaciuto, se sperava solo che io riferissi quei discorsi a Camilla o se si stesse vendicando per le frecciate che gli avevo lanciato più volte, incontrandolo: mi pareva che mi trattasse da ingenuo, e si divertisse a constatare fin dove quest'ingenuità fosse in grado di persistere.

Eppure il suo discorso, pur nella sua banalità, mi era sembrato onesto.

Da una saletta interna dietro il bancone del bar sbucò una ragazza di forse trent'anni: era molto alta, sensuale, elegantissima nel suo abito lungo di paiettes. Abbracciò Vito da dietro le spalle e gli bisbigliò qualcosa all'orecchio accostando al suo collo due labbrone pesantemente truccate.

- Monia, questo è Mattia, il coinquilino di Camilla - mi presentò lui

- Ah, Camilla - fece lei, con sufficienza - Salutamela -

Vito sollevò divertito ambo le sopracciglia, come a dire "visto?", non so se riferito alla bellezza della ragazza, al numero delle sue spasimanti, o alla appena decantata facilità di intrecciare nuovi rapporti, in quel posto

- Non guardarmi storto - mi ammonì, fraintendendo la mia espressione disorientata - In fondo è stata lei la prima a ...tradirmi, no? -

Accompagnò quel termine con uno strano ammicco che invitava a non prenderlo nel suo stretto significato letterale, ma io non compresi il senso di quel gesto e chiesi

- Ah si? Sta anche lei con un altro? -

Lui scoppiò a ridere e mi guardò con compassione

- Eh, Mattia, Mattia...ne hai di strada da fare!...No, non sta anche lei con un altro. Diciamo piuttosto che è innamorata di un altro: forse ti piace di più questa parola... -

Rise più forte, ma senza troppa cattiveria

- Tradimento morale!...Il peggiore! -

Poi si ricompose, sfiorò il fianco della compagna con una carezza tutt'altro che discreta, e concluse

- Naturalmente scherzo. Siamo mondo libero, per grazia di Dio! -

 

La sorpresa mi aveva distolto, sul momento, dalla paura del tratto di strada che mi rimaneva da percorrere ora che si era fatto buio e c'era poca gente in giro. Lo attraversai in fretta, spinto da un freddo che penetrava nelle ossa e dal desiderio di incontrare presto Camilla per parlargli. Mi proposi, durante tutto il cammino, di chiederle il motivo per cui non aveva voluto, come era sempre successo, sfogarsi con me e pensai persino alle frasi giuste da rivolgerle non appena entrato in casa.

Invece, sulla porta, ad aprirmi trovai Alberto che era sceso da Torino trafelato ed era arrivato a Firenze già da un'ora.

- Eccoti di ritorno! - esclamò, mostrandosi sollevato - Mi avevi quasi fatto preoccupare: sono passato in redazione verso le sette ma tu eri già uscito. Dove eri andato a cacciarti? -

- Ero stanco - sviai - Mi sono fermato a bere un caffè. Ti ringrazio di essere venuto, non c'era bisogno di tutta questa fretta... -

- Figurati - mormorò lui, sempre più disarmato dal mio comportamento indifferente - figurati... -

Camilla sbucò dalla cucina e mi gettò le braccia al collo

- Tutto bene? -

Annuii, e mi accorsi che i buoni propositi sorti così spontanei qualche minuto prima erano già stati rimandati a data da destinarsi.

- Buone notizie - annunciai - sedetevi che vi spiego - (e nel frattempo mi presi la briga di chiudere la porta a doppia mandata dall'interno, con un sorriso nervoso).

Poi mi accoccolai sul divanetto, mostrai loro la bolla di consegna rubata, e per la seconda volta misi a parte qualcuno della vicenda. Alle minacce di Mauro Nissori e ai miei sospetti sull'incidente non accennai che di sfuggita, ma mi parve, in più occasioni, che Alberto avesse afferrato e non fosse così estraneo al mio pensiero.

- Senti Mattia - disse infatti, ad un tratto, con una serietà che mi spiazzò - So che non posso chiederti di ritirare la denuncia, né del resto lo vorrei. Ma penso che sarebbe una buona idee che te ne andassi per un po' -

Lo fissai interdetto, non comprendendo bene cosa mi stesse suggerendo

- ...Tornare a casa? - improvvisai.

- No - disse - Casa tua è come qui. Non servirebbe a niente -

- In che senso...? -

- Ti spiego. I genitori di Elodì vivono in Francia, in una villa in montagna non troppo lontana dal confine. Il posto non è difficile da raggiungere, ci arriveresti bene, tu ti rilasseresti, e saresti sicuro che, quaggiù, per un po', nessuno saprebbe dove sei... -

Avevo capito, finalmente

- Accidenti! - esclamai, ironico - Sono un “testimone a rischio“!? Chi l'avrebbe mai detto? -

Alberto era sempre più stupito

- Certo che sei proprio strano!...Dove la prendi tutta questa energia? -

- Non so - risposi orgoglioso - la sfrutto finché dura -

- Davvero? - fece lui di rimando - anche per saltare al volo giù da un treno? -

Sgranai gli occhi, interrogativo, e la mia faccia lo fece finalmente scoppiare in una gran risata

- Scherzo! Non spaventarti: volevo solo vedere se esisteva ancora, in qualche angolo nascosto, un pezzettino del Mattia razionale e timido che conosco! -

Il suo "saltare giù dal treno" - come mi spiegò dopo - era un'espressione un po' esagerata per descrivere il suo modo avventuroso di accorciare il tragitto per raggiungere casa dei suoi suoceri. Lui ed Elodì, ai tempi d'oro, avevano scoperto che il treno, tutte le volte, si fermava a dare la precedenza ad un convoglio sull'opposto binario, proprio in corrispondenza della strada che andava su alla villa. Ci voleva un attimo: bisognava solo aprire lo sportello e saltar giù.

- E se il treno non dovesse fermarsi? -

- Niente di male. Vorrà dire che scenderai alla stazione "vera e propria" e ti farai un'oretta di autobus e un buon chilometro a piedi per arrivare. A tutto c'è rimedio: chi non ha fortuna abbia gambe -

- E col "Cambio Rotta"? -

- Non credo che tu abbia di che preoccuparti. I tuoi colleghi sopravvivranno anche senza di te -

 

Alberto aveva ragione: nessuno ebbe da ridire. Furono invece tutti unanimemente d'accordo alla mia partenza, e mi assicurarono che si sarebbero dati daffare, che mi avrebbero tenuto informato, che i numeri sarebbero usciti sempre, tassativamente, quasi che io fossi un vero direttore, come se davvero avessero avuto davanti Filippo.

Li stavo già salutando, quando Mauro Nissori si presentò per l'ultima volta sulla soglia dell'ufficio di redazione e chiese di parlare da solo a solo con me.

Prima di farlo entrare, Cianetti me lo annunciò, e il ricordo della recente brutta avventura, che inesorabilmente non riuscivo a non associare al suo nome, mi mise addosso una certa paura.

- Come se nulla fosse, Mattia - mi bisbigliò all'orecchio Alberto - Come se nulla fosse. Fagli capire che sei tu ad avere il coltello dalla parte del manico -

Io abbozzai un sorriso teso

- Ci proverò - dissi

Lo raggiunsi nel corridoio, e lo invitai a passare in salotto.

Aveva un'espressione cupa, ma l'apparenza come sempre distinta, la faccia scura resa sgargiante dal tocco di una cravatta verde a righette gialline. Io non mi sedetti neppure, gli lasciai appena il tempo di accostare la porta.

- Signor Nissori - esordii - bloccandogli le parole sulla bocca - Non credo lei abbia l'intelligenza per capire cosa sia stato Filippo Scizio per me, ma forse è abbastanza osservatore da constatare almeno di quanta credibilità godesse presso tutti noi. Vede...Lui diceva sempre una cosa: che quando aveva un sospetto era proprio difficile che sbagliasse. E io e lei lo sappiamo bene quanto poco abbia sbagliato -

Nissori mostrò di non capire

- Del resto - proseguii - fanno testo i documenti che qualcuno l'altro giorno cercava in casa mia, e che ora sono custoditi in decine e decine di copie nelle abitazioni di tutte le persone che conosco...Cercarli, stavolta, diventerebbe più macchinoso... -

- Mi scusi, Loira - m'interruppe a quel punto - ma io non so di cosa lei stia parlando -

- Ha ragione - feci, serio - forse lavoro troppo di fantasia. Sa, me ne sono capitate di cotte e di crude ultimamente. Se così non fosse, comunque, spero che vorrà accettare fin d'ora le mie scuse. Nella rimanente ipotesi, avremo modo di chiarirci al processo -

Gli rivolsi un'occhiata allusiva e lui mi rispose con un sorrisetto contratto, stizzito, ma non privo - o almeno a me parve - di un velo d'ammirazione stupita

- Lei ha le idee più chiare di Filippo Scizio - sentenziò.

Lo presi come un complimento: sorrisi.

- Può darsi - dissi.

Quella fu l'ultima volta che gli parlai di persona. Lo rividi anni dopo, in sede di processo, quando fui chiamato a identificarlo come l'uomo che aveva offerto un compenso a Filippo perché stesse zitto "vita natural durante": ma non ebbi occasione nemmeno di salutarlo.

 

Nell'ultimo anno, di treni ne avevo visti tanti: avevo viaggiato in vagoni fitti di gente che sta in piedi a incastro come sul 17 all'ora di punta, o in comode poltroncine di prima classe pagate dal "Cambio Rotta", in scompartimenti separati, rigorosamente per non fumatori, o in sedili disposti a destra e a sinistra lungo i finestrini, senza tavolinetti estraibili e corridoio laterale, ma non ero mai salito sul pendolino dalla stazione di Rifredi: potevo inserire anche questo nel mio gruzzolo di esperienze.

Camilla mi aiutò a preparare la valigia: "Farà freddo? Caldo? Ti basteranno due pigiami? E i libri? Ce li metti i libri? Ma sì, ma sì, secchione che non sei altro!...E la giacca? Non ti servirà, non credo...Il maglione però sì...ti converrà portarlo"...Chiacchierava fervidamente e senza posa, affastellando parole e oggetti in valigia, sembrava più affannata di me, e non mi permetteva di aprir bocca.

Io mi lasciavo trascinare dal suo fiume di frasi come dal flusso di quel tempo strano, ma cercavo, tra un'esclamazione e una domanda, di cogliere un attimo propizio per strapparle la famigerata confidenza oggetto di tanti sensi di colpa.

Inutile dire che non me ne diede modo.

Partimmo da casa in largo anticipo, non fidandoci del traffico e degli autobus, benché fossero le dieci del mattino e le vie fossero relativamente sgombre. Ne seguì che fummo sul binario mezz'ora almeno prima dell'arrivo del treno, e sedemmo ad attendere su una panchina, davanti alla ferrovia.

La stazione di Rifredi non aveva il fascino movimentato di Santa Maria Novella, ma - solitaria sui suoi binari, con uno sfondo di casone ammassate e tozze - aveva un'atmosfera altrettanto struggente, da luogo di passaggio, per chi va di corsa e non ha tempo di restare nemmeno per guardarsi indietro.

Alberto vagava su e giù, io e Milly sedevamo zitti, ascoltando gli annunci dei treni. La giornata era bella, c'era l'aria frizzante della primavera in arrivo, e mi sentivo bene, nonostante l'ennesima notte passata insieme alla mia tachicardia.

Riconoscevo in quel mattino fresco lo stesso clima della partenza, sempre uguale, a prescindere dalla stazione o dalla destinazione, ma ogni volta arricchito di una sfumatura diversa, data da chi si raggiunge o chi si lascia...

Stavolta, quella che lasciavo era seduta a due centimetri da me, e pareva all'improvviso essersi fatta scudo di un silenzio artificiale, come, poco prima, di una parlantina forzata per impedirmi di dire ciò che avevo da giorni a fior di labbra.

Ma poi aveva un senso chiederglielo, adesso?

Pensandoci bene erano mille altre le cose più importanti...Avrei potuto dirle "mi mancherai" o "sono stato benissimo"...Mille altre cose carine che sembrano sottintese e invece a volte hanno proprio bisogno della voce per avere uno spessore ed un senso...

Invece mi strinsi al petto lo zaino, mento sulla tasca anteriore piena di cerniere, e sussurrai

- Sai, ho incontrato Vito... -

Lei non parve scossa, mi guardò, serena, come se quell'allusione, invece di violare la sua intimità, la salvasse da un turbamento di altro tipo

- Davvero? E come sta? -

- Lui bene... - mormorai, stupito - Ma non mi avevi detto che... -

- Non lo trovavo degno di nota, in quei momenti -

- E perché...? -

- Suvvia Dido. Ci sono toccati guai più grossi, mi pare... -

- No, no.... - mi corressi - Intendevo domandarti...perché l'hai lasciato... -

- Ah!!! - tirò una lunga esclamazione divertita - Sei curioso, eh? -

Arrossii.

- No...figurati... -

Ma lei s'era fatta seria seria, scosse il capo

- E' una storia lunga. Te la spiego quando torni. Tanto... - aggiunse, sottovoce - tanto torni presto, vero? -

Il treno sferragliò, entrò col suo fracasso triste in stazione, lucido e maestoso con il suo corredo di porte automatiche e finestrini di vetro a specchio. Mi alzai, la abbracciai stretta, e mi avviai a caricare la valigia su per gli scalini, con Alberto già a bordo che ne aveva afferrato un lato e mi aiutava.

- Bene - dissi, commosso - Io vado... -

Distesi appena la mano, con tutte e cinque le dita, come fanno i bambini, per salutarla di nuovo, ma Milly non me ne lasciò il tempo: mi corse incontro, scoppiò a piangere a dirotto, e mi gettò le braccia al collo

- Dido, Dido, Dido! - singhiozzò, nascondendo il viso nel mio maglione - IO TI AMO TANTO! -

...

Rimasi di stucco, come un cretino, e non fui capace di spiccicare parola.

Era la prima volta nella mia via che una donna diceva di amarmi e io non avevo una parola, una sola parola, da mettere lì, per lei, per Camilla....

Però...cominciai a piangere anch’io, come se mi avessero tagliato sotto il naso due o tre chili di cipolle, e di tutto quel che mi era successo in quei giorni, nella vita a Firenze - nella mia vita, con lei - di quel che mi sarebbe successo dopo, d'allora in poi, smisi di stupirmi lì, una volta per sempre, lungo quel binario...

 

Ma guarda - pensavo - ma guarda dove si conclude l'avventura fiorentina di un ragazzetto sprovveduto che neppure diciassette mesi or sono aveva deciso di affrontare la città per cimentarsi nell'universo affascinante della letteratura: in fuga su un Etr, seduto di fianco a un illustre intellettuale, diretto in un luogo sconosciuto per restarci in solitario esilio a tempo indeterminato!

Eppure questa era una vera fine, un "gran finale": la rivalsa dell'inetto di turno, che sfida la Lefis e non si lascia sopraffare dalle minacce, la partenza improvvisata corredata della prospettiva di un "salto" avventuroso giù dal treno, lo struggente addio lungo il binario...Pareva proprio la naturale conclusione di un romanzo, d'un giallo sentimentale o d'un rito di iniziazione!

Un tempo - non era molto - avevo pensato di non aver diritto alle "fini" in piena regola. E invece laggiù, in fondo ai binari che si congiungevano lontani per l'effetto della prospettiva, c'era davvero, stavolta, qualcosa che finiva. Mi venne in mente un racconto di Rino, uno che - mi aveva confidato - avevo avuto onore di leggere solo io, stancandomi gli occhi su quella sua scrittura a zampa di gallina: si chiudeva proprio così, col bambino protagonista che se ne va su un treno e che s'accorge all'improvviso di lasciarsi inesorabilmente qualcosa alle spalle - qualcosa che finisce, appunto, e non tornerà mai uguale, la fanciullezza...chissà...il passato...

Eppure, incredibile a dirsi, adesso che mi sentivo insignito anch'io dell'onore della fine, anche io, come la gente bella e solare che avevo avuto in sorte di conoscere, mi trovavo a voler credere che, in fondo a quei binari congiunti in un punto che magari Leopardi avrebbe detto d'infinito, potesse esserci, invece, qualcosa che continua.

C'era Camilla, che non avevo mai osato provare ad amare, certo che non avrei mai potuto essere riamato, c'erano il "Cambio Rotta", i miei colleghi, l'università, e c'era, soprattutto, Filippo, di cui, per sempre, mai e poi mai avrei potuto liberarmi...

"Una cosa non è l'altra ma continua l'altra. Ma non ci sono le cose. Ci sono io".

 

A Torino salutai Alberto e salii sul treno a bordo del quale avrei "varcato le Alpi" per raggiungere la villa. Non fu un viaggio sereno, perché avevo paura di non riuscire a scendere al momento giusto: tenevo ben d'occhio l'orologio e le insegne delle stazioni che sfuggivano al di là dei vetri, e intanto seguivo il buio che lentamente si portava via quella limpida, lunghissima giornata, e si inghiottiva le sagome austere delle piante e i pali dritti dell'alta tensione.

Mi piaceva tagliare la notte con il treno, fenderla in due anche solo per guardar sfuggire lucine liquide e tremolanti su uno sfondo scuro, succhiate indietro dalla mia corsa sui binari.

Poi, quando scivolò via strappata in un istante senza che ci fermassimo, l'insegna del paese indicatomi da Alberto, veloce, quasi come un ladro, raccolsi la mia roba e svicolai nel corridoio.

Esattamente come lui mi aveva garantito, nel giro di pochi minuti il treno prese a rallentare, procedendo a passo d'uomo. Preso dalla foga di non fare in tempo a saltar giù (e dall'altra parte quasi desideroso di dare un'ultima, ridicola, sfacciata prova di coraggio che restasse simbolica nella mia memoria) prima ancora che ci fermassimo del tutto, spalancai la portiera, lanciai la valigia, e in un balzo impacciato saltai fuori, perdendo l'equilibrio e ruzzolando senza freno lungo il lieve pendio di prato umidiccio e terra morbida.

- Wow, che volo! - mi venne voglia di dire, col cuore in gola per lo spavento, ma ancora tutto eccitato, a voce alta, come se qualcuno avesse dovuto sentirmi.

Poi mi voltai per andare con lo sguardo dietro al treno che già sbuffava per ripartire, e lo seguii mentre se ne spariva emettendo un fischio squillante, e mi lasciava lì, abbandonato con la mia valigia e i miei pantaloni rovinosamente macchiati d'erba e di fango, impalato a sedere a gambe larghe nel gelo dell'aria di montagna...quell'aria quasi sconosciuta, per me e il mio mare.

Mi alzai a fatica, respirando a fondo.

Tutto mi sembrava andare per il meglio, guardai estasiato quello spazio silenzioso, la distesa notturna della landa desolata: l'aria fredda mi scendeva piacevolmente nei polmoni, il verde si stendeva da ogni lato, non c'era altra luce tranne quella della luna e di un misero lampione lontanissimo lungo la ferrovia, e non tirava alito di vento.

Mi sentii entusiasta, entusiasta dell'impresa compiuta e dello strano senso di libertà che mi dava l'esser lì, con un prato sconfinato a mia disposizione, dove avrei potuto combinare qualsiasi cosa senza esser visto: canterellare, saltare, lanciarmi in una corsa goffa e pazza come Rino, o cambiarmi i pantaloni scorticati dalla caduta per presentarmi ai genitori di Elodì senza sembrare uno straccione.

Ma non feci niente di tutto questo.

Adocchiai invece grossi mucchi di erba tagliata e pagliericcio sparsi qua e là, e, a suggello del gran finale romanzesco, mi ci distesi sopra, fingendo che fosse notte - e non solo le otto appena di sera - ed io non avessi luogo per dormire, e fossi un vagabondo girovago che si corica sotto le stelle e al mattino si alza col sole, senza per questo aver preso una straordinaria infreddatura.

Dal punto in cui ero si vedeva benissimo la strada che mi avrebbe portato in poco più d'un chilometro a destinazione: sarei arrivato lì per l'ora di cena...ma prima di rimettermi in marcia trovai doveroso fermarmi un secondo....

Pensare per almeno un secondo....

...Ed ecco che, allora, nel bel mezzo del fervore vitale della mia avventura, scivolò, non chiamata, una nota di tristezza: pensai che non bisognava illudersi, che tutti gli entusiasmi, i piccoli come i grossi, erano facili a sparire, che non sarebbero durati per sempre, e io sarei tornato, presto o tardi, quello che ero: Mattia Loira il timido, il "letterato" idealista che non sa stringere la mano...e tuttavia ero contento che fosse così, perché sapevo che ciò che era successo una volta sarebbe stato di nuovo possibile: doveva essere quello il segreto della sopravvivenza...

 

****

 

Anche adesso, a distanza di tanto tempo, non posso non ribadire la coincidenza di quel pensiero col mio bilancio finale.

Guardo indietro ai miei vent’anni di ragazzo che ha visto poco, e le poche cose grandi che ha visto forse non le ha capite - e mi domando se aveva un senso dirle, spiegarle, o se solo aveva un senso avere voglia di farlo...

Ma non importa.

L‘ho fatto.

Ho scritto per me, per me solo, per non perdere niente, per parlare con me stesso, come quella volta delle ventiquattro pagine, di cui a Rino volli portarne tre, solo tre.

Già, è stato davvero così, come quel giorno:...scrivere per scrivere, per sapere d'esserci, per chiarire, per finire, per recuperare e per salvare, e magari, tra le pieghe - tra le righe - per rivendicare ancora una volta il fatto di essere diverso dagli altri, per godere ancora una volta della superbia dolce dell'alibi, del gusto di sentirmi piccolo e unico in mezzo ad un mondo che è grande, e del vanto - perché no? - di aver conosciuto grande gente che, per gioco o per vocazione, ha provato a sfidarlo.

Ringrazio Filippo, per averlo sfidato.

Lo ringrazio per essersi fatto forte di quella sfida e per averlo sempre gridato in faccia a me.

E lo ringrazio anche per essersi dimenticato, per caso, del fatto che troppe volte la vita è triste e grande, impossibile da capire, difficile da vivere...

Anzi, come mi ha detto quel giorno lui, per non averci (mai!) pensato...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note

 

Il titolo è tratto dalla canzone del grande Ivan Graziani “Canzone triste”, che è stata per me la “colonna sonora” di questo romanzo.

 

Le citazioni presenti nei capitoli sono tratte da:

 

capitoli 4 e 6: Vittorio Sereni, Poesie

capitolo 9: Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

capitolo 10: Renato Serra, Esame di coscienza di un letterato

  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Glenda