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Autore: avalon9    15/06/2007    1 recensioni
Gli youkai sono essere terribili: affascinano e uccidono. Sono esseri diversi. I ningen sono insignificanti, per uno youkai; creature semplici, irrazionali, che trascinano la vita senza comprenderla. Dei ningen gli youkai non si curano; li ignorano con superiore indifferenza.
Sesshomaru è youkai ed è orgoglioso della sua essenza. Ma un inverno, incontrerà una ningen e, da quel momento, la linea netta che separa uomini e demoni inizierà ad assotigliarsi.
Genere: Romantico, Malinconico, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Sesshoumaru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Carissime lettrici e carissimi lettori,

Carissime lettrici e carissimi lettori,

 

dopo un’assenza di più di tre mesi, sono finalmente riuscita a concludere la tesi (adesso è al vaglio del professore) e posso riprendere ad aggiornare. Per questo, vi invio subito un nuovo capitolo, che spero sarà di vostro gradimento. Inoltre, il prossimo è quasi concluso e spero di inviarlo a breve. Comunque, ormai siamo in dirittura di arrivo. Ancora dieci capitoli e la prima parte sarà conclusa. Vi avverto, comunque, che questi ultimi capitoli, oltre ad essere più drammatici, non chiuderanno tutte le questioni. Molti elementi resteranno in sospeso, anche perché si svilupperanno nel continuo.

 

Bene , adesso vi lascio alla lettura; fatemi sapere cosa ne pensate. Anche perché ci saranno alcune rivelazioni importanti e si porranno le basi di possibili svolte nuove.

 

Ringrazio infinitamente tutti voi per la pazienza che mi mostrate, e soprattutto Jame, Celina e Chiby per i commenti che mi hanno lasicato.

 

Buona lettura!

 

Avalon

 

 

 

 

 

CAPITOLO 40

DECISIONI

 

 

Koji si lasciò quasi cadere a terra dal suo stambecco e si trascinò nella tenda. Nausea. Fastidio. Emicrania. Aveva le orecchie piene di urla strazianti, di invocazioni e lamenti, le mani sporche di sangue.

 

Non degnò di uno sguardo il cibo e l’acqua sul basso tavolino. Gli davano il voltastomaco. Gli era impossibile anche solo il pensiero di mettere qualcosa sotto i denti senza venir preso da conati di vomito. Si tolse quasi con frustrazione le armi di dosso e si lasciò cadere a peso morto sulla sua branda in preda a spaventose convulsioni. Non aveva più il controllo dei suoi muscoli o dei suoi sensi: incubi e allucinazioni gli passavano negli occhi e nell’anima, tempeste devastanti che sradicavano dalla sua mente ogni pensiero non appena questo accennava a prender forma.

 

Il dolore e la disperazione di quello che aveva visto, di quello cui si era prestato, nonostante ora sapesse la verità, gli pesavano sull’animo come un macigno e l’oppressione divenne così forte da esplodere in un grido quasi ferino di delirio e strazio. Nessuno lo distinse dalle molte altre grida che ferivano quella notte maledetta, percorsa da ombre ubriache, da spettri sanguinosi. In cui il vento si mescolava all’ululato dei lupi che si aggiravano sul campo di battaglia, fra le mura squarciate del palazzo.

 

“È una carneficina, non una battaglia…”

 

Yashi si mise a sedere accanto a lui, con un’espressione stralunata, quasi folle. Era ancora ricoperto di sangue, un odore penetrante e acre. Rivoltante. Si slacciò con meticolosa lentezza la corazza e si tolse il kimono, restando nudo nella tenda buia. Fuori, risuonavano le grida euforiche degli uomini, ebbri di vittoria. Orgogliosi del risultato ottenuto: le mura erano state violate; un largo tratto della cinta era crollato sotto il loro fuoco e alcuni reparti erano riusciti a fare incursione, anche se poi erano stati quasi decimati dagli uomini di Sesshomaru. Comunque, il risultato era ormai evidente a tutti: una ferita profonda, aperta verso il castello.

 

Il ragazzo, in piedi, si rovesciò addosso tutta la bacinella d’acqua, incurante della sua temperatura gelata, strofinando spasmodicamente la pelle come a volersela strappare di dosso. Mai il sangue gli aveva dato una simile sensazione di malessere. Mai uccidere gli aveva provocato simili sensazioni. Non era rimorso. La morte faceva da sempre parte della sua vita. Uccidere era una cosa naturale come respirare. Non c’era alcun senso di colpa per aver ucciso. Si sentiva schiacciare al solo pensiero di come avesse ucciso.

 

Shin aveva ragione. Dannatamente ragione. Sparare non è come affrontare un avversario con la spada in mano o a mani nude. Sparare è diverso. Glielo aveva detto. Per quanto puoi allenarti a colpire una sagoma di legno, nel momento in cui ti trovi a dover premere il grilletto davanti a un demone vivo, e non a un fantoccio, tutto cambia. Persino il rumore del proiettile che colpisce il bersaglio.

 

Shin lo sapeva. Lo aveva provato prima di loro. E da quel momento era come impazzito. C’era qualcosa in quel modo di uccidere che lo aveva ripugnato. E che adesso disgustava anche loro. Forse l’idea di combattere ad armi impari, forse il sottile sospetto di essere inferiori senza l’uso delle armi da fuoco, o forse, semplicemente, la consapevolezza di essere nel torto. Sbagliato. Sbagliato. Sbagliato. Tutto quell’eccidio era insensato. Dannatamente insulso.

 

Non avevano preso parte diretta allo scontro più importante. Non erano stati loro a comandare il reparto che aveva fatto irruzione nella breccia aperta. Yashi e Koji si erano limitati a comandare i loro uomini ingaggiando scontri nella vasta piana fra il castello e l’accampamento. Alzando di quando in quando la testa al cielo pieno di fumo e lapilli di cenere. L’aria era quasi irrespirabile. Sapeva di polvere da sparo e ferro. Il sapore della morte. Bruciava le labbra, raschiava la gola. Giù-giù fin nei polmoni, nello stomaco. Fin nei recessi dell’anima. Artigliava la carne. Disgustava.

 

E fra le grida di agonia e incoraggiamento, continuamente il rimbombo cupo dei cannoni. Il frastuono di un tuono di morte. Mentre scie infuocate tracciavano nel cielo il loro reticolato, prima di schiantarsi al suolo, oltre la difesa avversaria, frantumandosi in un’infinità di schegge mortali. Loro non aveva visto gli effetti di quei proiettili nelle file nemiche, ma le urla strazianti che ancora riempivano l’aria ghiacciavano il sangue nelle vene. Se avessero potuto vedere la piazza d’armi del palazzo dell’inuyoukai, l’avrebbero trovata ancora ingombra di cadaveri mutilati, irriconoscibili. Di entrambe le parti.

 

Una nuova secchiata. Come se il freddo del liquido potesse mettere a tacere quello dell’anima. Come se lavandosi tutto mutasse. Si purificasse. Yashi sentiva l’acqua scorrere sul suo copro, disegnargli i muscoli e trasportare via i residui di sangue e fango. La polvere della battaglia. La sentiva percorrergli i capelli e disegnargli il volto, lacrime timide e senza sapore. Rimase ritto nella tenda, cercando di calmare il respiro rotto e il vorticare dei pensieri. Il contatto con qualcosa di morbido lo scosse d’un tratto.

 

Koji aveva seguito per tutto il tempo i suoi movimenti esasperati. Sapeva benissimo cosa passasse nella mente del fratello. Conosceva perfettamente ogni suo pensiero, riusciva a trovare una motivazione per ogni ombra che gli solcava il viso. Non occorreva che parlassero. Erano stati l’uno accanto all’altro per tutto il girono. Avevano visto le medesime cose, avevano provato le stesse emozioni. Violente. Devastanti. E alla fine, un attimo prima di voltare le loro cavalcature e tornare al campo, si erano cercati con gli occhi. Dilatati. Quasi terrorizzati.

 

Mentre frizionava il corpo del fratello, Koji non potè evitare di tornare con la mente a un’immagine fugace che aveva strappato alla confusione della battaglia. Un ragazzo, un nemico, un Principe avversario…Capelli neri lunghi, occhi azzurri, e furia folle e disperata. Lo conosceva. Si era già scontrato con lui. Più di una volta. E lui lo aveva risparmiato. Koji non riusciva a dimenticare l’espressione incredula che gli aveva visto sul viso. Neanche si fosse ritrovato faccia a faccia con un fantasma.

 

“Quanto durerà ancora?”

 

La voce di Yashi lo strappò alle sue riflessioni. Non tremava più. Ma anche prima, quando il fratello lo aveva avvolto nello yukata per fermarne i brividi, lui non si era accorto di star tremando. Non sentiva nulla. Le sue percezioni erano troppo distorte. Yashi sistemò la veste d’amaranto e si lasciò cadere prono sulla branda, chiudendo gli occhi. Koji non se la sentì di dare una risposta alla sua domanda, limitandosi a imitarlo e tornando a sdraiarsi anche lui sul suo letto. Fissava la cima della tenda, le ombre sanguigne che i fuochi da campo riflettevano sulla stoffa tesa, insinuandosi fra le pelli che la ricoprivano.

 

Quasi di muto accordo, i fratelli si fissarono nel silenzio assordante dei rumori che avvolgevano tutto il campo. Azzurro e viola. Due sguardi diversi. Due sguardi profondi e adulti. Cercavano l’uno negli occhi dell’altro un barlume dell’innocenza di quando erano ancora bambini. Cercavano le risposte alle proprie domande. Inutilmente. Non c’era altro modo. Dovevano continuare a combattere. Anche se quella guerra non apparteneva a loro. Anche se era il frutto di un pensiero folle e irrazionale.

 

Doveva ancora fingere di voler combattere. Fingere l’odio verso qualcuno che non avevano neanche mai visto. Dovevano fingere di aver dimenticato se stessi, la propria dignità, gli insegnamenti. Fingere di aver dimenticato Shin.

 

*****

 

“Il clan di Yezo?”

“Vostro fratello?”

 

Kyoko sospirò, trattenendo un sorriso nel vedere le facce allibite dei suoi figli, mentre posava il pennello e arrotolava la pergamena, dopo avervi fatto scorrere sopra il tampone per assorbire l’inchiostro in eccesso. Con meticolosa lentezza, fece sciogliere un po’ di cera da una candela rossa, versandola su un nastro di seta che legava il rotolo di carta, per poi imprimere il suo sigillo. Quanti anni erano che non lo faceva? Quanti anni era trascorsi dall’ultima volta che aveva preso direttamente in mano le redini del potere, dispensando ordini, tramando, facendo e disfacendo trame, progetti, alleanze…Per molti anni era vissuta di intrighi e politica, era stata accanto a suo fratello, condividendo con lui le incombenze del governo. Credeva che non avrebbe mai potuto vivere una vita diversa. Lei era la Signora degli inuyoukai di Yezo, o almeno lo sarebbe stata finchè suo fratello non avesse trovato una compagna. Solo in quel caso, Kyoko aveva previsto la possibilità di farsi da parte. E invece, erano bastati due occhi neri profondi e maliziosi a sconvolgere i suoi progetti, incrinando la sua realtà fatta di intrighi e battaglie.

 

Morigawa si era presentato nei loro territori a inizio primavera, mentre la neve ancora colorava le vette selvagge di Yezo. La sua isola…Fredda, quasi inospitale, con le sue alte montagne, le gole, i laghi; con la sua natura imponente e rigogliosa…Era il suo orgoglio. Una terra quasi disabitata, in cui si erano stanziati pochissimi ningen. Il regno incontrastato di loro demoni. Eppure, appena la yasha aveva posato gli occhi sull’inuyoukai, tutto era passato in secondo piano. Aveva impiegato molto tempo a convincere se stessa che amava quello youkai giunto da un’isola molto più a Sud, e che il suo comportamento aggressivo era dovuto al fatto che lui riusciva come pochi a imbarazzarla.

 

Morigawa era giunto come ambasciatore: portava proposte di alleanza da parte di un potente demone della loro razza, del Primo fra di loro. Inutaisho non era salito al potere neanche da cinquant’anni, e gia in tutto Nihon le sue imprese erano raccontate come leggende, incantando i cuccioli, entusiasmando i giovani e provocando reazioni contrastanti negli anziani. La potenza dell’inuyoukai era riconosciuta da tutti, ma non sempre ne era approvata la mitezza. Inutaisho non si era certo risparmiato nelle numerose guerre che aveva sostenuto, ma non aveva mai dato prova di essere efferato e sanguinario. Non aveva mai mostrato di possedere la freddezza tipica dei demoni.

 

Kyoko lo sapeva. Conosceva le voci che circolavano sul conto del Signore delle terre dell’Ovest, del Primo della Famiglia, ma non ci aveva mai dato molto peso. Era un mondo troppo lontano dal loro per preoccuparsene, o almeno così lei aveva sempre creduto, finchè non era comparso Morigawa, con la ferma intenzione di non andarsene senza aver ottenuto una risposta definitiva: o l’alleanza o la guerra. Un ricatto, aveva pensato la yasha. Un ricatto bello e buono travestito da visita amichevole. Disgustoso. Eppure, l’idea di essere stretta fra due fuochi la eccitava. Le provocava brividi di piacere ogni volta che incrociava lo sguardo del demone. Non era una stupida: una guerra col regno dell’Ovest significava la fine della sua stirpe. Il clan di Inutasiho regnava incontrastato non solo nella Famiglia, ma deteneva anche la massima autorità nel Consiglio. Opporglisi sarebbe stato un suicidio. Tuttavia, neanche cedere e sottomettersi era una proposta così allettante.

 

Hidesuke, suo fratello, era propenso all’alleanza, ma lei non riusciva proprio a sopportare la faccia che Morigawa aveva quando trattavano l’argomento. Sembrava di sufficienza, soprattutto quando guardava lei. Era stata la sua solita impulsività a spingerla a sfidarlo, senza neanche ascoltare le rimostranze di suo fratello. Se Morigawa l’avesse battuta in un duello, Yezo e la sua stirpe avrebbe stretto l’alleanza, altrimenti, l’inuyoukai avrebbe dovuto rinunciare alle sue mire su di loro. Piano semplice. Conciso. Atterrare quello sbruffone in poche mosse, facendogli mordere la polvere, e poi vederlo andarsene con la coda fra le gambe e un pugno di mosche. Kyoko era certa che avrebbe vinto. Nessuno della sua gente era mai riuscita a batterla, tranne suo fratello durante la prova di successione. Ma in quell’occasione, Kyoko aveva trattenuto la sua forza, perché voleva che fosse il fratello a regnare, così da poter esser libera di andare e venire da palazzo senza l’assillo di impegni e restrizioni dell’etichetta. Aveva rinunciato al potere per ottenere una totale libertà, ma non aveva avuto alcuna intenzione di abbandonare la scena politica e militare.

 

E anche in quell’occasione, la sua cocciutaggine aveva prevalso. Salvo poi ritrovarsi a terra dolorante e sconfitta, con Morigawa che la inchiodava al terreno per le braccia, quasi completamente sdraiato su di lei. Kyoko aveva scalciato e si era dimenata in preda ad una furia folle, incapace di accettare l’idea di esser stata battuta e impossibilitata a sostenere il sorriso del suo avversario. Doveva essere proprio soddisfatto. Aveva vinto lui, maledizione! Non aveva risparmiato un insulto al sempre più divertito inuyoukai, investendolo di un colorito repertorio gergale che stonava terribilmente in bocca ad una hime come Kyoko. Uno sfogo, violento, almeno per salvare l’orgoglio. Uno sproloquio cui Morigawa aveva posto fine chiudendole la bocca con la sua, in un bacio appassionato. Al demone, in realtà, non era più importato nulla dell’ambasciata da quando l’aveva vista. L’aveva desiderata fin dal primo istante. Desiderio fisico, che però, con il tempo che aveva trascorso al palazzo di Hidesuke, aveva scoperto essere molto più profondo. Diverso. Aveva dovuto aspettare cinque mesi prima di riuscire a trovarsela di fronte da sola, ed erano al centro di un ring in terra battuta e paglia. Si era detto che l’avrebbe battuta, soddisfando il desiderio di Inutasiho, e poi avrebbe chiesto la mano di Kyoko secondo le regole e la buona creanza, ma quando si era ritrovato quasi disteso sopra di lei, mentre la yasha lo investiva di ingiurie, aveva mandato al diavolo i suoi buoni intenti e l’aveva baciata.

 

Kyoko si sfiorò le labbra in un gesto incosciente. Erano anni che suo marito non la baciava più, che non cercava la sua presenza, che non condivideva con lei i suoi pensieri. Erano anni che non cercava più il suo spirito, ma neanche il suo corpo. Morigawa le aveva preferito delle concubine, delle demoni anche di infimo livello. Forse anche delle ningen. E la cosa la disgustava. Lei era sempre la Signora del Kansai, la madre dell’erede al trono, ma ormai la sua presenza al fianco di Morigawa era di semplice apparato. Quasi umiliante.

 

Dopo l’esilio, si era dedicata solo a Shin. Poi, quando era di nuovo rimasta incinta, Morigawa sembrava aver dimenticato le ragioni della loro presenza sul continente ed era tornato il marito premuroso di una volta, l’uomo che l’aveva baciata al cospetto di tutta la corte su un ring di paglia. Eppure, era stata solo un’illusione. Dopo la nascita di Yashi, Morigawa si era lasciato a poco a poco avvolgere dal vortice della vendetta, prestando ascolto alle voci suadenti e serpentine che gli sussurravano all’orecchio di non ignorare la sua forza e la sua natura, che gli ricordavano come la sua stirpe non dovesse temere un confronto con quella di Inutasiho. E tutto quell’odio, quel rancore, ora avevano prodotto quell’assedio e la morte di Shin.

 

Kyoko sospirò, passando la pergamena a un portaordini che aspettava in piedi, a doverosa distanza e in rispettoso silenzio. Era fedele alla sua Signora, anche se aveva subodorato il fatto che era chiamato a tradire il suo Principe. Perchè era chiaro che il demone che avrebbe dovuto raggiungere non era quello che si sarebbe potuto definire un alleato di Morigawa. Hidesuke non aveva mai partecipato direttamente alle questioni dei demoni di Honshu, ma una chiamata della sorella lo avrebbe persuaso più di ogni altra cosa a lasciare la sua isola fredda e selvaggia e scendere con le sue armate a Sud.

 

“Ormai, dovrebbe essere vicino a Nikko. Non risparmiarti: dalla tua celerità dipende molto”

 

Il demone si inchinò profondamente e uscì. Non occorreva giurare: ce l’avrebbe messa tutta per non deludere la sua regina. E poi, da quello che aveva capito, quel messaggio conteneva la possibilità di vendicare la morte del Principe Shin. Un’occasione da non perdere, quindi. L’unica cosa importante era non farsi scoprire delle altre guardie e dai demoni di quel nuovo luogotenente. Una volta che fosse riuscito a uscire dall’accampamento e ad addentrarsi nella foresta, sarebbe stato al sicuro. E Nikko non distava più di una settimana, se correva al massimo, senza lesinare le forze e non si fosse mai fermato. Salvo imprevisti, in una settimana ce l’avrebbe fatta.

 

*****

 

Yashi si lasciò cadere sugli zafu, passandosi una mano fra i corti capelli biondi. Le punte irregolari spesso gli sfioravano la pelle, procurandogli un leggero e fastidioso solletico. Prima o poi, avrebbe dovuto regolare meglio quel taglio. Ma comunque, quello non era il momento migliore per pensarci.

 

Prima, sua madre aveva convocato lui e Koji, nel cuore della notte, per poi farli aspettare quasi mezz’ora. E infine, come se le rivelazioni di pochi giorni prima sulle vere origini del loro esilio e di quella guerra non fossero state abbastanza sconcertanti, ecco una nuova realtà affacciarsi alla sua mente. Qualcosa che lo toccava da vicino e di cui non si era mai accorto. Dannazione! Gli sembrava di esser stato catapultato in un altro mondo, dove le persone erano sempre le stesse, ma le situazioni contingenti lo lasciavano basito e sconcertato. Un punto fermo. Ci fosse almeno un maledetto punto fermo nella sua vita. Nulla, invece. Tutto quello in cui aveva creduto gli era scivolato fra le dita, sgretolandosi come un mero castello di sabbia.

 

Aveva misurato a grandi passi tutto il padiglione materno, in preda a sentimenti contrastanti e nuovi. Rabbia, frustrazione, sconcerto, sorpresa…Non era riuscito a definirne uno, ma sapeva che lo stavano dilaniando. Che lo avrebbero portato sull’orlo di una crisi isterica. Come una femminuccia. Davvero patetico. In quegli istanti, aveva rimpianto di non possedere la lucidità fredda ed analitica di Shin. Anzi, più semplicemente, aveva rimpianto di non avere il fratello accanto. Maledizione! Ne aveva già perso uno, di fratello, perché adesso avrebbe dovuto separarsi anche dall’altro? Perché?!

 

In realtà, Yashi era perfettamente cosciente che quella fosse la soluzione migliore e che Kyoko aveva rivelato loro anche quell’ultimo segreto perché era preoccupata e ormai era tempo di giocare a carte scoperte. Però, non gli andava giù. Ecco, lo aveva ammesso. Non si può far crescere tre ragazzi assieme, chiamandoli figli, far loro condividere gioie e dolori e poi, di punto in bianco, sbatter loro in faccia una realtà diversa da quella consueta.

 

Si chiamavano fratelli, e adesso scoprivano di non aver nessun legame di sangue. Si chiamavano fratelli, e scoprivano di appartenere a due stirpi diverse. Si chiamavano fratelli, e presto si sarebbero trovati costretti su fronti opposti a combattere l’uno contro l’altro.

 

Yashi girò appena la testa. Koji era stancamente appoggiato al tavolo, una mano a sostenere pigramente la testa. Sembrava non essere neanche presente realmente nella tenda. Lo sguardo vacuo indugiava sulle venature del legno, ma la mente era intrappolata molto lontano. Vagava fra sensazioni e ricordi di un passato lontanissimo. Sospirò, passandosi una mano sul viso stanco. Si sentiva mortalmente esausto. Quasi privato di ogni energia. Non poteva negare di aver avuto una strana sensazione la prima volta che aveva incrociato lo sguardo di quell’ookami, ma mai si sarebbe aspettato una simile realtà. Eppure, avrebbe ben dovuto accorgersi che le loro youki erano come entrate in risonanza, che si cercavano e si confondevano, ma senza un reale intento aggressivo. Aveva attribuito quelle sensazioni alla battaglia, all’eccitazione della lotta, e invece era un semplice richiamo. Il riconoscersi del sangue.

 

Fissò la propria mano, aprendola e chiudendola come a cercarne la presenza, a risvegliarla. Artigli. Lunghi e affilati. Inconsciamente, sfiorò con la lingua i canini appuntiti. Certo, erano zanne, le sue solite zanne, ma perché adesso gli risultavano così estranee? O meglio, perché adesso gli tornavano alla memoria mille piccoli particolari che non sembravano avere senso, e che invece acquistavano tutti un significato ovvio.

 

Il suo bisogno di evadere da un palazzo, la predilezione per la corsa, la passione per la caccia e il bisogno di sentirsi circondato da compagni fidati. Di sentire la presenza di qualcuno al fianco. Anche lo strano colore dei suoi occhi aveva adesso una spiegazione. Si era sempre chiesto perché mai la sorte aveva regalato ai fratelli gli occhi viola della madre, assegnando a lui quel colore azzurro. Per quanto ne aveva sempre saputo lui, nessuno degli inuyoukai del Kansai aveva mai potuto vantare un simile colore. E adesso che conosceva tutte le risposte, si trovò a desiderare che il tempo tornasse indietro e che la sua memoria venisse cancellata. Mille volte meglio vivere nell’incertezza, che dover affrontare il futuro che lo aspettava. Eppure, sapeva perfettamente che ormai non si poteva più cambiare nulla.

 

Era un ookami. Eccola, la verità. Nelle sue vene scorreva il sangue delle selvagge tribù dei lupi. Il loro sfrontato desiderio di libertà, il loro attaccamento al branco, la loro passione per le cacce veloci nei boschi. Era sempre stato bravo a seguire le tracce, più di Shin e Yashi messi assieme. Lo considerava il suo dono segreto, perché anche il fiuto dei fratelli era incredibile. In realtà, era semplicemente il suo naso ad essere per inclinazione genetica più sviluppato che quello dei fratelli.

 

Koji…”

 

Il ragazzo sorrise mestamente, passandosi una mano alla base del collo. Si sentiva un fascio di nervi, tanto era teso e confuso. Koji…Non era neanche il suo vero nome. Era quello che Kyoko gli aveva dato quando Takakuni lo aveva portato sul continente. Lo aveva trovato pesto e incosciente in una foresta, e lo aveva preso con sé. Quando si era risvegliato, dopo moltissimi giorni, era in un grande palazzo, con un bambino biondo della sua età che lo scrutava curioso. Yashi aveva strillato, quando lui si era ripreso, perforandogli i timpani. Bel modo di trattare i malati! A momenti lo assordava. Ma poi, lo aveva abbracciato, chiamandolo in quel modo. Fratello. Nella mente del bambino era passato un lampo veloce. L’immagine di un volto circondato da capelli neri. Aveva provato ad afferrare e definire quel lampo, ma una fitta alla testa lo aveva fatto desistere. E poi, quando Shin era entrato nella stanza, si era convinto che il volto che non riusciva a ricordare fosse il suo. Quello di suo fratello maggiore.

 

Che stupida ironia. Se solo Shin non avesse avuto i capelli di quel colore, probabilmente lui si sarebbe accorto prima delle differenze. No. In realtà, le differenze le aveva sempre notate, ma non ci aveva mai badato. Come non aveva mai dato peso all’odore diverso del suo corpo. Aveva un che di ferino, selvaggio. Qualcosa che non era affatto presente nell’odore dei fratelli. Lo aveva ignorato, dimenticandosene completamente. Vivendo costantemente con degli inuyoukai, anche il suo vero odore era sparito, confuso con quello dei demoni-cane. Tuttavia, ormai era inutile mentire a se stessi. Ormai, dopo il racconto di Kyoko, anche i ricordi bloccati nella sua mente erano riemersi, lentamente, dapprima a sprazzi, per poi trasformarsi in una marea che lo aveva sommerso.

 

“Ehi Koji!”

 

Si girò stancamente verso il fratello. Avrebbe voluto dirgli di smetterla di chiamarlo così. Non era quello il suo nome. Non era così che lo aveva chiamato suo padre quando era nato. Avrebbe voluto dirgli che era inutile continuare quella farsa, smetterla di trattarlo da fratello, quando ormai era chiaro a entrambi che nulla li legava, che erano solo due youkai che avevano vissuto un periodo della loro vita assieme. Ma nulla si più. Invece, non disse nulla. Inconsciamente, non si sentiva ancora pronto a lasciare il mondo in cui era cresciuto, per cercare una passato che lui ricordava, ma che forse a nessuno sarebbe interessato.

 

“Hai ricordato qualcosa?”

 

Gli occhi viola di Yashi. La stessa espressione di quel giorno lontano, quando quasi lo aveva assordato appena si era svegliato. Non sembrava esser cambiato nulla fra loro, eppure l’ookami avvertiva che si stava creando una frattura, che era lui a crearla, ma non riusciva a trovare la forza per fermarla, per impedire che avvenisse. Si limitò solo ad annuire, incrociando le mani sulle ginocchia. Adesso, avrebbe dovuto raccontar loro di quella famiglia che aveva dimenticato. Di un universo che gli era ancora nebuloso e lontano, ma che sentiva come suo. Lo avvertiva nel sangue.

 

“Forse, è meglio per voi non sapere…”

 

Yashi gattonò fino a lui, abbracciandolo da dietro al collo e strattonandolo verso di sé, quasi volesse soffocarlo. Aveva un’espressione fra l’arrabbiato e l’attonito che per un istante Kyoko ebbe il sospetto che lo avrebbe strozzato davvero se non si decideva a parlare. In fondo, il suo secondogenito era impulsivo e avventato quanto lei. Si rilassò quando sentì le parole offese e irritate di Yashi e trattenne un sorriso nel vedere che anche Koji rispondeva alla provocazione, come facevano sempre quando litigavano; solo che lei non aveva la minima intenzione di intervenire questa volta.

 

“Ma sei scemo?!” urlava intanto Yashi all’orecchio del fratello, che cercava di allentare le presa, per altro non particolarmente pericolosa, attorno alla sua gola. “Si può sapere cos’hai nel cervello? Segatura?! Cos’è questo discorso che noi non dovremmo sapere?”

 

Yashi! Ti decidi a lasciarmi? Ma non capisci che lo faccio per voi? Io…”

 

“Tu sei e resti mio fratello” lo zittì Yashi, mollando all’improvviso la presa finalmente conscio di cosa avesse torturato le mente e il cuore di Koji fino a pochi istanti prima. Ma si era bevuto il cervello? Che razza di discorsi, faceva. Come se un altro nome, l’appartenere ad un’altra tribù, l’esser un lupastro invece di un inuyoukai lo cambiasse. Idiozie. Koji restava sempre Koji. Con qualunque nome e sotto qualunque forma. Era con lui che aveva passato l’infanzia e l’adolescenza, era con lui che aveva ordito scherzi e burle, che era andato a caccia e che aveva beccato punizioni per le loro scappatelle. Era con lui che aveva imparato a combattere e con cui si era allenato. E questo non sarebbe mai cambiato.

 

“E se adesso hai finito con le tue sciocchezze, vedi di sputare il rospo. Io sono curioso!”

 

Koji si massaggiava ancora intontito la gola. Certo che quando voleva, suo fratello non ci andava tanto per il sottile. Lo aveva quasi strozzato davvero; adesso un bel livido non glielo toglieva nessuno, almeno per un quarto d’ora. Gli fece una smorfia offesa e si voltò verso…Poteva ancora chiamarla madre? Il sorriso incoraggiante di Kyoko dissipò i suoi ultimi dubbi. Prese un respiro profondo e, lanciando un’occhiata in tralice a Yashi, seduto ancora troppo vicino a lui, inizio a parlare.

 

“Per prima cosa, ho ricordato il mio nome…”. Una breve pausa, prima di dirlo d’un fiato. “Nijiya

Poi, raccontò di come, dopo un litigio, si fosse allontanato nella foresta per allenarsi da solo e andare a caccia. In preda alla rabbia, si era spinto molto lontano dalla tana del branco, fin a trovarsi completamente disorientato e in una zona della foresta che non aveva mai esplorato. Era stato mentre cercava una soluzione al guaio in cui si era cacciato che era stato attaccato. Paradisee. Demoni da sempre nemici degli ookami. Senza neanche rendersene conto, era finito nel loro territorio. Aveva provato a combattere, ma poi aveva dovuto ripiegare sulla fuga, sopraffatto.

 

“Sei fuggito?!” lo interruppe incredulo Yashi. A quel che ne sapeva lui, suo fratello era capace di morire mordendosi la lingua, piuttosto che voltare le spalle a un nemico che ancora respirava.

 

“Ero un cucciolo!” cercò di giustificarsi Koji. “E loro era tanti e agguerriti. Avrei voluto vedere te al mio posto! Se volevo salvare la pelle l’unica era dimenticare l’orgoglio e darsela a gambe. Non ne sono fiero, sai?!

 

Yashi alzò le mani in segno di resa e il fratello potè riprendere a raccontare con un sospiro rassegnato. A volte, aveva l’impressione che Yashi lo stuzzicasse apposta per fargli perdere le staffe e si divertisse nel vederlo arrabbiato.

 

“Comunque, prima che tu mi interrompessi,”riprese lanciandogli un’occhiata torva “stavo per dire che mi stufai ben presto di scappare”

 

“Ah, ecco! Mi sembrava strano!”. Un leggero colpo costrinse di nuovo Yashi al silenzio, e mentre il demone si massaggiava la parte offesa, Kyoko ritornava a sedersi con una pazienza davvero incredibile. Possibile che quei due non crescessero mai? Yashi poi era sempre pronto allo scherzo e alla battuta. S’infiammava per un nonnulla, ma al contempo era lesto nel rimbeccare ad un’offesa. E poi, se era convinto di aver ragione, era capace di tenere il broncio per giorni. Tuttavia, in quel momento Kyoko non potè che rallegrarsi del comportamento del figlio. Koji forse non se ne era accorto, ma lei aveva visto l’ombra scura che attraversava le iridi di Yashi. Forse per la prima volta, il demone stava fingendo la sua allegria, per sdrammatizzare la situazione e non farla pesare eccessivamente a Koji. Benché fra loro l’affetto non potesse mutare, qualcosa sarebbe inevitabilmente cambiato. Per uno strano accostamento, Kyoko si trovò a ricordare un atteggiamento simile a quello di Yashi. Morigawa assomigliava al figlio in modo impressionane da quel punto di vista. Quando loro due litigavano, da giovani, spesso ci voleva l’intervento di Inutaisho per riportare la pace. Anche se, a ben pensare, l’unico non incline a stuzzicare gli altri era solo Kumamoto. Quando ci si mettevano, Inutaisho e Hodoshi erano ancor più insopportabili di Morigawa. E la ciliegina sulla torta era quando litigavano fra di loro, tutti e tre. Erano imprevedibili: capaci di ignorasi altamente per giorni, anche settimane, o di ammutolirsi all’istante nel bel mezzo della discussione, guardandosi negli occhi per poi scoppiare a ridere.

 

Kyoko si accorse del silenzio nella tenda e degli sguardi preoccupati dei figli. Si era rifugiata nei suoi ricordi e loro se ne erano accorti. Fece un segno leggero, a minimizzare l’accaduto, e tornò ad ascoltare Koji, che riprese a spiegare come, alla fine, fosse riuscito sì a eliminare tutti gli inseguitori, ma ne era uscito così malconcio da non accorgersi neanche di essere ormai vicino allo strapiombo. L’ultimo ricordo, era l’eco della sua stessa voce mentre cadeva.

 

“L’ho sempre detto, io, che tu hai la testa dura! Cadi da uno strapiombo e il massimo che ti tocca è una piccola amnesia. Ma si può esser può fortunati?”

 

Koji rispose per le rime, piccato. Una fortuna?! Era quasi morto sfracellato, e suo fratello diceva che era una fortuna? Con Yashi era pressoché impossibile fare un discorso serio. Ci infilava dentro sempre qualche battutina. Era praticamente un caso senza speranza.

 

“E della tua famiglia? Non ricordi nulla?”

 

Koji scacciò l’insulto che gli era salito alle labbra e si voltò verso la madre, deglutendo rumorosamente. All’improvviso, si sentiva la gola secca e aveva perso tutta la sua baldanza. Poteva dirglielo? Poteva dare quel dolore a sua madre? Perché, in fondo, la domanda di Kyoko era precisa: voleva sapere i nomi dei suoi genitori. Ecco, cosa voleva.

 

“Sì…”. Inutile mentire, lo avrebbe capito subito. Però, sentiva i polmoni in debito di ossigeno anche se continuava a prendere respiri profondi. L’ansia gli era ormai salita al cervello, facendogli sfuocare le immagini e costringendolo a scaricarla contorcendo un lembo del karingiru che indossava, fino a lacerarlo senza neanche accorgersene.

 

Hidoshi”sussurrò appena. “Hidoshi è il nome di mio padre” ripetè più forte. Kyoko sbiancò in volto. Il figlio di Hidoshi…Davvero il suo Koji, il cucciolo di lupo che aveva allevato, era il figlio di un suo caro amico? Che potesse esser imparentato con l’ookami e quindi anche con il giovane Principe degli Yoro che adesso combatteva con Sesshomaru, lo aveva pensato dal colore delle sue iridi. Quella tonalità forte, quasi violenta di azzurro, era tipica del clan egemone degli ookami. Ma non aveva mai pensato ad una discendenza diretta.

 

“Ma allora…Quel lupastro che combatte con Sesshomaru è tuo fratello?” riuscì a biascicare Yashi, boccheggiando per la sorpresa e al contempo il sollievo di non averlo mai avuto sotto gli artigli. Se fosse morto, in quel momento il fatto di ricordare avrebbe distrutto totalmente Koji. Bastava aver già perso un fratello, anche se non di sangue.

 

“Esatto”annuì piano, per poi ripensare un istante alla frase del fratello “Ehi! Com’è che lo hai chiamato?!

 

La discussione si riaccese, ma Kyoko non ci badò nemmeno. Figlio di Hidoshi…Figlio di Hidoshi…Non riusciva a pensare ad altro e al modo per farlo andar via dal campo. Ora più che mai non voleva che venisse coinvolto in quell’inutile guerra.

 

<Hidesuke fosse già qui…>>

 

Aveva mandato a chiamare il fratello proprio per poter metter fine a quell’inutile massacro. Stretto fra due fuochi, Morigawa sarebbe stato costretto a capitolare. Definitivamente. Allora, col Sensei, avrebbero cercato un’altra soluzione. Anche drastica questa volta. Ma almeno definitiva.

 

*****

 

Lo scheletro del torii si intravedeva appena, seminascosto dalla vegetazione secca e brulla dell’inverno. Un groviglio di ramaglie grigie e fragili, rinsecchite dal freddo. Sembrava uno spettro funesto, ricordava una grandezza ormai lontana. Il bel rosso acceso che un a volta gli era appartenuto era naufragato nel tempo, lasciando il posto ad un colore scuro e annerito. Bruciato.

 

Yaone sospirò leggermente, mentre chiudeva gli occhi e respirava l’aria fredda della notte. In quella radura regnava un silenzio che non era neanche immaginabile al campo di Morigawa. Una quiete totale, quasi mortuaria. Si ritrovò a ridacchiare, con autocommiserazione. Quel posto aveva proprio tutto l’aspetto di un cimitero, con la nebbia leggera che strisciava fra le foreste di bambù. Quale ironia. Lei che voleva la morte, lei che aveva sempre cercato di morire, camminava da viva in quel luogo.

 

Quel luogo…assomigliava molto ad un altro, della sua memoria. Alla radura che celava l’ingresso a quel tempio, forse l’unico che gli youkai avessero mai eretto. Sempre se effettivamente lo si potesse chiamare tempio: nella sua mente, la yasha riedificò una fortezza, chiusa fra cinta murarie a ventaglio e stagliata verso il cielo, in un sovrapporsi di materiali e stili architettonici. Antica. Molto antica. Quanto lei. Più di lei. Anni…Erano passati anni, secoli, da quando era stata cacciata da quel luogo, per i suoi esperimenti eretici. Quegli esperimenti che l’avevano portata ad essere quello che era. Un qualcosa che non è vivo né morto. Un qualcosa che respira, il cui cuore batte, ma che non prova nulla, che è vuoto dentro.

 

Si era condannata. Da sola. Per la sua caparbia cocciutaggine. Glielo avevano detto che un simile esperimento era assolutamente pericoloso, oltre che proibito. Non è concepibile mescolare l’alchimia alla purezza dello youki. Un’azione infamante e che poteva provocare disastrose conseguenze, sconvolgere equilibri millenari. E poi, lei era ancora un’apprendista, troppo piccola anche solo per concepire un simile piano. Figurarsi, metterlo in pratica. Avrebbe dovuto limitarsi a continuare i suoi esercizi spirituali, come ogni bravo discepolo, accrescendo il suo youki con l’esercizio e la meditazione. Solo la profonda e completa conoscenza di se stessa le avrebbe dato tutto il potere che sembrava così impaziente di possedere, per cui era anche disposta a ricorrere alle arti proibite.

 

Yaone si concesse un sorriso stanco. Nessuno aveva mai capito il reale motivo del suo interesse. Ampliare il proprio youki? Certo, era allettante come prospettiva, ma non era il suo vero obiettivo. Era l’ignoto a interessarla, l’ambiguo, il proibito. Yaone era attratta dall’alchimia, da quella scienza capace di creare fuoco e ghiaccio dal nulla senza ricorrere a nessun potere demoniaco, per il semplice fatto che sfuggiva alla sua comprensione. Sapeva che era proibito. Che mescolare le due tecniche poteva portare a gravi conseguenze, ma non le importava. Lei voleva sapere. Voleva conoscere. Voleva provare.

 

Non aveva mai posto un limite al suo desiderio di conoscenza. Appena veniva a contatto con qualcosa di nuovo, si tuffava a capofitto nello studio per approfondirla. Ma come era nato in fretta, il suo entusiasmo scemava altrettanto velocemente sostituito da una nuova passione, da un nuovo interesse. Aveva raccolto informazioni molteplici e disparate, senza mai preoccuparsi di articolarle in maniera coerente. Sentiva solo che prima o dopo tutta quella marea di nozioni le sarebbero tornate utili, le sarebbero servite a definire il senso di inquietudine che avvertiva da sempre nel suo animo. E alla fine, le sue previsioni si erano rivelate esatte.

 

Quando aveva scoperto l’alchimia, tutto quello che aveva studiato si era rivelato estremamente prezioso. Aveva un controllo totale sul proprio youki, e riusciva a scandagliare nel profondo ogni anfratto del suo potere. Non aveva poteri particolari, ma aveva dalla sua un’intelligenza fine e scattante, e la capacità, che affinava col tempo, di agire sul sistema vitale altrui tramite la sua aura demoniaca e le sostanze chimiche. Aveva passato anni dedicandosi a sviluppare quelle capacità, fino all’ultimo esperimento.

 

La yasha chiuse gli occhi, mentre si sfiorava con la mano il plesso solare. La pelle era intatta, e nulla lasciava immaginare quello che era accaduto. Un altro vantaggio dell’esser youkai. Se si è feriti le cicatrici non rimangono se non in casi rarissimi. Una piccola risata. Lei era uno youkai? Poteva ancora definirsi tale? Oh, certo! I suoi poteri e l’aura demoniaca li aveva conservati, addirittura accresciuti, ora era in grado di dare la vita e toglierla semplicemente con lo sguardo. Ma per il resto…non era vivente, ma non era neanche morta. Respirava, il suo cuore batteva, ma nelle sue vene non scorreva più una goccia di sangue. Ricordava bene le sensazioni che aveva provato mentre il sangue le fuoriusciva lento dallo squarcio sul petto. La sua vita che se ne andava lentamente, mentre il suo corpo era scosso da tremiti e convulsioni. Aveva assistito alla sua lenta agonia come se non riguardasse lei stessa. Non aveva provato dolore, non aveva provato sofferenza. Nulla. Attraverso le percezioni confuse, aveva rappresentato nella sua mente l’immagine miserevole del suo corpo ormai prossimo alla fine. Riverso a terra, a coprire il suo stesso sangue che andava a cancellare i simboli alchemici tracciati sul pavimento, con le mani vischiose ancora strette all’elsa del tanto. Di quel maledetto pugnale.

 

Aveva voluto provare; superare i limiti con un esperimento che l’avrebbe resa pari a un kami, se fosse riuscito. Non le importava nulla del potere che ne avrebbe potuto trarre. Il solo pensiero di riuscire a entrare nel buio della morte con piena coscienza per poi ritornare alla vita le sembrava sufficiente. Un pensiero che la eccitava, la entusiasmava. Aveva tracciato cerchi e ideogrammi in una simbologia antica e quasi dimenticata, prodotto di menti umane di cui si era persa la memoria, e vi aveva aggiunto il suo sangue puro di demone. Aveva stretto il tanto demoniaco, ricavato da zanne pregne di youki e lo aveva cosparso di un estratto chimico che avrebbe dovuto indurle una morte temporanea. Ebbra di eccitazione, Yaone si era denudata il seno in una danza lenta e sconvolgente, che l’aveva portata ad accasciarsi a terra su se stessa, quasi prosciugata delle sue forze, mentre una luce verde si sprigionava dall’inchiostro e dai simboli corrotti. Solo quando ormai i contorni erano irriconoscibili per l’intensità di quella luce, la yasha aveva sollevato il pugnale, conficcandoselo in petto con un grido rauco e gutturale. Disumano. Mentre contorceva le mani artigliate e arricciava le labbra a mostrare le zanne sempre più propense ad allungarsi.

 

Di quello che era successo dopo, Yaone conservava solo una memoria confusa. Era stata come catapultata in un frenetico tunnel di luci e ombre, dove immagini confuse saettavano davanti ai suoi occhi. Il passato e probabilmente il futuro. Non era riuscita ad afferrare nulla di tutto quello che aveva visto, eppure aveva piena coscienza del fatto che avrebbe ricordato ogni cosa mano a mano che le si sarebbe presentata. Sentiva la testa pulsarle selvaggiamente, intenta ad immagazzinare la grande quantità di nozioni cui era sottoposta. L’onniscienza propria dei kami, il sapere assoluto e totale proprio solo degli dei si stava riversando in lei con forza. Troppa, perché anche il suo corpo di youkai potesse sostenerla. Aveva cercato di spezzare il contatto. Ma qualcosa non andava. Era come incatenata in quel limbo. Costretta a ripiegarsi costantemente su se stessa. Ansante, dilaniata.

 

Non avrebbe mai saputo dire come, ma si era ritrovata a fissare le ombre inquietanti del soffitto della sua stanza, mentre avvertiva il sangue scivolare dalla ferita al petto, fra le pieghe della pelle e l’acciaio demoniaco del pugnale. Eppure, non aveva voluto morire. Aveva ancora così tanto da sperimentare, da vedere, da studiare. Non aveva voluto morire. Yaone scostò appena i lembi del kimono, mettendo in mostra uno strano tatuaggio. Irregolare, sembrava esser stato tracciato sulla sua pelle col sangue e gli artigli. Una smorfia le storse la bocca mentre ne seguiva i contorni. Quella era stata l’unica cosa che le fosse venuta in mente in quel momento. Legare la sua anima e la sua essenza youki ad un oggetto e poi innestarlo nel suo corpo. Ecco cosa aveva fatto. Si era trasformata in uno shikigami. O in qualcosa di molto simile.

 

Un leggero fruscio la costrinse a ritornare alla realtà. Aveva avuto la sensazione che ci fosse qualcuno, che fosse osservata. Spaziò con lo sguardo la vegetazione circostante, tendendo al massimo i sensi acuti. Se ci fosse stato qualcuno, lo avrebbe individuato e ucciso prima che potesse anche solo pensare di avvicinarsi. Il suo udito fine catturò un lieve fruscio, prodotto dal vento leggero che le carezzava il viso. Poi, un fremito più forte, fra le fronde rinsecchite di un cespuglio. Scattò senza pensare, l’occhio nero rilucente di potere, e calò sulla vittima. La volpe perì immediatamente sotto il suo tocco, prosciugata della sua energia vitale, e rimase a terra immobile e rigida. Yaone si risollevò con un sospiro quasi scocciato. Era molto tesa in quei giorni, e bastava un nonnulla a farla innervosire e scattare. Non temeva la morte, ma non ammetteva che qualcuno osasse sfidarla. Forse, erano proprio quei lati contrastanti del suo carattere la causa del suo dolore. Voleva morire, ma non riusciva a trovare nessuno degno di ucciderla.

 

Riportò la sua attenzione sulla piccola vittima e con espressione neutra si chinò su di lei. Il suo occhio verde sfavillò, mentre lei accarezzava il pelo della volpe. Era così morbido e lucido. Ancora caldo. Dopo pochi istanti, la volpe ebbe un leggero fremito, per poi riprendersi completamente e scartare lontano dalla mano che l’accarezzava. Pericolo. Questo doveva esser passato nella sua mente. E l’istinto l’aveva portata ad allontanarsi. Puro istinto di sopravvivenza. Yaone la vide ringhiare leggermente, mostrando le zanne, e i suoi occhi sfavillare nel buio, prima che si allontanasse. Sapeva che non avrebbe mai potuto ferire un demone, ma non voleva certo mostrarsi debole.

 

La yasha ridacchiò rialzandosi in un fruscio di seta. Quella volpe le assomigliava. Astuta, incapace di rassegnarsi ad una sconfitta, ad una realtà diversa da quella che lei voleva. Scosse la testa, voltandosi per tornare al campo. Orami, la sua assenza rischiava di essere notata ed era meglio non alimentare malumori e tensioni. E poi, doveva accertarsi che tutto fosse pronto. Aveva impiegato molto tempo a organizzare tutto, soppesando ogni cosa con meticolosità e attenzione. Non era certo il caso di farsi prendere dalla fretta e rovinare l’unica occasione possibile. Perché, se avessero fallito, Yaone era perfettamente consapevole che una seconda opportunità non si sarebbe più presentata, e lei voleva quella ningen. Voleva l’unica che fosse riuscita a creare un antidoto al suo filtro, anche se non sempre efficace. La stuzzicava, la intrigava. Quella donna doveva avere delle conoscenze a lei oscure o qualcosa che le aveva fatto intuire cosa usare. E poi, sarebbe stati un ostaggio prezioso, un ottima merce di scambio. In questo modo, sarebbero stati raggiunti due obiettivi: lei avrebbe potuto fare le sue domande, e Morigawa avrebbe avuto in mano un efficace mezzo di ricatto, sempre se fosse stato possibile che il Principe dell’Ovest fosse realmente interessato a quella ragazza. Però, in definitiva, quel dato era irrilevante. Sesshomaru non avrebbe mai tollerato un simile affronto e anche solo per l’avare l’onta di esser stato ingannato e di aver visto la sua dimora violata, avrebbe reagito e giocato il loro gioco. Senza contare che, alla fine, la ragazza sarebbe stata preda di Kagura. Era l’unica condizione che la signora del vento aveva posto per il suo aiuto: dopo che il ruolo della ragazza fosse divenuto insignificante, sarebbe stata sua. Yaone non sapeva il motivo di quell’accanimento, ma lo aveva avvertito chiaramente quando Kagura le aveva fatto la proposta. Odio puro. Le aveva fatto fremere le mani e digrignare i denti in un ringhio ferino.

 

Scrollò le spalle. Non le interessavano le motivazioni della yasha. L’unica cosa che volesse, era carpire a quella ningen alcune informazioni. Per il resto, non le interessava nulla della sua sorte, come non le interessava affatto quella guerra. Si era messa al servizio di Morigawa perché il demone era stato disposto a fornirle il necessario alle sue ricerche, senza remore né restrizioni. In cambio, doveva solo informarlo di qualsiasi scoperta utile contro gli youkai in battaglia. Come quel suo derivato che li prosciugava del loro youki.

 

Si voltò scuotendo il capo, pietrificandosi sul posto. A pochi metri da lei, avvolto dalla nebbia lattiginosa, c’era un uomo. Dannazione! Aveva avuto ragione, allora: c’era davvero qualcuno che la spiava. E quella maledetta volpe le aveva fatto abbassare la guardia. Un errore imperdonabile. Anche se sapeva di non poter morire per una semplice ferita o per il veleno di un demone, il fatto di essersi lasciata sorprendere in modo così ingenuo la faceva infuriare. Ma perché non si era accorta prima di quello sgradito visitatore? Non sembrava provenire nessuna aura demoniaca da lui. Forse si trattava di un ningen; però non riusciva a capire cosa ci potesse fare un essere umano nei territori del Signore dell’Ovest. Nei suoi diretti possedimenti, e con un assedio in corso per di più. Socchiuse gli occhi, cercando di definire il suo viso. Le nubi che avvolgevano la luna permettevano che filtrasse solo una debole luminescenza, appena sufficiente a meglio delimitare le masse, ma senza permettere di disegnare i contorni.

 

“Non sei cambiata, Yaone…”

 

Quella voce…quel timbro basso, vibrante…Possibile che fosse la sua voce? La voce di quella persona? Erano secoli che non la sentiva, ma non l’aveva mai dimenticata. Un tono carezzevole, con una punta di ironia e sorriso. Anche quando si trattava di affrontare argomenti seri, quel tono non veniva mai abbandonato. Ma non poteva essere lui. Lui doveva essere ormai morto. O comunque essere molto anziano. La youki che proveniva da quel corpo, e che adesso riusciva a distinguere chiaramente, era invece vibrante e forte. Sempre più potente, e continuava a crescere, anche se non mostrava alcun intento aggressivo.

 

Sentì una breve risata sarcastica. Di autocommiserazione, e lo vide avvicinarsi, permettendo alla fioca luce di meglio colpire il suo viso. Dalle ombre della notte emerse la figura di un anziano demone, con il corpo asciutto e le membra rinsecchite, e uno sguardo malizioso. Quasi divertito. Il Sensei si stava gustando la sorpresa che lentamente si faceva strada nello sguardo della yasha. Yaone…Bellissima, come l’ultima volta che l’aveva vista, prima che lasciasse il tempio dove avevano studiato assieme. Prima che fosse scacciata e dovesse iniziare a peregrinare senza meta, bollata come eretica. Avrebbe voluto seguirla, ma non lo aveva fatto. L’aveva lasciata andar via, accompagnandola con lo sguardo finchè la sua figura non era scomparsa all’orizzonte.

 

Destino beffardo. L’aveva cercata a lungo, in seguito, e adesso l’aveva ritrovata. Al servizio di un suo allievo. Schierata contro di lui. Nemici come non lo erano mai stati. Identica a quel giorno lontano secoli. Giovane, affascinante, nel pieno della sua bellezza. Che contrasto pietoso in relazione al suo copro ormai vecchio e stanco.

La vide portarsi una mano alla bocca socchiusa per lo stupore. Quanto aveva desiderato quella bocca, quando erano assieme al tempio? Quante volte avrebbe voluto far tacere i suoi deliri alchemici con un bacio? Già allora lui non disprezzava i sentimenti e le inclinazioni umane che esistono anche nel cuore dei demoni. Ed erano stati quegli stessi sentimenti a dissuaderlo, perché ancora troppo inesperto di essi per capire se quello che provava andava oltre la mera attrazione fisica.

 

Ashitaka…?”

 

Un mormorio stretto in gola. Possibile che fosse davvero lui? Che quel corpo raggrinzito nascondesse uno dei demoni più potenti mai comparsi sulla terra? Il suo vecchio amico? No. Era un trucco. Un fantasma della sua mente. Forse la trappola di un qualche servitore di Sesshomaru per confonderla e poi catturarla.

Lo vide abbozzare un sorrisetto malinconico, simile ad una smorfia. Lo stesso modo di arricciare le labbra, di socchiudere gli occhi quando era infastidito o contrariato. Lo stesso atteggiamento. Non poteva essere solo una menzogna. Non poteva essere solo un simulacro.

 

“Era da molti secoli che nessuno pronunciava più il mio nome”

 

Certezze. Ora le aveva. Era davvero lui. L’unico che non l’avesse mai rinnegata. L’unico che, anche dopo la cacciata, non avesse mai ritrattato la loro amicizia. Sfidando tutte le leggi e le convenzioni che vigono anche fra i demoni. Gli si avvicinò sfiorandoli il viso rugoso, avvertendo la pelle secca e tirata. Ma era davvero impossibile sbagliarsi. In quegli occhi ora seri ora smaliziati vedeva lo stesso sguardo di allora. La stessa ombra potente e indomita.

 

“Sei invecchiato…” sussurrò con un sorriso fra il divertito e il malinconico. Anche invecchiare era una condizione che le era preclusa. Lei sarebbe per sempre rimasta così, uguale alla notte di quell’esperimento. La notte in cui aveva cessato di vivere, pur senza morire. Smarrita nelle sue memorie, si avvide troppo tardi delle mani che erano scivolate sul suo petto, fino ai lembi del kimono e che le avevano fatto scivolare la stoffa preziosa, mettendole a nudo quasi completamente il seno. Non se ne era accorta, se non quando aveva avvertito il freddo della notte sulla pelle e l’incupirsi dello sguardo di Ashitaka. Un brivido la colse, ma non per la temperatura rigida. Non avvertiva più nulla attraverso la pelle che non fossero sensazioni distorte, echi lontane delle capacità sensoriali del suo corpo. Il brivido glielo aveva dato quello sguardo. Dolente.

 

“È questo che sei diventata…”

 

Sfiorò il tatuaggio con le mano, seguendone i contorni con delicatezza, quasi col timore che potesse produrle dolore. Uno shikigami. Yaone aveva fatto di se stessa marionetta e burattinaio. Probabilmente, il conduttore era all’interno del suo corpo. Una qualche tessera che recava lo stesso simbolo e che legava la sua natura demoniaca ad un corpo ormai vuoto. Ad una insieme di carne e vasi sanguigni ormai vuoti e privo di calore. Ora aveva senso tutto quello che gli era stato raccontato: la demone che non moriva mai e che non sanguinava…Ora aveva una spiegazione logica ogni frammento di dialogo raccolto. Non si può uccidere chi è già morto. E soprattutto, non si può uccidere chi lega se stesso con l’alchimia a un corpo.

 

“Era l’unico modo per continuare a vivere!”

 

Yaone si liberò dalle mani del Sensei con uno scarto rabbioso. Cosa ne sapeva lui? Era venuto a giudicare il suo comportamento, forse? Lo sapeva che aveva fatto una cosa proibita e che era quasi morta. Anzi, che era morta. Non si era mai chiesto come mai poi si fosse rialzata da sola da quel pavimento, appena un po’ affaticata nonostante la grandissima quantità di sangue perso? Non se l’era mai chiesto?! Cosa credeva? Neanche a lei interessava più vivere. Ormai, aveva visto abbastanza, e quella che inizialmente le era sembrata la condizione ideale, si era rivelata un peso insostenibile nel tempo. Quel marchio e la sua stessa natura la rendevano la prova vivente dell’errore perpetrato. C’era un solo modo per metter fine a quella condizione: distruggere il conduttore nel suo corpo. Ma lei aveva provveduto a fornirgli una potentissima barriera, quando lo aveva innestato. E nessuno, nemmeno lei poteva più rimuoverla. Ecco perchè le serviva la sfera. Ecco perché le bastava esprimere un desiderio. Uno solo. Avrebbe chiesto che fosse distrutto il conduttore nel suo corpo.

 

Ashitaka subì la sfuriata senza ribattere. Probabilmente, Yaone aveva sempre aspettato qualcuno contro cui vomitare la sua rabbia e la sua frustrazione. E lui era l’unico di cui si fidasse. Anche a distanza di molti anni. Ma, benché comprendesse il suo desiderio, non poteva permetterle di rovinarsi fino a quel punto e, se davvero voleva esser cinico, non poteva permettere che Morigawa avesse un alleato così pericoloso. Aveva capito che si trattava di lei fin dal primo giorno in cui era arrivato al palazzo di Sesshomaru, esaminando le ferite per cui erano morti molti demoni. La ningen, l’archiatra, era stata brava a trovare un modo per arginare il composto chimico, anche se non aveva sempre effetto. Tuttavia, il problema doveva esser risolto alla radice, o si sarebbe giunti alla disfatta del Signore dell’Ovest, e lui non lo poteva permettere.

 

“Vieni con me”

 

Non era una domanda. Era un’affermazione precisa, che si era insinuata nella fiumana di parole arrabbiate e sconclusionate di Yaone, zittendola. Le stava dicendo di lasciare tutto e passare dalla parte del nemico. Di tradire il suo obiettivo di impadronirsi della Sfera e di accettare le umiliazioni cui la corte fiera degli inu-youkai l’avrebbero sottoposta. Doveva essere impazzito, o forse non rendersi perfettamente conto della situazione. Rise; una risata roca e amara. Già…in fondo, cosa ne poteva sapere lui, di quello che si prova nell’essere l’esempio vivente di un’azione proibita? Lui era il Sensei, il demone più importante fra tutti, il detentore di una saggezza antica e intoccabile. Lei era perfetto nella sua condotta. Irreprensibile.

 

“Non farmi ridere…Sesshomaru non mi accetterebbe mai alla sua corte”. Una smorfia. “E poi, lì non c’è nulla che mi interessi…”

 

“Tenseiga”

 

Yaone bloccò a metà il suo gesto, incapace di andarsene come aveva deciso. Pietrificata da quella sola parola. Conosceva di fama la spada del regno del cielo, capace di ridare la vita a cento creature con un solo colpo, ma sapeva anche che ci volevano sentimenti umani per esser capaci vedere i servitori dell’aldilà. E Sesshomaru, l’orgoglioso Signore dei demoni, non poteva di certo possederli. La sua crudeltà e la sua freddezza erano note in tutto il Nihon e anche in Zougo ne era giunta l’eco. Anche se la spada si trovava a portata di mano, non le sarebbe servita nulla.

 

“Il ragazzo ha imparato a usarla”

 

Aggiunse il Sensei, intuendo i suoi pensieri e cercando nuovamente di convincerla. Se fosse riuscito a portarla a palazzo, avrebbe di molto intaccato la forza offensiva di Morigawa e c’era la possibilità che la yasha potesse guarire il Principe dalla cecità che un suo stesso ritrovato gli aveva provocato. Per quanto riguardava il desiderio di Yaone, poi, ci avrebbe pensato lui a convincere Sesshomaru a non impuntarsi e a cedere. A costo di prenderlo a schiaffi. Comunque, pensava ormai di sapere come prendere il figlio di Inutaisho. Aveva fatto pratica con la cocciutaggine paterna, ormai.

 

  
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