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Autore: Ato    25/11/2012    3 recensioni
«Sasuke-kun», rise, incapace di trattenersi. «Che ce ne facciamo di tutta questa roba?»
Sasuke arrivò in cucina chiedendosi come potesse non essere chiara la ragione di quella riserva. «Secondo te io posso mai uscire di notte per soddisfare tutte le voglie che ti verranno?»
«E ci volevano tre marche diverse di salsa di soia?»
Sasuke le si avvicinò, guardingo, anche un po’ pensieroso. «Di più?»
Sakura si dichiarò offesa, lo riprese esclamando un paio di volte il suo nome con un’enfasi tutta da lei. Gli diede anche un pizzicotto sul fianco. Lui le bloccò la mano prima che gli lasciasse un livido senza nemmeno accorgersene. L’interno del suo polso era liscio, la pelle finissima. Si sentiva il sangue che scorreva veloce. Sasuke la sentiva sotto le dita, quella vita, eppure sembrava che stesse esplodendo ovunque. Bellissima.
[...]
Sasuke voleva diventare papà (?) e io mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere una raccolta di momenti in cui pian piano lo diventa. Sì, più o meno.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Naruto Uzumaki, Sakura Haruno, Sasuke Uchiha | Coppie: Sasuke/Sakura
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la serie
Capitoli:
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Io non volevo arrivare in ritardo. Ma penso di aver fatto indigestione del mio stesso fluff.

Boh? Qualcosa del genere, insomma. Io e Sasuke lo dicevamo che il fluff è una cosa assolutamente insidiosa. XD

Buona lettura! J

 

Esplosioni

 

 

 

 

 

 

 

Promesse.

 

«Lo giuro», aveva detto Naruto, con voce tremante, con tono solenne.

Davanti a tutto il villaggio aveva giurato che si sarebbe preso per sempre cura di Itachi e che avrebbe condiviso ogni giorno con lui la sua marmellata preferita.

Era stata una bella cerimonia e tutti in Naruto già vedevano il padrino migliore del mondo. Forse perché nessuno sapeva fare giuramenti come lui; non c’era bisogno che firmasse col sangue, ce l’aveva scritto negli occhi e sulla pelle, nelle cicatrici più antiche: non sarebbe mai tornato indietro. Era stato lui stesso a istituire quel tipo di celebrazioni a Konoha. Quando era diventato hokage l’aveva fatto con un futuro nitidissimo negli occhi: il mondo degli shinobi doveva cambiare e non ci aveva messo molto a decidere che i primi cambiamenti avrebbero dovuto riguardare i bambini. Nessuno sarebbe diventato grande con un passato di solitudine come lui e Sasuke nascosto in uno sguardo appena controllato, in fondo pieno di rabbia e tristezza. Pian piano la solitudine sarebbe stata conosciuta solo nei racconti degli shinobi più anziani. Nessuno avrebbe conosciuto quel dolore sulla pelle – crescere, da quando Naruto era hokage, non significava sempre sperimentare un particolare tipo di dolore sulla propria pelle, ma solo empatizzare con quello degli altri. Crescere significava essere protetti fino a quando proteggere a propria volta non sarebbe stato un modo di vivere.

«Ma come fai a non essere stanco?» si lamentò Sasuke, scrutando torvamente suo figlio. Aveva anche tentato di farlo reggere da solo sul suo petto, come faceva sempre per privarlo delle ultime energie prima di farlo addormentare. Tuttavia Itachi era vigile, e si era anche messo in testa di giocare con la collanina che Naruto gli aveva messo al collo – il pendente era un pezzo dello shogi, in oro, finissimo, lucente. Un re, come aveva suggerito Shikamaru.

«Magari vuole un regalo anche da te, Sasuke-kun» considerò Sakura, fastidiosamente allegra anche dopo una seratina passata al centro del villaggio.

«Oltre alla festa?» indagò lui, scandalizzato, dalla sua postazione sul divano.

«Della festa non ricorderà niente».

«Te l’avevo detto», la rimproverò, sospirando.

«Avrà le foto».

«Allora come regalo gli faccio una mia foto».

Sakura ne sorrise, anche se un po’ accigliata, pensierosa. Stava accarezzando lo stesso pensiero da un sacco di tempo. Si avvicinò a loro due, inginocchiandosi dietro al bracciolo su cui Sasuke aveva posato la testa. «Stavo pensando…» cominciò, premurandosi di non notare l’orrore comparso sul viso di Sasuke alla sola premessa «ci sono dei regali che non vanno ricordati, solo… sentiti?»

«Me lo stai chiedendo?»

«Non lo so», ammise, chiudendo gli occhi per non lasciarsi sopraffare dai ricordi, da vecchi crucci. «È da quando avevo tredici anni che mi faccio sempre la stessa domanda. E ancora non trovo una risposta diversa da quella che trovai la notte che… lo sai». 

«Vuol dire che è quella giusta per te», rispose Sasuke, dopo un istante in cui si era lasciato rapire dal passato – o forse era diventato abbastanza forte da lasciarsi solo abbracciare.

«E per te?»

Sakura sentì su di sé il suo sguardo rapido, scurissimo, profondo. Lo vide annuire con calma.

«Gli regaliamo una promessa allora?»

«Però anche l’idea di qualche altra foto inutile…»

«Ho capito, gliela faccio io» lo interruppe Sakura, divertita. Evidentemente Sasuke non era nella giusta disposizione mentale per declamare promesse accorate – come al solito, insomma. Però era nella giusta disposizione mentale per lasciarla fare – e a Sakura piacque pensare che ormai anche questo avveniva con cadenza giornaliera. «Anche da parte tua?»

«Basta che non ci metti un paio di ere perché ho sonno».

Gli sfiorò la fronte con dita leggere, gli prese una mano e gliela posò sul petto, mentre Itachi li guardava incuriosito.

Sakura lo guardò attenta, ancora un po’ dubbiosa. Da quando era piccola si era chiesta quale fosse il regalo più bello da fare a una persona amata. Le erano venute in mente varie risposte. Per un momento aveva pensato di promettere protezione, eterna, a costo della vita, poi si era resa conto che forse non avrebbe fatto la differenza, che proteggere una persona forse bastava a farla sopravvivere, ma doveva esserci dell’altro.

Così a Sasuke aveva urlato che avrebbe fatto di tutto per donargli qualcos’altro – la felicità, Sasuke-kun. Quando a Sasuke quella promessa non era bastata per restare a Konoha con i suoi amici, Sakura si era ritrovata a vederla riflessa in ogni lacrima versata su cuscini sempre troppo umidi. Non riusciva nemmeno a sopportare il pensiero che lui fosse talmente disperato da non ambire almeno un po’ alla felicità, all’istinto più intimo che suggerisce sii felice e sarai vivo davvero.

Quando Sasuke era tornato a casa avevano dovuto imparare prima a vivere, poi a essere felici – a promettersi attimi di felicità per il futuro.

Ma Itachi aveva tutta quella vita negli occhi e nella bocca che usava più per ridere che per smozzicare sillabe storte… a guardare Itachi si vedeva tutta la vita che gli esplodeva sotto pelle. Bellissima. Quindi forse era già pronto ad accogliere quella promessa.

«Itachi, il tuo papà e la tua mamma vogliono farti un regalo… impegnativo. Non esistono regali più impegnativi delle promesse, perché valgono per tutta la vita. Noi ci impegneremo a rinnovarla ogni giorno questa promessa… e ci impegneremo anche a insegnarti a meritare questo regalo. D’accordo? Non lo so se c’è qualcosa di meglio, anche questo potrebbe non bastare…»

«Sakura».

È tutto abbastanza. È abbastanza per una vita intera.

«Ci impegneremo a renderti sempre felice, ogni giorno. E quando soffrirai noi soffriremo insieme a te».

Sakura scattò in piedi e si allontanò un po’ senza guardarsi alle spalle. Se si fosse impegnata non le sarebbe calata nemmeno una lacrima, pensava di poterci riuscire. Si concentrò al punto che a stentò riuscì a distinguere le parole ovattate di Sasuke: «vedi di fartelo bastare Itachi. Solo a un imbecille non basterebbe».

Sakura sussultò, voltandosi di nuovo verso di loro: Sasuke aveva l’espressione seria di chi ha appena fatto una confidenza molto intima. Itachi rideva, divertito dal modo in cui aveva imparato a strofinare la fronte su quella del padre.

 

 

Verso di lui.

 

Itachi stava crescendo vivacissimo, sembrava impaziente di andarsene in giro per il mondo tutto solo. A Sakura non dispiaceva seguirlo passo passo nell’attesa di vederlo in equilibrio sulle proprie gambe.

La prima volta che Itachi riuscì a camminare da solo, Sakura pensò che forse avrebbe dovuto capirlo un po’ prima: bastava posare le mani sotto le sue, senza toccarle, magari solo sfiorandole per dargli sicurezza. Bastava stargli alle spalle. Bastava far accovacciare Sasuke dall’altra parte del tappeto e Itachi pur di raggiungerlo velocissimo avrebbe imparato persino a volare.

E – Sakura ne sorrise – il modo in cui Itachi si fece cadere tra le braccia del padre sembrava la cosa più simile al volo di un angelo.

 

 

Il fuoco dentro.

 

«Dai Sakura-chan, vedi che non è interessato?» sghignazzò Naruto, nascondendo le risate dietro il cuscino che si stava strapazzando tra le braccia.

«Come fa papà ad avere il fuoco in bocca?»

Sakura lo fissò corrucciata mentre Itachi aveva lo sguardo incollato sulle fiamme alte che ardevano nel camino di fianco a loro. Forse non era stata un’ottima idea sedersi lì davanti a raccontargli una storia. «Non vuoi sapere come va a finire con la farfalla?»

«Sicuramente bene» commentò Itachi, poco interessato. Se non avesse avuto disegnata in viso l’aria da bambino perennemente felice sarebbe sembrato anche un po’ frustrato per lo studio poco fruttuoso delle fiamme. Ogni tanto soffiava e fissava contrariato gli spruzzi di saliva che sputava al posto del fuoco.

«Io l’avevo detto!» ci tenne a precisare Naruto, al massimo dell’ilarità. «L’avevo detto che a due anni sarebbe stato più interessato al katon che alle tue storie assurde».

«Cos’è il katon?» domandò Itachi, con genuina curiosità. «Serve a fare le scintille?»

«Esatto» replicò Naruto, tutto preso.

«E tu sai come si fa?»

«Naruto», lo riprese Sakura, quando lo vide sul punto di proclamarsi il maestro di un bambino che si era messo in testa di saltare qualche tappa.

Naruto si sgonfiò e Itachi non perse tempo ad accusarlo di non avere il fuoco in bocca.

«Itachi, il fuoco non è in bocca» intervenne Sasuke, in tono vago. Fino a quel momento aveva osservato la scenetta con apparente disinteresse.

«E dov’è?»

Sakura ne approfittò per incastrare entrambi con la risposta: «se vai a letto con papà lui te lo dice», propose.

 

La sera successiva davanti al camino Itachi e Sakura erano da soli. Sasuke era appena tornato da una missione ed era filato via a farsi una doccia. Itachi si era rifiutato di andare a letto: ogni sera doveva giocare almeno dieci minuti col padre. Non faceva molto, si limitava ad agitarsi e a guardare Sasuke mentre soffiava con le labbra come solo lui sapeva fare. Riempiva il camino di scintille che avevano il potere di rapire completamente il bambino.

«Ieri papà ha detto che il fuoco è dentro» cominciò Itachi, dubbioso. «Cosa significa?»

Sakura ne sorrise: le spiegazioni toccavano sempre a lei. «Significa che da qualche parte c’è anche dentro di te anche se non si vede».

«Davvero?» Itachi scattò in piedi, colto da un entusiasmo esplosivo. «E dov’è?»

Sakura gli sfiorò il petto, facendolo accovacciare tra le sue gambe. «Qui».

«Non è vero» la accusò lui, deluso.

«Ma certo che è vero» tentò di convincerlo lei, paziente. «Non ti sembra più caldo quando pensi a papà?»

Itachi si fece pensieroso ma restò guardingo. «Forse sì», rispose, distratto da un altro pensiero, decisamente più affascinante. «Papà pensa a me quando fa le scintille?»

Sakura sorrise – e Sasuke poco dopo le avrebbe rinfacciato senza alcun ritegno che quello poteva essere classificato a buon diritto tra i sorrisi più malevoli di sempre.

Ma lei non ci trovava niente di male nel desiderio di sentirlo ammettere che sì, pensava sempre a Itachi.

 

 

Bugie.

 

«Itachi, devi tossire meglio».

«Ma ho tossito meglio» si difese il bambino, orgoglioso.

«Sì, ma Sasuke ieri non ti ha creduto. È possibile che a tre anni ancora non sai fingerti malato?» Naruto lo guardò con una luce divertita negli occhi.

«Ieri quando ho fatto finta di avere tanta fame tu mi hai dato più marmellata» obiettò Itachi, compiaciuto. Quando l’aveva raccontato a suo padre lui gli aveva dato il permesso di chiamare Naruto dobe almeno una volta. Itachi non si era fatto sfuggire l’occasione, naturalmente. Tuttavia il suo momento di soddisfazione era durato poco perché Naruto aveva deciso di fargli pensare di poter prendere in giro anche il padre. Così lo aveva fatto esercitare a tossire a comando, fin quando Sasuke – preso dall’esasperazione – non avrebbe accettato di portarlo in vacanza al mare dal Kazekage.

Naruto non fece in tempo a fargli segno di cominciare coi colpi di tosse che un pugno gli si abbatté al centro del capo.

«La smetti di insegnargli a dire bugie?» si lamentò Sasuke, rannuvolato. «Itachi, volevi fingere di stare male?»

Il bambino lo guardò con aria colpevole, occhi fuggenti. Era palese il suo tentativo di mantenere un’aria angelica nonostante il senso di colpa. «No, papà».

«Bene», approvò Sasuke, decidendo di non fargli notare almeno per una volta che era un pessimo bugiardo. «Allora puoi chiamare Naruto dobe tutte le volte che vuoi».

Itachi si illuminò in viso, smettendo una volta per tutta l’aria da angelo.

Il sorriso luciferino sulle sue labbra stava decisamente meglio.

 

 

 

   
 
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