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Autore: Light Rain    25/11/2012    8 recensioni
"Cercavo con tutta me stessa si rimanere aggrappata a quelle realtà che mi sembrava ancora di possedere. Ma non mi ero ancora resa conto che erano già diventate irraggiungibili". Questa è la storia di Annie Cresta, prima, durante e dopo i suoi Hunger Games
_SOSPESA_
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Annie Cresta, Finnick Odair, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Imbarazzo.
Un’ unica opprimente sensazione che rischia di soffocarmi.
Una quantità spropositata di imbarazzo generata da una situazione generalmete normale.
Tre brioches, un tavolo, tre persone: io, mio padre e Finnick.
E radunare questi tre fattori è molto rischioso per attrettanti semplici motivi:
1. Io potrei non resistere alla tentazione di saltare addosso a Finnick e baciarlo appassionatamente davanti a mio padre. Perché oggi ho un disperato bisogno di affetto fisico.
2. Finnick potrebbe mettersi a piangere da un momento all’altro perché si sente in colpa per cose di cui non si dovrebbe minimemente sentire responsabile. Perché gli occhi minacciosi di suo suocero gli ricordano quello che è costretto a fare.
3. Mio padre potrebbe accoltellare il mio fidanzato proprio per quegli stessi motivi per cui è disperato. Perché lui detesta il mio fidanzato, il mio bellissimo fidanzato, che ho un bisogno disperato di baciare proprio in questo momento.
Imbarazzo. Perché oggi non è una giornata come tutte le altre.
Io guardo le labbra di Finnick.
Mio padre guarda me che guardo Finnick.
Finnick guarda la brioche.
Imbarazzo. Terribile imbarazzo.
—Io vado un po’ al mercato e torno per pranzo— annuncia mio padre alzandosi in piedi.
—Ok— rispondo con un fil di voce.
Prende una giacca, apre la porta ed esce.
Dopo aver tirato un sospiro di sollievo mi volto verso Finnick e cerco la sua mano, la trovo calda posata sul tavolo.
Imbarazzo.
Forse non è quello.
Forse è qualcosaltro mascherato da questa stupida sensazione.
Forse è agitazione, nervosismo, paura.
Perchè oggi non è una giornata come le altre.
Forse io cerco Finnick perchè sono spaventata, perchè ho bisogno di sentirlo vicino.
Forse lui è semplicemente terrorizzato per quello che succederà oggi.
Forse mio padre è in pensiero per me, per noi.
Perché oggi non è una giornata come tutte le altre, oggi c’è la mietitura.
Questo non è imbarazzo, è terrore.
—Novità dal centro di addestramento?— chiedo timorosa.
—No— risponde Finnick scuotendo il capo.
Non ci sono volontari, non quest’anno.
Nelle ultime quattro edizioni dal nostro Distretto abbiamo sempre avuto volontari allenati, pronti per buttarsi nell’arena, ma nessuno è mai tornato a casa, in effetti nessuno a mai avuto una morte decente, visto che sono stati tutti uccisi in modo “disonorevole”. A quanto pare i nostri ragazzi non sono sufficentemente preparati per vincere gli Hunger Games, quindi quest’anno hanno deciso che non ci saranno volontari, si alleneranno duramente per la prossima edizione in modo da essere pronti al combattimento.
L’ultimo ragazzo del Distretto 4 che è tornato a casa è Finnick.
Che ogni anno è costretto a rivivere gli orrori dell’arena e a soddisfare i desideri delle donne di Capitol City.
Durante questa edizione sono cinque, hanno prenotato in largo anicipo per aggiudicarsi il premio più ambito.
Mi costringo a cambiare argomento.
—Usciamo anche noi?— chiedo a Finnick che è ancora intento a studiare la sua colazione.
Ne stacca un morso e poi ci alziamo lenti, sempre stretti saldamente alla mano dell’altro.
Andiamo un po’ in spiaggia, camminiamo silenziosi, lui accenna solo al fatto che oggi il vento sia molto caldo, poi più ninte, se non fosse per la sua mano che mi riporta alla realtà suppongo mi sarei già persa tra le onde del mio adorato Distretto. Quella mano così calda che sa farmi trepidare il cuore nonostante siano passati anni dalla prima volta che la strinsi. Quella mano che non ho la miniama intenzione di lasciare, ma lo faccio, devo: gli stilisti  devono preparare Finnick per le telecamere.
Lo accompagno a casa sua, saluto calorosamente Mags che ci viene incontro, bacio il mio fidanzato e poi decido di andare da Riza; ma non prima di essere stata stretta a Finnick per alemeno due miniti, a dondolarci davanti a casa sua sotto gli sguardi indiscreti dei suoi preparatori che sanno già tutto.
—Andrà tutto bene— mi sussurra tra i capelli.
—Andrà tutto bene— ripeto io.
Mi lascio a malincuore Finnick alle spalle e busso decisa alla porta dei miei zii.
Mi apre Riza che sorridendo leggermente mi fa entrare in casa, seduto al tavolo della cucine trovo anche mio padre che, a quanto pare, non aveva alcuna intenzione di girovagare per il mercato. Mi siedo difianco a lui stirando un piccolo pezzo di corda che mi ha dato Mags poco prima, nessuno parla, il silenzio aleggia solitario nella vecchia casa dei miei zii. Solo quando è il momento di preparare pranzo la cucina si anima un po’: troviamo le pentole, accendiamo i fornelli, sfilettiamo il pesce e sbucciamo le patate. Ho perfino l’occasione di concedermi una piccola risata quando Riza inciampa nei suoi stessi piedi finendo con la faccia spiaccicata sul pavimento.
Poi, però, una volta seduti a tavola la spiacevole sensazione di stamattina torna ad invadermi, con più vigore questa volta, cerco ripetutamente la mano di Finnick senza trovarla, l’unica via di scampo sembra essere quel piccolo pezzo di corda che stringo saldamente nella mano sinistra mentre con la destra mi sforzo di mandar giù qualche boccone di cibo.
Mi ricordo che la mattina della mia prima mietitura, quella in cui fu estratto Finnick, intrecciai abilmente tre reti; ma quell’anno avevo la garanzia che ci sarebbe stata una volontaria, oggi per il nervosismo l’unica cosa che sono in grado di fare è stringere un pezzo sfilaccciato di corda.
Una volta finito il pranzo andiamo veloci a prepararci: io e mia cugina ci infiliamo il vestito delle “feste”, ci sistemiamo un po’ i capelli e siamo pronte per andare in piazza.
Al nostro arrivo la troviamo già ricolma di gente: pacificatori, bambini impauriti, genitori in ansia, scommettitori.
Saluto mio padre, che con piacere abbraccio calorosamente, e i miei zii che mi coccolano come non mai.
Poi afferro la mano di Riza e ci avviamo alla registrazione, ci incodiamo alla lunga fila di ragazzi del nostro Distretto, mi guardo un po’ intorno e intravedo una nuca amica due persone davanti a noi.
—Judianna?— chiamo.
Lei si volta immediatamente e mi rendo conto che la mia intuizione non era sbagliata, mi fa un piccolo sorriso rincuorante e nella mia testa scatta subito un pensiero, un terribile pensiero che ho tentato di scacciare invano per tutta la mattinata.
—Lian dov’è?— chiedo preoccupata.
—Lui è arrivato un po’ prima di me— mi risponde —si è già registrato e penso sia in piazza— conclude lei buttando l’occhio sul gruppo di ragazzi già ammucchiati sotto il palco.
—Tu come va?— le chiedo. Judianna ha quindici anni, non è la sua prima mietitura, ma è comunque la sorella del mio migliore amico, ci tengo a lei e mi sento in dovere di domandarglielo.
—Me la cavo— risponde lei alzando le spalle.
—Tu Annie?— mi domanda a sua volta.
—Me la cavo— sorrido ripetendo le sue stesse parole.
Dopo esserci registrate io e Riza ci dirigiamo in piazza, sempre saldamente attaccate l’una alla mano dell’altra.
Scrutiamo attente la folla nella speranza di incontrare lo sguardo del nostro amico, ma non lo troviamo, in compenso incrocio gli occhi di Thom, lui mi sorride leggermente ed io ricambio il saluto.
Il sindaco ripete il solito discorso come tutti gli anni: di come è nato Panem, dei distretti, della rivolta guidata dal tredici e della caduta di quest’ultimo che ci ha portato esattamente qui, ad aspettare gli Hunger Games.
—è il momento del pentimento ed è il momento del ringraziamento— intona il sindaco.
Così prende a leggere la lunga lista dei vincitori del nostro distretto, uno ad uno sfilano sul palco, ma quasi nessuno si cura molto di loro, stanno tutti aspettando che venga letto l’ultimo nome.
E come  mi aspettavo al solo udire “Finnick Odair” la maggior parte della gente viene colta dall’euforia, alcuni lanciano perfino dei fiori: non solo le donne di Capitol City apprezzano il mio fidanzato, tutta Panem lo apprezza.
Finnick passeggia leggero sul palco nel suo bellissimo completo grigio antracite, allegro saluta la gente del Distretto, poi mi vede, i nostri occhi si incontrano per un momento che mi sembra essere un’eternità, io sorrido.
—Ti amo— gli bisbiglio articolando bene le parole.
Lui afferra il concetto e sorridendo manda un bacio nella mia direzione. Due ragazze davanti a me ridacchiano soddisfatte credendo che sia per loro. Tiro un calcio alla gamba di una, che si gira immediatamente stizzita.
—Scusa— le dico falsamente. Ogni tanto fa bene sfogarsi un po’.
Dopo che Finnick ha finito la sua passerella appare sul palco l’accompagnatrice super eccitata del nostro Distretto: Cloude Derting. Che quest’anno si è lanciata sull’effetto alga di mare, che sembra essere riusctito abbastanza bene perchè il suo abito ricamato alla perfezione appare umido e viscido, l’unica nota più sobria è la parrucca color biondo acceso, non particolarmente vistosa.
—Felici Hunger Games! E possa la buona sorte essere sempre a vostro favore!— dice lei in tono acuto, tipico della capitale.
Si prende qualche istante per ammirare la folla e poi con un largo sorriso annuncia —Prima le signore!—
La mia mano viene stritolata da quella di Riza, ma le sono grata, questo mi distrae dal senso di nausea che mi pervade dalla testa ai piedi.
La donna mescola lentamente dentro la boccia per poi tirarne fuori un singolo foglietto.
Ho paura.
A grandi passi torna al centro del palco schiarendosi la voce davanti al microfono.
Il cuore sembra volermi esplodere dentro al petto.
—Annie Cresta— annuncia lei.
Annie Cresta, mi ripeto.
Di istinto mi volto verso mia cugina, lei mi guarda, immobile. Lo fanno tutti.
Annie Cresta. A mia madre piaceva così tanto il mio nome che poteva arrivare a ripeterlo per tutta la giornata, anche a me è sempre piaciuto molto.
Riza lascia la mia mano, ma altre mi afferrano.
Mi muovo, meccanicamente, spinta da braccia sconosciute.
Metto un piede dopo l’altro, uno dopo l’altro, salgo uno scalino, poi due, mi ritrovo ferma davanti alla mia gente senza ricordare come ci sono arrivata.
—Sei pronta per questi Hunger Games cara?— chiede una voce accanto a me.
Annuisco senza capire a pieno le parole, senza staccare gli occhi da un piccolo frammento di piazza direttamente sotto il palco: c’è un fiore, un giglio bianco, calpestato, sfigurato, quasi irriconoscibile.
Cado in un vortice fatto di morte e sangue, morte e sangue...
No! Io non voglio andare! Portatemi a casa! Portatemi a casa!
Urlo istericamente dentro la mia testa. Le palpitazioni hanno preso il sopravvento insieme al panico che divora ogni mio centimetro di pelle.
Non voglio andare! Non voglio andare!
Stringo i pugni conficcando le ungie nel palmo della mano.
Finnick! Dov’è Finnick?
I miei occhi volano veloci da un’estremo all’altro del palco nella speranza di incontrare i suoi.
Dov’è? Dov’è Finnick?
Poi lo vedo, il suo sguardo già rivolto verso di me, respiro lentamente e mi perdo per qualche istante tra le pieghe increspate della sua camicia. Poi i suoi occhi verdemare guizzano lontani da me.
Finnick! Guardami! Finnick!
Cado nel vortice che mi aveva risucchiata pochi istanti prima.
Io non posso andare. Non posso. Io non...
—Elian Havelock— sento.
Un nome strambo, familiare. Un nome che mi riporta indietro a momenti felici, tra la spuma del mio mare e la sabbia leggera del Distretto. Un nome completamente fuori posto.
Mi paralizzo, incapace di muovermi, incapace di realizzare se quello che ho sentito sia una mia illusione o meno. La testa mi sta scoppiando.
Poso lo sguardo nuovamente sul piccolo giglio bianco.
Un nome completamente fuori posto, completamente fuori posto.
Ma l’ultimo pezzo del puzzle va ad unirsi in modo perfetto agli altri quando vedo il mio migliore amico salire sul palco e posizionarsi difianco a me.
Cado di nuovo.
 
 
 
 


 
 
 
 
 







 
 
 
 
 
 
 
Questo diciassettesimo capitolo è arrivato molto in ritardo, perché scriverlo è stata una vera tortura, mi sono decisa ad iniziarlo soltanto stamattina dopo numerose opere di convincimento da parte di me stessa. Ammetto di aver pensato di abbandonare la storia. Cosa che, se state leggendo questo mio sfogo, non è accaduta.
Detto questo ci terrei veramente tanto a spiegare a voi, miei lettori, il motivo per cui la mia creazione ha preso questa piega.
Quando nella mia testa si è fatta strada “Annie”, lei era già tutta scritta, dalla prima all’ultima parola; e una cosa per me era assolutamente fondamentale da trascrivere per il suo riuscimento:
Ho deciso di mantenere fede a ogni cosa che noi sappiamo già sui protagonisti grazie ai fantastici libri della Collins. Quindi se proprio Annie doveva impazzire vedendo decapitare il suo compagno di distretto, lui non poteva essere un tributo qualunque. Doveva essere un amico fidato, a cui lei voleva bene, per lasciarle una cicatrice tanto profonda. Così è nato Lian, sin dal primo capitolo io sapevo già quale sarebbe stato il suo destino: una semplice pedina mandata al macello nei miei giochi. Ma poi è successo qualcosa di inaspettato: Lian riga dopo riga, prendeva vita, entrava nella storia, ne diventava una parte fondamentale, fondamentale per Annie. Tanto che, posso dire serenamente, Annie, la mia Annie, non sarebbe qui senza di lui.
E questo rende più sensata questa mia macabra idea.
Credetemi io per prima amo alla follia questo personaggio e so anche quanto voi lo appreziate, ma se avessi cambiato i miei piani solo per puro affetto, la mia storia non sarebbe stata più la stessa. Penso che se avessi dato ascolto alla mia vocina interiore sostituendo Lian con un altro, avrei smesso di scrivere la storia, perché non più coerente con la mia idea.
Detto questo ringrazio tutti per l’infinito sostegno che mi date.
Spero che, nonostante tutto, il capitolo vi sia piaciuto. Saluto la mia fedele compare BeeMe, che aveva già intuito tutto e mi scuso per averglielo dovuto tenere nascosto.
Alla prossima.
Baci
Light Rain 
  
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