Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Liz_95    25/11/2012    0 recensioni
" Ho sempre fermamente creduto nell’amore, solo sono altrettanto sicuro che non sia adatto a me.
Qualcosa nel tuo viso mi dice che sarei capace d’amare con tutto me stesso, di un amore pieno, passionale, tormentato, che sarei pronto a donarti le mie parti migliori e scambiarle con i tuoi difetti, renderli così belli tanto da desiderare anche il tuo insensato chiudermi fuori, il tuo voler sempre aver ragione, la tua malata insicurezza."
Edoardo ed Elizabeth credono fermamente di poter bastare a se stessi, finchè un amore improvviso ed irresistibile, quasi impensabile, sgretolerà le loro sicurezze, portandoli sull'orlo di un cambiamento che terrorizza e fa paura. La felicità è nelle loro mani, mai avrebbero pensato di poter trovare quel pezzettino mancante l'uno negli occhi dell'altro, ma a volte l'amore non basta, e cambiare se stessi per qualcun'altro è un percorso doloroso e complicato che non tutti sono disposti ad intraprendere.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Bentornati
Questo nuovo capitolo come avevo detto la scorsa volta è Pov Edoardo, ed è proprio attraverso i suoi occhi che leggerete l’incontro tra i due protagonisti.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto il primo capitolo, di cuore.
Ma suvvia, non siate così timidi!
Le recensioni sono essenziali, di vitale importanza per chi scrive, non solo per aumentare un po’ la propria autostima ( e ce n’è sempre bisogno ) e regalare così a tutti voi capitoli sempre più belli ( aiuta davvero, giuro!) ma soprattutto per capire cosa va bene e cosa no, cosa cambiare e cosa poter migliorare.
Sarei davvero felicissima se qualcuno si facesse sentire.
Detto questo, buona lettura.
Liz
 
 
Capitolo 2
 
 
 
  “Non si può vivere una vita senza impatto.”
Jodi Picoult.
 
POV. EDORARDO:
Faceva caldo dentro questo maledetto ufficio.
Controllai che Madilyn non fosse nei paraggi, poi mi liberai della giacca e arrotolai le maniche della camicia fino ai gomiti.
Il computer ronzava pigro, l’orologio da parete scandiva lento  i minuti che mi separavano dalla pausa pranzo.
Il ticchettio delle lancette, la voce monotona di una delle segretarie lì fuori, il rimbombo attutito del traffico, tutti i rumori questa mattina sembravano più nitidi.
Ma, sfortunatamente, non era una nuova strabiliante sensazione, assomigliava più ad una qualche strana malattia che catturava i suoni nell’aria e ne moltiplicava l’intensità all’interno della mia testa, facendoli rimbalzare confusi, pulsanti, senza pace.
Avevo bisogno di un caffè.
Ero già a metà strada verso le macchinette quando sentì squillare il telefono.
Tornai indietro scocciato.
 “ Ciao Edoardo.”
La voce di mio padre riusciva ad essere fastidiosa anche senza il contributo della sua patetica espressione da altero uomo d’affari.
“ Ciao papà. Che cosa ti serve adesso?”
Concentrai quanto fastidio possibile nella parola adesso.
“ Volevo invitarti ad una festa per l’inaugurazione del nuovo consiglio d’amministrazione.”
Risi sarcastico.
“L’hai cambiato ancora?A quanto siamo, quattro consigli di amministrazione diversi in tre anni? Almeno un premio lo prenderai quest’anno allora.”
“Non mi parlare così Edoardo, tu non capisci.”
Non capivo.
Era meglio sedermi, le gambe avevano già cominciato a tremare per il nervosismo, non era il caso di agitarsi.
“ Vorrei ricordarti che anch’io ho un consiglio d’amministrazione, ma a differenza tua è sempre lo stesso da due anni.”
“Ne riparleremo quando la tua azienda avrà superato i dieci anni di vita. Anzi, ne basterebbero solo cinque.”
Il tono con cui pronunciò azienda traboccava di implicite critiche e fastidiose insinuazioni, che al momento non ero capace di sopportare.
Non di nuovo.
“ Papà, che cosa vuoi?”
“ Te l’ho detto. Cena alle 21.00, Chapon Hotel. “
“La mamma viene?”
Qualche istante di silenzio dall’altra parte della cornetta.
“Lo sai che anche se la invitassi non verrebbe.”
“Ma non l’hai fatto.”
La figura della giovane, nuova formosa fidanzata di mio padre strideva così tanto con il volto regale  di mia madre, che seriosa mi controllava dalla cornice d’argento sopra la scrivania.
“Naturalmente tu sei libero di portare chi vuoi.”
Questo era troppo, lo sapeva anche lui.
 “ Vedrò cosa fare.”
Non aspettai il suo saluto.
Non avevo più voglia di parlare.
Mi era passata anche la voglia di bere il caffè, mi era passata la voglia di fare tutto.
Il ticchettio frenetico di due paia di tacchi troppo alti precedette il leggero bussare alla porta.
“ Edoardo, è arrivata la giornalista.”
Madilyn mi osservava dalla porta, le gambe fasciate da sottili calze a rete.
Mi aveva chiamato per nome, ancora.
“ Chi?”
“La giornalista, per l’intervista a quel giornale della Carolina, come si chiama, Time day, Haili Time … non ricordo.”
“Half time?”
“Si, Si!”
Mi chiesi perché la tenevo ancora come segretaria; la sua risata era la cosa più fastidiosa che avessi mai sentito.
“Falla entrare.”
Mi passai una mano sulla faccia; ci mancava solo la giornalista.
Madilyn sparì dietro la porta, lei e il suo vestito aderente, ma non mancò di lanciare un’ occhiata alla mia camicia sbottonata.
Con un sospiro me la riabbottonai fino al collo.
“ Em, salve. “
La prima cosa che notai della ragazza che imbarazzata indugiava sulla porta del mio studio furono i pezzi neri di plastica che teneva in una mano, e il rivolo di sangue scuro che le scendeva lungo il polso.
Parecchio sangue.
“Sta sanguinando.”
Alzò gli occhi, confusa, accaldata.
“ Cosa?”
“ Sta perdendo sangue da una mano.”
Le indicai il polso ferito con una mano.
 “ Oh mio dio.”
Da piccolo mi ero tagliato la testa inciampando nella gamba di una sedia, andando a sbattere sullo spigolo appuntito del ripiano granitico della cucina.
 Il sangue usciva copioso dalla mia tempia sinistra, eppure mia madre non si era minimamente turbata, mantenendo l’espressione decisa e di calma padronanza che aveva sempre.
Il sangue sulla mano della ragazza era decisamente meno, eppure le sue guance rosse virarono in pochi istanti verso un bianco-grigiastro davvero poco promettente, e tutto d’un tratto cominciò a tremare, respirando dal naso.
“ Sangue.”
Sembrava ipnotizzata dalla sua mano, che si imbrattava di rosso.
Qualche goccia cominciò a rimbalzare sul pavimento.
Maledizione.
Sentii i muscoli scattare in piedi, prendendo il sopravvento sulla  mente indecisa.
Mi avvicinai e la portai verso la mia poltrona, guidandola instabile per un gomito.
Lei obbedì  e si lasciò cadere di peso sulla pelle nera, senza proferir parola.
Le sue labbra erano bianche.
“ Le chiamo un medico?”
Teneva gli occhi chiusi, non mi rispondeva.
L’adrenalina mi faceva reagire più prontamente.
 “Vuole essere portata all’ospedale?”
Strofinava confusa le gambe l’una contro l’altra, muovendo il busto in piccole inclinazioni, prima a destra e poi a sinistra, quasi come fa una bimba quando viene cullata durante la sua ninna nanna.
La testa però la teneva ferma, reclinata all’indietro, le sopracciglia aggrottate e la guance schiacciate in un vano tentativo di regolarizzare il respiro.
“ No, è solo un momento di … adesso passa …”
La fissavo sconcertato, in piedi a pochi metri da lei, e ora che la raffica d’adrenalina era passata, l’ansia scorreva veloce nelle vene, irrigidendomi  i muscoli.
Non era possibile, capitavano tutte a me.
Vedevo nel sudore che le imperlava la fronte tutti gli sforzi che stava facendo per riprendere il controllo, eppure sembrava non riuscire a cancellare l’espressione di dilagante terrore che le bloccava le parole in gola.
Probabilmente non avrei dovuto ascoltarla, le serviva un medico.
Immagini sfocate di bianche brandine asettiche rimbalzavano in testa,  l’odore di alcool, dolore e malattia sembrava già saturare l’aria.
Avevo bisogno di un medico, ora.
Se la situazione si fosse aggravata, la ragazza sconosciuta e il suo stupido taglio mi avrebbero perseguitato la conoscenza.
Sfila il cellulare dalla giacca, premetti il tasto cinque della chiamate veloci.
“No, la prego, niente ospedale.”
Fu un gemito pieno di malcelato dolore, appena udibile nel silenzio della stanza, eppure mi colpì con la forza d’ un ordine, da non trasgredire.
Rassegnato posai il cellulare sopra la scrivania e aspettai che alzasse le palpebre.
“Mi dispiace, mi dispiace tanto, non so come fermare …”
Si teneva la testa tra le mani, incastrandola dentro le ginocchia.
Le tremavano le spalle.
Distolsi lo sgaurdo, sentendomi pervadere da uno strano formicolio, che fastidioso mi addormentava le mani e irrigidiva la mascella.
Faceva sempre più caldo, e i suoi respiri pesanti sembravano voler rubare tutta l’aria.
Non volevo guardarla, non volevo vedere le sue mani tremanti e la bocca semichiusa.
Non volevo scorgere il suo sgaurdo riempirsi d’indignazione quando avrebbe realizzato che non avevo fatto nulla per aiutarla.
Che cosa si aspettava che facessi, maledizione?
Vicino alla porta le macchie di sangue si erano sparse sul pavimento, un’impronta rossa di scarpa campeggiava sulla superficie bianca.
Presi i fazzoletti dalla tasca e mi misi a pulire.
Un motivo come un altro per darle le spalle.
Le pressanti vibrazioni di silenzio che si allungavano per tutto l’ufficio mi attraversavano ad intermittenza, sussurrandomi infide che dovevo fare qualcosa, ma non dicendomi che cosa.
Erano passati solo pochi minuti.
“ Potrebbe dare un fazzoletto anche a me? Credo che mi sentirei meglio se non vedessi più il …”
La  voce le usciva ad intermittenza, roca ed incerta, non riusciva a finire una parola senza spezzarsi.
Le porsi l’intero pacchetto.
Le sue guance avevano ripreso un po’ del loro naturale colorito, la fronte non era più bagnata di sudore e le labbra umide di saliva sembravano un po’ meno traslucide.
Stava meglio, certo, ma sembrava ancora così debole.
Nella confusione del momento mi venne anche la strana ed inspiegabile idea di chiamare Madilyn.
Forse perché ero sicuro che lei e la sua parlantina inarrestabile avrebbero fatto da collante tra la mia rigidezza e l’inquietudine della giornalista sconosciuta.
Strinsi forte le labbra; non potevo lasciarmi sfuggire queste stupidate.
Silenzio, c’era solo silenzio.
Ingombrante, pesante, innaturale silenzio che mi schiacciava, togliendomi anche la sicurezza del mio lavoro, l’unico ambito in cui essere spontaneo e nel giusto mi veniva naturale, senza fatica.
 “Oh, mi scusi tanto! Non me ne ero neppure resa conto!”
Girai lo sguardo e la vidi alzarsi in piedi di scatto, sfiorando sbalordita la poltrona di pelle nera dove era seduta pochi secondi prima.
Traballando, malferma sulle gambe, si mosse verso la porta, lanciandomi occhiate di puro, enorme imbarazzo, indecisa sul da farsi.
Forse voleva tornare a casa.
Ti prego, torna a casa.
“ Le chiamo un taxi.”
Si voltò di scatto e per la prima volta mi guardò dritto negli occhi.
Due liquide iridi marroni, il marrone dolce del  cioccolato al latte.
“No, no. Devo farle l’intervista, non posso presentarmi al mio capo senza nulla in mano”-si fermò un attimo, interdetta, misurano la mia espressione scocciata- “Sempre se per lei non è un problema.”
Con quegl’occhi lucidi e la voce stanca non sarebbe durata per più di dieci minuti.
Magari potevo inventare una qualche riunione dell’ultimo minuto, oppure potevo fingere un malore.
Quasi sorrisi; due malati in un ufficio.
“ Ho un impegno fuori città all’ora di pranzo e non posso trattenermi più di qualche minuto.”
 Il telefono squillò e si accese la lucina verde della chiamata veloce.
“ Madilyn, che cosa c’è?”
“ Sua madre mi ha detto di avvisarla di non aspettarla a pranzo.”
La ragazza mi guardò soddisfatta; non c’erano più vie d’uscita.
 “Le giuro che sarò veloce.”
Sembrava irremovibilmente determinata.
Sospirai.
“ Si accomodi allora.”
Si lasciò scivolare sulla sedia con un po’ troppa foga, sbattendo il ginocchio sul bordo della  scrivania.
Fece finta di niente, nascondendo il viso dietro la fitta cortina di capelli rossicci.
Quando poi alzò il viso dalla borsa nera il rossore, che era tornato ad animarle le guance, le lambiva anche tutta la pelle del collo e le orecchie, bollenti e rosse come due tizzoni ardenti.
In mano teneva un piccolo blocco di carta riciclata, la matita era tutta smangiucchiata ai bordi.
Non avevo mai visto una giornalista prendere appunti.
“ Mi dica, com’è nata l’idea di aprire una casa editrice? Ha una passione per i libri?”
Mentre aspettava la mia risposta raccolse i lunghi capelli in una mano e gli attorcigliò sopra la testa, una palla ispida e confusa di ciocche rosse in bilico su un elastico viola.
Era ancora un po’ scossa, ma con la matita  sulle labbra e il foglio tra le mani, sembrava ritornata in sé.
“No, in realtà non amo particolarmente leggere.”
Alle mie parole le sue sopracciglia si unirono scettiche per  il disappunto, ma non appena intravide il mio sgaurdo interrogativo, la sorpresa abbandonò in un attimo il suo viso e cambiò subito argomento, come se non fosse successo niente.
“Qual è stata la scintilla che ha acceso dentro di lei il desiderio di cominciare qualcosa di così grande tutto da solo?”
“ Sono sempre stato abituato a fare le cose per conto mio, portare la mia autonomia anche nel campo lavorativo è stato un passaggio semplice e naturale.”
“Si è fatto comunque aiutare da qualcuno?”
Risposi sorridendo, pensando con affetto alla mia più grande sostenitrice.
“ Mia madre mi è stata molto vicino, apprezzando ogni mia scelta.”
Non ne fui sicuro, ma sotto il suo sospiro sembrava celarsi un qualche brutto pensiero, che le  piegò il sorriso.
“ Cosa ne pensa del titolo di “miglior giovane dell’anno” assegnatoli all’unanimità da tutte le più prestigiose testate giornalistiche d’America?”
 “Naturalmente ne sono molto onorato.”
Una innocua, perfetta stupida mezza bugia.
“Ma le aspettative della gente devono essere un grande fardello da sopportare.”
Parlava veloce, mangiandosi la fine delle parole, tenendo lo sgaurdo basso.
Non riuscivo ad identificare la sottile venatura che le assottigliava il tono.
Stanchezza? Irritazione? Consapevolezza?
“ No, si sbaglia. Non mi interessa fare ciò che gli altri si aspettano da me, quello che importa è quello che io pretendo da me stesso, e si fidi, è una sfida ancora più ardua da vincere”
Sperai di averla convinta; cominciavo ad essere stanco di parlare.
Ma lei restò in silenzio, torturandosi le mani.
La vedevo soppesare le mie parole, quasi mi sembrava di sentire il ronzio confuso della sua mente mentre cercava di trarre le sue conclusioni.
Temporeggiava indecisa, cercando di mascherare la confusione.
Alla fine prese un bel respiro, e capì che non l’aveva ingannata.
“ E di preciso, quali sono gli obbiettivi che si è prefissato?”
Questa volta mi guardò negli occhi mentre mi parlava, la curiosità le faceva luccicare lo sgaurdo.
Faticavo a credere che la sua fosse solo genuina curiosità.
“Non mi interessa Edoardo, non mi interessa più.”
Mio padre mi guardava arrabbiato nella mia testa, io me ne andavo stanco verso casa, da solo.
 “ Questo preferisco non dirglielo.”
La gente non è mai interessata a quello che dici, non lo doveva essere.
BUM.
Il gelo della mia risposta la colpì con la forza di sferzata di vento.
Il suo corpo si ritirò verso la sedia, schiacciandosi sullo schienale.
Il viso le si incendiò raggiungendo anomali livelli di rossore, le mani le ripresero a tremare.
Stava di nuovo male?
Puntò lo sgaurdo per terra, come se non avesse la forza necessaria per mantenere la testa attaccata al corpo.
Intravedevo le sue labbra socchiuse, sentivo il suo respiro di nuovo pesante.
Forse ero stato troppo rigido, forse avrei dovuto rifilarle una di quelle frasette ad effetto, che mio padre amava tanto per tenere buona la stampa, dando l’impressione di aver detto molto quando in realtà non aveva detto nulla.
“Va bene.”
Parlò debolmente, ma mentre si infilava il giubbotto i suoi gesti erano frenetici e decisi.
“Va bene?”
Un’intervista non poteva durare il tempo di tre domande.
 “La informerò quando uscirà l’articolo.”
Parlò accororata, arrotolandosi malamente la sciarpa sul collo, con il busto già rivolto verso la porta.
Mio dio, stare dietro ai suoi malsani cambiamenti d’umore era praticamente impossibile.
Cosa c’era, adesso era tutto d’un tratto arrabbiata?
 La sua irritazione prosciugò anche l’ultima goccia di calma di tutta la mattinata; ma che razza di giornalista era?
Avevo solo perso tempo.
“Ne dubito, ho parlato massimo due minuti.”
“Ho abbastanza materiale.”
Ripeté la frase di prima, ma questa volta non provò neppure a nascondere l’impazienza della sua nascente rabbia.
Mi sentivo un bambino rimproverato dalla mamma perché non capiva matematica.
 “ Spero per il suo capo che l’articolo sia all’altezza della mia azienda.”
Non osò guardarmi negli occhi, era già quasi sparita dietro alla porta, ma la sentii trattenere il respiro, e per un attimo il suo tono ritornò basso e confuso.
“ Grazie per il suo tempo sig.re Miller.”
Non risposi; non sapevo neppure il suo nome.
Il rumore dei suoi passi si affievolì sempre più, finché sparì del tutto, e d’un tratto nel silenzio fu come se non fosse successo niente.
La mia rabbia s’assopì con altrettanta velocità, lasciando dietro di sé solo muscoli tesi e doloranti, ed un mal di testa amplificato.
 “ Quella sottospecie di giornalista era davvero strana! L’ho vista lanciare qualcosa nel cestino prima di prendere l’ascensore, e guarda cosa vi ha trovato dentro Sarah quando si è andata a prendere un caffè?”
Madilyn teneva tra le mani una piccola cassetta da registratore, con il filo mezzo srotolato e fuori dalle rotelle, poco più distante quattro pezzi di spessa plastica nera.
“ Santo dio, è sangue questa cosa?”
Mi alzai e le presi quella spazzatura dalle mani prima che gettasse tutto per terra, disgustata.
 “Mio dio, ecco che cos’è! E’ una depressa! Si è tagliata le vene!”
Madilyn corse fuori dall’ufficio tenendosi una mano sulla bocca, in un gesto che doveva essere di sconcertamento ma che invece l’accendeva di eccitazione.
Posai i pezzi di plastica sopra il comodino vicino alla finestra, analizzandoli alla luce.
Il sangue della giornalista si era seccato attorno alla plastica, scendendo in un rivolo rosso.
Feci scivolare l’arma del delitto dentro il primo cassetto, l’immagine del suo polso sporco di sangue ancora ben impressa nei miei occhi; si era tagliata con un registratore.
Fu la prima risata della giornata.

 

  
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Liz_95