Io non volevo arrivare in ritardo. Ma penso di
aver fatto indigestione del mio stesso fluff.
Boh? Qualcosa del genere, insomma. Io e Sasuke
lo dicevamo che il fluff è una cosa assolutamente insidiosa. XD
Buona lettura! J
Esplosioni
Promesse.
«Lo giuro», aveva detto Naruto, con voce
tremante, con tono solenne.
Davanti a tutto il villaggio aveva giurato che
si sarebbe preso per sempre cura di Itachi e che avrebbe condiviso ogni giorno
con lui la sua marmellata preferita.
Era stata una bella cerimonia e tutti in Naruto
già vedevano il padrino migliore del mondo. Forse perché nessuno sapeva fare
giuramenti come lui; non c’era bisogno che firmasse col sangue, ce l’aveva
scritto negli occhi e sulla pelle, nelle cicatrici più antiche: non sarebbe mai
tornato indietro. Era stato lui stesso a istituire quel tipo di celebrazioni a Konoha. Quando era diventato hokage
l’aveva fatto con un futuro nitidissimo negli occhi: il mondo degli shinobi doveva cambiare e non ci aveva messo molto a
decidere che i primi cambiamenti avrebbero dovuto riguardare i bambini. Nessuno
sarebbe diventato grande con un passato di solitudine come lui e Sasuke
nascosto in uno sguardo appena controllato, in fondo pieno di rabbia e
tristezza. Pian piano la solitudine sarebbe stata conosciuta solo nei racconti
degli shinobi più anziani. Nessuno avrebbe conosciuto
quel dolore sulla pelle – crescere, da quando Naruto era hokage,
non significava sempre sperimentare un particolare tipo di dolore sulla propria
pelle, ma solo empatizzare con quello degli altri.
Crescere significava essere protetti fino a quando proteggere a propria volta
non sarebbe stato un modo di vivere.
«Ma come fai a non essere stanco?» si lamentò
Sasuke, scrutando torvamente suo figlio. Aveva anche tentato di farlo reggere
da solo sul suo petto, come faceva sempre per privarlo delle ultime energie
prima di farlo addormentare. Tuttavia Itachi era vigile, e si era anche messo
in testa di giocare con la collanina che Naruto gli aveva messo al collo – il
pendente era un pezzo dello shogi, in oro, finissimo,
lucente. Un re, come aveva suggerito Shikamaru.
«Magari vuole un regalo anche da te, Sasuke-kun»
considerò Sakura, fastidiosamente allegra anche dopo una seratina
passata al centro del villaggio.
«Oltre alla festa?» indagò lui, scandalizzato,
dalla sua postazione sul divano.
«Della festa non ricorderà niente».
«Te
l’avevo detto», la rimproverò, sospirando.
«Avrà le foto».
«Allora come regalo gli faccio una mia foto».
Sakura ne sorrise, anche se un po’ accigliata,
pensierosa. Stava accarezzando lo stesso pensiero da un sacco di tempo. Si
avvicinò a loro due, inginocchiandosi dietro al bracciolo su cui Sasuke aveva
posato la testa. «Stavo pensando…» cominciò,
premurandosi di non notare l’orrore comparso sul viso di Sasuke alla sola
premessa «ci sono dei regali che non vanno ricordati, solo…
sentiti?»
«Me lo stai chiedendo?»
«Non lo so», ammise, chiudendo gli occhi per non
lasciarsi sopraffare dai ricordi, da vecchi crucci. «È da quando avevo tredici
anni che mi faccio sempre la stessa domanda. E ancora non trovo una risposta
diversa da quella che trovai la notte che… lo
sai».
«Vuol dire che è quella giusta per te», rispose
Sasuke, dopo un istante in cui si era lasciato rapire dal passato – o forse era
diventato abbastanza forte da lasciarsi solo abbracciare.
«E per te?»
Sakura sentì su di sé il suo sguardo rapido,
scurissimo, profondo. Lo vide annuire con calma.
«Gli regaliamo una promessa allora?»
«Però anche l’idea di qualche altra foto inutile…»
«Ho capito, gliela faccio io» lo interruppe
Sakura, divertita. Evidentemente Sasuke non era nella giusta disposizione
mentale per declamare promesse accorate – come al solito, insomma. Però era
nella giusta disposizione mentale per lasciarla fare – e a Sakura piacque
pensare che ormai anche questo avveniva con cadenza giornaliera. «Anche da
parte tua?»
«Basta che non ci metti un paio di ere perché ho
sonno».
Gli sfiorò la fronte con dita leggere, gli prese
una mano e gliela posò sul petto, mentre Itachi li guardava incuriosito.
Sakura lo guardò attenta, ancora un po’
dubbiosa. Da quando era piccola si era chiesta quale fosse il regalo più bello
da fare a una persona amata. Le erano venute in mente varie risposte. Per un
momento aveva pensato di promettere protezione, eterna, a costo della vita, poi
si era resa conto che forse non avrebbe fatto la differenza, che proteggere una
persona forse bastava a farla sopravvivere, ma doveva esserci dell’altro.
Così a Sasuke aveva urlato che avrebbe fatto di
tutto per donargli qualcos’altro – la
felicità, Sasuke-kun. Quando a Sasuke quella promessa non era bastata per
restare a Konoha con i suoi amici, Sakura si era
ritrovata a vederla riflessa in ogni lacrima versata su cuscini sempre troppo
umidi. Non riusciva nemmeno a sopportare il pensiero che lui fosse talmente
disperato da non ambire almeno un po’ alla felicità, all’istinto più intimo che
suggerisce sii felice e sarai vivo
davvero.
Quando Sasuke era tornato a casa avevano dovuto
imparare prima a vivere, poi a essere felici – a promettersi attimi di felicità
per il futuro.
Ma Itachi aveva tutta quella vita negli occhi e
nella bocca che usava più per ridere che per smozzicare sillabe storte… a guardare Itachi si vedeva tutta la vita che gli
esplodeva sotto pelle. Bellissima. Quindi forse era già pronto ad accogliere
quella promessa.
«Itachi, il tuo papà e la tua mamma vogliono
farti un regalo… impegnativo. Non esistono regali più
impegnativi delle promesse, perché valgono per tutta la vita. Noi ci
impegneremo a rinnovarla ogni giorno questa promessa…
e ci impegneremo anche a insegnarti a meritare questo regalo. D’accordo? Non lo
so se c’è qualcosa di meglio, anche questo potrebbe non bastare…»
«Sakura».
È tutto
abbastanza. È abbastanza per una vita intera.
«Ci impegneremo a renderti sempre felice, ogni
giorno. E quando soffrirai noi soffriremo insieme a te».
Sakura scattò in piedi e si allontanò un po’
senza guardarsi alle spalle. Se si fosse impegnata non le sarebbe calata
nemmeno una lacrima, pensava di poterci riuscire. Si concentrò al punto che a
stentò riuscì a distinguere le parole ovattate di Sasuke: «vedi di fartelo
bastare Itachi. Solo a un imbecille non basterebbe».
Sakura sussultò, voltandosi di nuovo verso di
loro: Sasuke aveva l’espressione seria di chi ha appena fatto una confidenza
molto intima. Itachi rideva, divertito dal modo in cui aveva imparato a
strofinare la fronte su quella del padre.
Verso di lui.
Itachi stava crescendo vivacissimo, sembrava
impaziente di andarsene in giro per il mondo tutto solo. A Sakura non
dispiaceva seguirlo passo passo nell’attesa di
vederlo in equilibrio sulle proprie gambe.
La prima volta che Itachi riuscì a camminare da
solo, Sakura pensò che forse avrebbe dovuto capirlo un po’ prima: bastava
posare le mani sotto le sue, senza toccarle, magari solo sfiorandole per dargli
sicurezza. Bastava stargli alle spalle. Bastava far accovacciare Sasuke
dall’altra parte del tappeto e Itachi pur di raggiungerlo velocissimo avrebbe
imparato persino a volare.
E – Sakura ne sorrise – il modo in cui Itachi si
fece cadere tra le braccia del padre sembrava la cosa più simile al volo di un
angelo.
Il
fuoco dentro.
«Dai Sakura-chan, vedi che non è interessato?»
sghignazzò Naruto, nascondendo le risate dietro il cuscino che si stava
strapazzando tra le braccia.
«Come fa papà ad avere il fuoco in bocca?»
Sakura lo fissò corrucciata mentre Itachi aveva
lo sguardo incollato sulle fiamme alte che ardevano nel camino di fianco a
loro. Forse non era stata un’ottima idea sedersi lì davanti a raccontargli una
storia. «Non vuoi sapere come va a finire con la farfalla?»
«Sicuramente bene» commentò Itachi, poco
interessato. Se non avesse avuto disegnata in viso l’aria da bambino
perennemente felice sarebbe sembrato anche un po’ frustrato per lo studio poco
fruttuoso delle fiamme. Ogni tanto soffiava e fissava contrariato gli spruzzi
di saliva che sputava al posto del fuoco.
«Io l’avevo detto!» ci tenne a precisare Naruto,
al massimo dell’ilarità. «L’avevo detto che a due anni sarebbe stato più
interessato al katon che alle tue storie assurde».
«Cos’è il katon?» domandò Itachi, con genuina
curiosità. «Serve a fare le scintille?»
«Esatto» replicò Naruto, tutto preso.
«E tu sai come si fa?»
«Naruto», lo riprese Sakura, quando lo vide sul
punto di proclamarsi il maestro di un bambino che si era messo in testa di
saltare qualche tappa.
Naruto si sgonfiò e Itachi non perse tempo ad
accusarlo di non avere il fuoco in bocca.
«Itachi, il fuoco non è in bocca» intervenne
Sasuke, in tono vago. Fino a quel momento aveva osservato la scenetta con
apparente disinteresse.
«E dov’è?»
Sakura ne approfittò per incastrare entrambi con
la risposta: «se vai a letto con papà lui te lo dice», propose.
La sera successiva davanti al camino Itachi e
Sakura erano da soli. Sasuke era appena tornato da una missione ed era filato
via a farsi una doccia. Itachi si era rifiutato di andare a letto: ogni sera
doveva giocare almeno dieci minuti col padre. Non faceva molto, si limitava ad
agitarsi e a guardare Sasuke mentre soffiava con le labbra come solo lui sapeva
fare. Riempiva il camino di scintille che avevano il potere di rapire
completamente il bambino.
«Ieri papà ha detto che il fuoco è dentro»
cominciò Itachi, dubbioso. «Cosa significa?»
Sakura ne sorrise: le spiegazioni toccavano
sempre a lei. «Significa che da qualche parte c’è anche dentro di te anche se
non si vede».
«Davvero?» Itachi scattò in piedi, colto da un
entusiasmo esplosivo. «E dov’è?»
Sakura gli sfiorò il petto, facendolo
accovacciare tra le sue gambe. «Qui».
«Non è vero» la accusò lui, deluso.
«Ma certo che è vero» tentò di convincerlo lei,
paziente. «Non ti sembra più caldo quando pensi a papà?»
Itachi si fece pensieroso ma restò guardingo.
«Forse sì», rispose, distratto da un altro pensiero, decisamente più
affascinante. «Papà pensa a me quando fa le scintille?»
Sakura sorrise – e Sasuke poco dopo le avrebbe
rinfacciato senza alcun ritegno che quello poteva essere classificato a buon
diritto tra i sorrisi più malevoli di sempre.
Ma lei non ci trovava niente di male nel
desiderio di sentirlo ammettere che sì,
pensava sempre a Itachi.
Bugie.
«Itachi, devi tossire meglio».
«Ma ho tossito meglio» si difese il bambino, orgoglioso.
«Sì, ma Sasuke ieri non ti ha creduto. È possibile
che a tre anni ancora non sai fingerti malato?» Naruto lo guardò con una luce
divertita negli occhi.
«Ieri quando ho fatto finta di avere tanta fame
tu mi hai dato più marmellata» obiettò Itachi, compiaciuto. Quando l’aveva
raccontato a suo padre lui gli aveva dato il permesso di chiamare Naruto dobe almeno una
volta. Itachi non si era fatto sfuggire l’occasione, naturalmente. Tuttavia il suo
momento di soddisfazione era durato poco perché Naruto aveva deciso di fargli
pensare di poter prendere in giro anche il padre. Così lo aveva fatto
esercitare a tossire a comando, fin quando Sasuke – preso dall’esasperazione –
non avrebbe accettato di portarlo in vacanza al mare dal Kazekage.
Naruto non fece in tempo a fargli segno di
cominciare coi colpi di tosse che un pugno gli si abbatté al centro del capo.
«La smetti di insegnargli a dire bugie?» si
lamentò Sasuke, rannuvolato. «Itachi, volevi fingere di stare male?»
Il bambino lo guardò con aria colpevole, occhi
fuggenti. Era palese il suo tentativo di mantenere un’aria angelica nonostante
il senso di colpa. «No, papà».
«Bene», approvò Sasuke, decidendo di non fargli
notare almeno per una volta che era un pessimo bugiardo. «Allora puoi chiamare
Naruto dobe tutte le volte che vuoi».
Itachi si illuminò in viso, smettendo una volta
per tutta l’aria da angelo.
Il sorriso luciferino sulle sue labbra stava
decisamente meglio.